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Quali sono l'ambito e la portata del Principio di precauzione

( 22 Giugno 2005 )

( scritto da Gavino Zucca Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Vorrei esprimere alcuni commenti in merito alla rassegna stampa del 7 giugno 2005, relativa al Principio di Precauzione (PdP).


Francesco Sala, "Gli OGM sono davvero pericolosi?", Laterza, 2005

Vedi anche, in questo sito, la Segnalazione del 31 maggio 2005

La prima considerazione è che certamente vi è del giusto in alcune delle critiche espresse da alcuni degli autori citati. Ad esempio, ha ragione Sala quando auspica che il PdP non si trasformi in un "principio di blocco". E la richiesta del ministro Alemanno, citata da Katia Mammola, di ricerche scientifiche che assicurino l'innocuità degli ogm destinati alle nostre tavole, rappresenta il tipico esempio di atteggiamento poco consapevole della reale entità delle certezze (o, se si vuole, delle incertezze) che la scienza è in grado di fornire in proposito.

È indubbiamente vero che il PdP viene talvolta invocato a sproposito e in modo assurdo e ingiustificato. A sproposito, perché se ne richiede l'applicazione anche per attività che non hanno il carattere di pericolo potenzialmente globale e irreversibile. In modo assurdo, perché si pretendono certezze che non è possibile fornire e, in assenza di queste, l'unica misura precauzionale che si richiede è il blocco più o meno totale. E ingiustificato perché le prove a favore di un intervento sono spesso estremamente controverse e prive di qualunque tipo di fondamento.

Tuttavia la reazione di chi riconosce questi abusi è spesso altrettanto estrema, e tende a semplificare eccessivamente la questione mediante la richiesta di abolizione del principio tout-court (sempre, tuttavia, con riferimento ad un PdP che richiederebbe certezze assolute su una determinata attività prima che questa possa essere diffusa). E naturalmente questa posizione estrema non può che alimentare una contrapposizione fra le parti, un muro contro muro al quale non v'è rimedio, e in cui l'unica via di fuga dall'impasse è rappresentata dal diritto del più forte, che a seconda delle circostanze può essere o il partito ambientalista o quello dei produttori.

Vedi, in questo sito, il Percorso sul Principio di Precauzione

Una delle cose che più sorprende è come, in tutte le controversie intorno al PdP, sia difficilissimo trovare un riferimento corretto al suo vero enunciato, quello contenuto nella Dichiarazione di Rio delle Nazioni Unite, il quale non esprime né doveri, né obblighi, né divieti, ma enuncia solamente un diritto, una possibilità. Quando si analizza il dibattito intorno al PdP colpisce l'apparente incapacità (o meglio, la mancata volontà, probabilmente) di esprimere tale principio in maniera formalmente corretta. Sembra quasi che vi sia, da parte di molti, poco interesse a fare chiarezza, e che ci si pari dietro le ambiguità e lo scontro per negare una verità che, forse, è un po' scomoda per tutti.

Il problema, in realtà, come molti riconoscono, non è tanto quello della precauzione in sé, quanto dell'uso strumentale che di essa si può fare. Il problema sembra sorgere soprattutto quando il PdP, da principio prescrittivo di carattere generale, diventa invece un principio normativo di azione. Anziché suggerire un atteggiamento con cui affrontare i possibili rischi, diventa per alcuni uno scudo da innalzare per giustificare richieste di moratoria e blocco di ogni intervento. Ciò porta ad atteggiamenti in cui una determinata tecnologia viene rifiutata in toto, con motivazioni dall'apparenza sostanzialmente irrazionale e poco informata (opposizione al processo), mentre sarebbe probabilmente più proficuo per tutti valutare separatamente i diversi prodotti e trovare le eventuali soluzioni caso per caso (opposizione al prodotto).

Tuttavia, dal riconoscimento di un uso talvolta errato non discende necessariamente che il principio in sé sia da rigettare. Quello che serve è un dibattito serio e pacato in cui, partendo dall'enunciazione di un diritto espresso in una forma molto generale, si cerchi di definirne le linee implementative e di delinearne gli ambiti di applicazione e i limiti di validità. La Rivoluzione francese, con la sua enunciazione dei diritti alla libertà e uguaglianza, ha certamente prodotto anche eventi catastrofici, come il Terrore. Ma come sarebbe oggi il nostro mondo se, in conseguenza di questi eccessi, si fossero rigettati quei due principi fondamentali?

Per chiarire meglio questo punto vorrei proporre una breve analisi del vero enunciato del PdP e del significato di una sua negazione. Anzitutto, il PdP è così definito: ove vi siano minacce di un danno serio o irreversibile, la mancanza di una piena certezza scientifica non potrà essere usata come una ragione per posporre l'adozione di misure, efficaci rispetto ai costi, volte a prevenire il degrado ambientale.

Qual è l'ambito della precauzione
[ vedi anche annotazione di G.M. Borrello ]

Per prima cosa è importante chiarire a quale tipo di certezze scientifiche faccia riferimento il PdP. L'enunciato suggerisce una suddivisione grossolana, ma efficace ai fini di questa breve esposizione, delle attività umane in due grandi insiemi: da un lato quelle per le quali è certa la nocività (come ad esempio l'energia nucleare), e per l'utilizzo delle quali è necessaria un'attività di prevenzione; e dall'altra le attività per le quali non è stata (finora) riscontrata alcuna correlazione con un qualunque effetto nocivo; in questo caso, non si può affermare che l'attività sia innocua, ma solo che vi è incertezza sugli effetti nocivi. Solo quest'ultimo è l'ambito della precauzione.

Si noti che, di fatto, non esiste un terzo insieme. Non esiste un insieme di attività innocue con certezza, proprio in riconoscimento dell'incertezza intrinseca delle conoscenze scientifiche. In tutto ciò esiste una evidente asimmetria: si può sapere con certezza che un'attività è nociva, mentre non si potrà mai sapere con certezza che è innocua. È indubbio che, in conseguenza di ciò, esista anche una asimmetria nell'onere della prova. Basta una prova per dire che un'attività è potenzialmente nociva, e va dunque regolamentata, mentre infinite prove che garantiscono la non esistenza di una relazione causa-effetto non possono escludere che l'ennesima prova dia invece un risultato differente (è sostanzialmente la famosa critica di Hume al procedimento di induzione). E questo è ciò che giustamente affermano gli scienziati: è assurdo pretendere certezze sulla innocuità.

Che cosa dice il Principio di precauzione

Ma, e qui siamo al punto fondamentale, non è questo ciò che richiede il vero PdP, il quale enuncia semplicemente il diritto di essere precauzionali quando ci si trova di fronte ad un'attività su cui vi è incertezza circa gli effetti nocivi. Esso non impone l'obbligo di essere precauzionali quando non si ha la certezza sull'innocuità, come invece pretenderebbero sia i difensori che i detrattori estremi. Può essere utile, per chiarire tutto ciò, immaginare un potenziale dialogo fra un sostenitore dell'approccio precauzionale e un sostenitore dell'approccio tradizionale al rischio (che prevede sostanzialmente di intervenire una volta che il pericolo e l'eventuale danno siano noti). Espongo due dialoghi possibili, che fanno riferimento a due diversi tipi di certezze:

DIALOGO 1:

P - "Propongo di adottare una misura precauzionale perché ritengo che questa attività, se dovesse rivelarsi nociva, avrebbe effetti globali e irreversibili"

T - "Secondo me si dovrebbe invece rinviare qualunque azione, in attesa di avere una certezza del fatto che questa attività sia effettivamente pericolosa"

DIALOGO 2:

P - "Propongo di adottare una misura precauzionale perché ritengo che questa attività, se dovesse rivelarsi nociva, avrebbe effetti globali e irreversibili"

T - "Secondo me si dovrebbe invece rinviare qualunque azione, in attesa di avere una certezza del fatto che questa attività sia effettivamente sicura"

Il secondo dialogo è palesemente assurdo, il che dimostra a mio parere che la certezza a cui fa riferimento il PdP può essere solo quella sull'esistenza di un pericolo. Solo il primo dialogo rappresenta effettivamente il confronto fra chi intende gestire il rischio ambientale in modo precauzionale e chi invece in modo tradizionale. E dunque il PdP fa riferimento alla certezza della nocività, che è conseguibile, e non alla certezza dell'innocuità, che non è conseguibile. Chi accusa il PdP, invece, troppo spesso scambia i due tipi di certezza e afferma che il PdP richiederebbe la certezza sulla innocuità.

Esiste, ad onor del vero, almeno un'altra interpretazione di cosa rappresentino le certezze cui fa riferimento il PdP. Secondo questa prospettiva, il PdP si baserebbe su una visione della scienza in cui lo stato normale di un insieme di conoscenze è quello in cui viene raggiunta la certezza di queste conoscenze, mentre in alcuni campi si attraverserebbe una fase iniziale, per così dire, rivoluzionaria, in cui vi sono profonde incertezze le quali, tuttavia, tenderanno col tempo a risolversi in certezze. Secondo questa interpretazione, il PdP richiederebbe misure precauzionali durante le fasi rivoluzionarie, fino a quando non sia raggiunto lo stato stabile col conseguimento della certezza. Anche questa prospettiva tuttavia si scontra col fatto che, se così fosse, il PdP risulterebbe talmente assurdo da rendere impensabile l'idea che qualcuno possa averlo elaborato. Proviamo infatti a ricorrere a un terzo dialogo, che esprime questo tipo di interpretazione:

DIALOGO 3:

P - "Propongo di adottare una misura precauzionale perché ritengo che questa attività, se dovesse rivelarsi nociva, avrebbe effetti globali e irreversibili"

T - "Secondo me si dovrebbe invece rinviare qualunque azione, in attesa di raggiungere lo stadio in cui avremo una conoscenza certa su questo argomento"

L'unica interpretazione del Principio di precauzione che appare corretta da un punto di vista logico

Appare superfluo commentare ulteriormente la palese assurdità di un simile dialogo che, pertanto, non può esprimere correttamente il significato del PdP. L'unica interpretazione del PdP che appare corretta da un punto di vista logico è pertanto quella in base al quale esso esprime la possibilità (e non l'obbligo) di adottare misure precauzionali anche quando non si ha la certezza scientifica che vi sia un pericolo. Si tratta di un diritto, come già detto, e non di un dovere.

Un secondo esperimento mentale interessante consiste nel vedere a quali conclusioni si giunga negando un PdP definito in questo modo. Il PdP dice "si può essere precauzionali se...". La sua negazione è "NON si può essere precauzionali se...".

Come si vede, negando l'esistenza di un PdP si dovrebbe affermare che non si può (non si ha il diritto) di essere precauzionali (si noti anche che il PdP non fa riferimento a un pericolo qualunque, ma a pericoli gravi, estesi e irreversibili). Negare il PdP significa negare il diritto che una comunità ha di adottare misure per la propria protezione. Cioè, in linea di principio, chiunque potrebbe a piacimento introdurre attività/processi/innovazioni senza che le comunità possano opporre alcun tipo di veto o limitazione, a meno che non riescano a provare, a proprie spese se nessuno le aiuta, che vi è una correlazione fra quella determinata attività e un effetto nocivo. Se è vero che gli eccessi del principio hanno portato a degli assurdi e a degli abusi, a cosa potrebbe condurre l'impossibilità per una comunità di agire in propria difesa in maniera preventiva e precauzionale? Se si può dubitare della buona fede di una parte, è lecito dubitare della buona fede anche della parte opposta, e il non enunciare il diritto alla precauzione a livello giuridico implica l'impossibilità delle comunità a difendersi, se lo ritengono necessario.

Certo, si può affermare che il PdP inteso in questo senso sia un enunciato generale e ambiguo. Sala afferma che esso è ormai un metacriterio giuridico. Probabilmente è vero, ma proprio questo è il significato di tutti i principi generali enunciati nelle varie Dichiarazioni dei diritti, e che hanno trovato la massima espressione nelle Costituzioni delle nazioni moderne. Il termine meta (oltre, al di là), può anche indicare un qualcosa che sta sopra, che appartenendo a un ordine gerarchicamente superiore, include in potenza qualcosa che risiede in un livello immediatamente inferiore. Esattamente come una norma costituzionale e le leggi che da essa discendono.

Resta chiaramente il problema dell'implementazione corretta del PdP, della definizione di regole giuridiche pratiche per il giusto dosaggio dei vari diritti in conflitto e per la corretta attribuzione dell'onere della prova. Da un lato è certamente assurdo spostare tale onere interamente sui produttori (soprattutto se a questo si accompagna la richiesta inesaudibile di certezze assolute sull'innocuità). In base a quanto detto, è evidente che l'unica richiesta realmente esaudibile, almeno da un punto di vista logico, sarebbe quella sull'esistenza di un rischio, conseguibile mantenendo l'onere della prova dalla parte di chi vuole imporre misure precauzionali. Tuttavia, quanto tempo e quante risorse sono richieste per ricercare un effetto dannoso? E quanti danni possono essere stati prodotti nel frattempo? Anche la ricerca della dannosità può essere, se non teoricamente, almeno praticamente infinita, e quindi altrettanto inesaudibile da un punto di vista pratico. E anche restando nel campo di un puro criterio di calcolo costi-benefici, se dei danni possono essere provocati da un approccio precauzionale, quali altri danni (e quantificabili come?) possono essere causati da un'attività che solo dopo un uso prolungato si scopre aver provocato danni globali e irreversibili? In più si deve tenere conto che non possono essere messi sullo stesso piano il diritto di una comunità a difendersi e quello di una azienda di produrre dei profitti. E, anche se i vari diritti fossero equiparati, è necessario trovare tra di essi un compromesso, non abolire il principio spostando di fatto l'ago della bilancia totalmente dalla parte di coloro che producono

Il problema è complesso, non v'è dubbio. Ma lo è perché sempre più complessi sono gli ambiti su cui hanno effetto le applicazioni della scienza. Nessuna soluzione semplicistica può essere una risposta adeguata. Né di chi si illude di poter creare le condizioni di un mondo sicuro semplicemente non facendo niente, né di chi minimizza l'importanza di ricercare una decisione collegiale che tenga conto di tutte le conoscenze e di tutte le esperienze, reputando che la sola conoscenza scientifica possa dare una risposta ad un problema che non è scientifico, ma politico.

Gavino Zucca
(docente di fisica presso l'ISIS Archimede di San Giovanni in Persiceto (BO), laureato in Fisica all'Università di Pisa e in Filosofia all'Università di Bologna)

In questo sito, tra gli articoli più recenti in argomento si vedano:

Annotazione di G.M. Borrello:
Mi pare importante evidenziare la sintonia tra la posizione espressa da Gavino Zucca e quella di Olivier Postel-Vinay, direttore di "La Recherche". Postel-Vinay, in un articolo del 2001, scriveva:
«Che dice il principio di precauzione? Che le autorità pubbliche, di fronte a un rischio la cui esistenza sembra plausibile ma non è o non è ancora scientificamente dimostrata, possono prendere misure di controllo o di interdizione proporzionale alla gravità del rischio potenziale individuato.
(...)
Il grande pubblico, ma anche una parte acculturata della società, che va dai giornalisti agli uomini politici, confondono principio di precauzione e principio di prudenza.
(...)
La ragione è semplice. A un concetto tecnico è stato dato un nome che è comprensibile da tutti, ma che nel linguaggio corrente ha un altro significato. Grave errore di strategia semantica! Per garantire il successo mediatico di un concetto tecnico senza snaturarlo, bisogna dargli un nome suggestivo che non possa prestarsi a equivoci».

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Innovazione, Medicina e Responsabilità: Lecture di Daniel Callahan e altre risorse [15/06/05]

Innovation, Medicine and Responsibility: Daniel Callahan's Lecture and other resources

( 13 Giugno 2005 )

( scritto da Redazione FGB Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Daniel Callahan

Lecture che Daniel Callahan ha tenuto il 21 febbraio 2005 presso l'Università Cattolica di Milano

Call for Comments svoltosi in questo sito dal 26 gennaio al 28 febbraio

Dalla prima pagina del Call for Comments è possibile raggiungere numerose risorse documentali [*] relative all'argomento trattato e a Daniel Callahan

Seminario del 21 febbraio 2005 presso la Fondazione Bassetti.

Intervista a Callahan

Altre risorse

  • Intervista a Thomas Murray (Presidente dello Hastings Center, l'Istituto di ricerca presso Garrison, New York, diretto da Callahan, che ne è stato cofondatore) su genomica e medicina sostenibile (link inserito il 15 giugno 2005)
-----------------------------------
[*]
Profilo di Daniel Callahan; Estratti dal libro di Callahan La medicina impossibile; Recensione del libro La medicina impossibile a cura di Sebastiano Maffettone; Prefazione all'edizione italiana di La medicina impossibile; due articoli che riflettono sul tema del libro; pagina di Amazon su False Hopes; pagina informativa su Callahan, edita da Lawrence M. Hinman; Raccolta di materiali su Daniel Callahan, a cura di Paola Parmendola. Tutti raggiungibili dalla colonna di sinistra nella prima pagina del Call for Comments.


Lecture 21th February, Università Cattolica, Milan

Call for Comments developed in this site from January 26th to February 28th

From the front page of the Call for Comments you can reach other information resources about the topic and about Daniel Callahan

Seminar, 21 February 2005 at Bassetti Foundation.

Interview with Callahan

Other resources

  • Interview with Thomas Murray (President of The Hastings Center, the research institute in Garrison, New York, directed by Callahan, who was a co-founder) about genomics and sustainable medicine
-----------------------------------
[*]
Daniel Callahan's profile; Estratti dal libro di Callahan La medicina impossibile; Recensione del libro La medicina impossibile a cura di Sebastiano Maffettone; Prefazione all'edizione italiana di La medicina impossibile; due articoli che riflettono sul tema del libro; page in Amazon about False Hopes; information page about Callahan, edited by Lawrence M. Hinman; documents gathered by Paola Parmendola [partly in english]. All located inside the left column in the first page of the Call for Comments.

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Antropologia dell'innovazione

( 8 Giugno 2005 )

( scritto da Redazione FGB Cliccare sul link per scrivere all'autore )

A partire da martedi 7 giugno in questo sito è presente una nuova rubrica (blog): "Antropologia dell'innovazione". A cura di Cristina Grasseni, è dedicata a una ricognizione bibliografica e sitografica sugli aspetti antropologici dell'innovazione e della responsabilità, prendendo in considerazione sia alcuni casi etnografici "locali" che alcune riflessioni sugli aspetti globalizzanti dell'innovazione e della responsabilità e intende coniugare un aspetto di servizio, segnalando ricerche e siti relativi a favore dei lettori del sito, con quello scientifico della ricerca.

Il primo articolo, "Slow Food Fast Genes", è una sintesi di una ricerca presentata a nome dell'Università di Bergamo e della FGB alla Association of Social Anthropologists in occasione del convegno annuale del 2005 ad Aberdeen: un primo esempio di caso etnografico "locale" che suscita riflessioni sugli aspetti globali dell'innovazione e della responsabilità.

La rubrica svilupperà la ricognizione bibliografica e sitografica sugli aspetti antropologici dell'innovazione e della responsabilità proprio cercando di collegare la dimensione locale e quella globale dell'antropologia dell'innovazione. Per esempio, gli aspetti legati al territorio e ai prodotti locali, ma anche segnalando testi recenti su ricerche etnografiche sulle comunità di pratica (Lave, Wenger) e su riflessioni più "globali" sulle comunità creative (Florida), sull'economia dell'attenzione (Davenport e Beck), sulle Audit cultures (Strathern).

I lettori possono inviare sin d'ora commenti, suggerimenti e comunicazioni a Cristina Grasseni.

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