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Tutti gli interventi di Marzo 2006
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TUTTI GLI ARGOMENTI
trattati da Aprile 2000 (avvio del sito) ad Agosto 2005

Gli indici coprono il periodo che va fino ad Agosto 2005, mentre da Settembre 2005 gli Argomenti possono essere seguiti, in progressione cronologica, accedendo agli ARCHIVI (mensili) che si trovano in questa pagina, sotto l'elenco degli interventi.
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[10 settembre 2005]
Leggi il "commento" scritto da Gavino Massidda in relazione al dialogo Cosa vuol dire che una cosa vale, e che vale poco o tanto?

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1 Aprile : Chiusura prevista per il Call for Comments "Quale responsabilità?"

April 1st : Closing of the Call for comments "Which responsibility?"

( 25 Marzo 2006 )

( scritto da Redazione FGB Cliccare sul link per scrivere all'autore )


Azione e responsabilità
(fai clic per leggere alcune spiegazioni sull'immagine

Dall'ultimo post di Cristina Grasseni, curatrice del Call:

Ringraziando tutti coloro che hanno finora partecipato al Call, approfitto della necessità di fare l'annuncio della sua prossima chiusura, prevista per il 1 Aprile, per rilanciare alcuni aspetti della problematica sollevata.

Con questo Call si vuole ragionare su cosa si intenda per responsabilità dell'innovazione rispetto allo scenario attuale della globalizzazione e rispetto a una sua lettura improntata all'epistemologia della complessità.
[...]
Potrebbe essere interessante considerare la responsabilità dell'innovazione in termini di responsabilità nella produzione della conoscenza: la recente intervista a Ignacio Chapela condotta da Jeff Ubois per conto della Fondazione segue proprio questa falsariga.
Chapela sostiene che la responsabilità dell'innovazione consisterebbe nel garantire la diversità del pensiero contro l'iper-specializzazione, allo stesso modo in cui occorre garantire la biodiversità. Ecco perché la sua critica dei circoli viziosi nel sistema di peer-review per la pubblicazione degli articoli scientifici merita attenzione, al di là della sua vicenda personale e intellettuale.
[...]
Ci si potrebbe chiedere (e si dovrebbe chiedere loro) se gli innovatori influenti sono consci del loro ruolo nella storia, e se si pongono la questione della politicità del loro agire. In altri termini, si pongono il problema degli scopi e della direzione in cui si muovono le loro innovazioni?
Parrebbe di no, se, come nota Daniele Navarra riportando il suo colloquio con Nicholas Rose ("Science, politics and responsibility: an agenda for the governance of innovation and technology"), «ciò che la biotecnologia, la genetica e le tecnologie dell'informazione e della comunicazione hanno in comune è che sono state tutte introdotte senza poter prevedere quali ne sarebbero stati gli effetti sul lungo e medio periodo».
Rimangono perciò aperte tutte quante le domande poste inizialmente, che riassumiamo e rilanciamo così:
1. Politiche culturali
Con quali politiche culturali si può accrescere la sensibilità verso responsabilità dell'innovazione?
2. Misurando
Come si può misurare e/o implementare il grado di responsabilità di un innovatore?
3. Definendo
In che misura la responsabilità dell'innovazione è definita dal contesto e in particolare dai vari attori che con essa interagiscono?
4. Immaginando
In che modo possiamo immaginare scenari responsabili dell'innovazione? Se ne può citare qualcuno di storicamente accaduto?

SCRIVI LA TUA OPINIONE

From the latest post written by Cristina Grasseni, editor of the Call:

First of all thanks to all those who have so far contributed to this Call for comments, which I plan to close on April 1st. I briefly recapitulate the line of reasoning followed so far.

We launched this Call with the intention of debating how to re-define the notion of "responsibility in innovation", with respect to the contemporary scenarios of globalization and the epistemological notion of complexity.
[...]
It would be interesting to consider responsibility in innovation in terms of responsibility in the production of knowledge. The recent interview to Ignacio Chapela by Jeff Ubois follows exactly this course.
Chapela maintains that responsibility in innovation consists in guaranteeing diversity of thought against hyper specialisation, analogously to biodiversity. This is why his critique of the vicious circles in the peer-review system deserves attention beyond his personal plight.
[...]
One should ask whether innovators are aware of their relevance in history, and whether they consider the political outcomes of their actions. Do they pose themselves the question of the aims and scopes of their innovations?
One would think not, if, as Nicholas Rose notices in his conversation with Daniele Navarra ("Science, politics and responsibility: an agenda for the governance of innovation and technology"), «What biotechnology, genetics and technologies of information and communication have in common is that have been introduced without the possibility to predict what the medium to long term implications would be».
The initial questions are all open, and I sum them up thus:
1. Politics of culture
Which politics of culture can increase public sensibility towards the responsibility of innovation?
2. Measuring
How could one measure and/or implement the degree of responsibility of an innovator?
3. Defining
How much is responsibility in innovation defined by context, and by the various actors that interact in it?
4. Envisaging
How can we envisage responsible scenarios of innovation? Can one cite a few that have been implemented

PLEASE, WRITE YOUR OPINION

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An Interview With Dr. Ignacio Chapela

( 12 Marzo 2006 )

( scritto da Jeff Ubois Cliccare sul link per scrivere all'autore )
Ignacio Chapela Jeff Ubois

Ignacio Chapela is an assistant professor at University of California Berkeley, who, with colleague David Quist, discovered that illegally grown, genetically modified corn contaminated traditional heirloom corn in Oaxaca, Mexico. That discovery touched off a major controversy, and illuminates many of the issues related to responsibility in innovation that most concern the Fondazione.

You can read the full text here.

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Innovazione ed economia sostenibile [ * ]

( 4 Marzo 2006 )

( scritto da Roberto Panzarani Cliccare sul link per scrivere all'autore )

“ La leadership è creare un mondo
a cui le persone desiderino appartenere”

Robert B. Dilts


Nei due ultimi decenni il mondo è divenuto complessivamente più ricco; ma mentre alcune nazioni hanno conseguito grandi risultati economici, altre sono rimaste indietro. La crescita della ricchezza globale non ha abolito e neppure ridotto la povertà.
Quasi dovunque, la globalizzazione ha fatto sorgere da un lato un nuovo ceto di multimilionari, e dall’altro una classe povera; e non soltanto nel senso statistico del termine – riferito ai livelli di reddito sotto la metà della media nazionale – ma con l’aggravante dell’esclusione delle opportunità che dovrebbero essere aperte a tutte. Se il dinamismo della globalizzazione è andato a beneficio di molti, al tempo stesso ha accentuato le disuguaglianze.
Esiste oggi una distanza quasi inimmaginabile tra i paesi estremamente ricchi e quelli estremamente poveri ed una gamma completa di possibili situazioni intermedie. Ruolo fondamentale nel processo di sviluppo è giocato dalla scienza e dalla tecnologia. Guardandoci un po' attorno scopriamo che: in Malawi, l’ 84% della popolazione vive in contesti rurali; in Bangladesh il 76%; in India, il 72%; e in Cina, il 61%. Negli Stati Uniti al capo opposto del processo di sviluppo, la media è del 20%.
Se lo sviluppo economico è raffigurabile come una scala in cui i gradini più alti rappresentano le tappe di avvicinamento al benessere economico, al livello più basso troviamo circa 1 miliardo di persone, i più poveri fra i poveri o gli estremamente poveri del pianeta: troppo malati e affamati lottano ogni giorno per la sopravvivenza.
Quello che riescono a guadagnare, ogni giorno, si misura in centesimi, non in dollari. Qualche gradino oltre, lungo la scala, al vertice del mondo povero si trova circa un altro miliardo e mezzo di persone. Parliamo dei “poveri”.
Lottano per sbarcare un misero lunario, nelle città e nelle campagne, la loro vita è caratterizzata da ristrettezze economiche costanti e dalla mancanza dei più elementari comfort, come acqua potabile e servizi igienici.
Ad oggi, gli estremamente poveri sono circa 1 miliardo di persone e i poveri 1 miliardo e mezzo rappresentando circa il 40% della popolazione mondiale. Altri 2 miliardi e mezzo di persone, si trovano qualche gradino sopra, nei paesi a reddito medio. Sono famiglie con un reddito pari alla media globale, ma non possono essere confrontati con le famiglie della classe media dei paesi ricchi: hanno i comfort di base nella propria casa, vivono per la maggior parte in città; hanno un abbigliamento idoneo e i loro figli frequentano la scuola; la loro alimentazione è adeguata.
Salendo ancora qualche gradino troviamo il rimanente miliardo di persone, circa un sesto della popolazione mondiale, che vive nei paesi ad alto reddito. Queste famiglie benestanti vivono, nella stragrande maggioranza in paesi ricchi, ma sta aumentando il numero di quelle che rappresentano l'élite economica dei paesi a reddito medio: le decine di milioni di ricchi che vivono in città come Città del Messico, Shanghai o San Paulo.
La buona notizia in uno scenario così buio, è che più della metà del mondo sta progredendo economicamente. Il progresso è evidente nell’aumento del reddito personale e nella diffusione di beni come telefoni cellulari, apparecchi televisivi, ma ancor più nella lettura dei parametri statistici cruciali per la definizione del benessere, come l’aumento dell’attesa media di vita, la diminuzione del tasso di mortalità infantile, l’aumento del livello di istruzione scolastica, la diffusione dell’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici.
Ma il più grande dramma del nostro tempo è che un sesto dell’umanità non è neppure al primo gradino della scala dello sviluppo. Un enorme numero di persone è vittima della trappola della povertà estrema ed è impossibilitato a sottrarsi con le proprie forze a questo stato di totale deprivazione materiale. Una trappola fatta di malattia, isolamento fisico, esposizione al cambiamento climatico, degrado ambientale ed estrema povertà in se stessa.
I dubbi sulla globalizzazione rispecchiano anche questo nuovo stato d’animo, e sono in gran parte l’equivalente a livello planetario di quelle proteste contro le disuguaglianze.
E’ indispensabile riconoscere che nonostante il grande contributo che un’economia globale può senza alcun dubbio dare alla prosperità del mondo dobbiamo far fronte anche a vastissimi fenomeni di disuguaglianza e ingiustizia planetaria. Di fatto non c’è nessun vero conflitto tra il volere resistere a tale disuguaglianza e ingiustizia e il capire e assecondare gli aspetti positivi che le relazioni economiche, sociali, culturali e globalizzate hanno in tutto il mondo.
La resistenza alle disuguaglianze globali richiede iniziative sia globali, sia nazionali, sia locali.
Centrale diventa in questo scenario l’esigenza di creare e tenere in vita comunità sostenibili, ovvero ambienti sociali, culturali e fisici nei quali possiamo soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni senza danneggiare le generazioni future.
Sin dalla sua prima introduzione nei primi anni 80, il concetto di sostenibilità è stato spesso distorto, abusato e persino banalizzato da un uso esterno al contesto ecologico che gli dà il significato corretto.
Ciò che è “sostenuto” in una comunità sostenibile, non è la crescita o lo sviluppo economico, ma l’intera rete della vita da cui dipende la nostra sopravvivenza a lungo temine. Il primo passo in questo direzione, deve essere, l’ “ecoalfabetizzazione”: comprendere i principi organizzativi che gli ecosistemi hanno sviluppato per sostenere la rete della vita. L’ecoalfabetizzazione è una dote per i politici, gli uomini d’affari e i professionisti in tutti i campi. Di più, l’ecoalfabetizzazione sarà fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità nel suo insieme, quindi costituirà la parte più importante dell’educazione ad ogni livello: dalle scuole ai college, dalle università ai corsi di specializzazione per professionisti.
Per diventare “ecoalfabeti” dobbiamo imparare a pensare in modo sistemico: cioè in termini di interrelazioni di contesti e processi. Quando il pensiero sistemico viene applicato allo studio dell’ecologia, scopriamo che i principi organizzativi degli ecosistemi sono i principi fondamentali di tutti i sistemi viventi, gli schemi basilari della vita. Per esempio, possiamo osservare che in un ecosistema non esistono rifiuti; che esistono dei cicli continui che attraversano la rete della vita; che l’energia che guida questi cicli ecologici fluisce dal sole; che la vita, sin dai suoi inizi (più di tre miliardi di anni fa), non ha conquistato il pianeta lottando, ma cooperando, associandosi e tessendo una rete di contatti.
Il compito principale negli anni a venire, sarà applicare la nostra consapevolezza ecologica e il pensiero sistemico alla riprogettazione radicale delle tecnologie e delle istituzioni sociali, in modo da colmare l’attuale divario tra la progettazione umana e i sistemi ecologicamente sostenibili della natura.
La progettazione nel senso più vasto, consiste nel modellare materiali e flussi di energia per scopi umani. Ma quello a cui dobbiamo puntare oggi è l’ecodesign, un processo di progettazione nel quale i nostri scopi umani sono scrupolosamente adattati ai più grandi principi e flussi del mondo naturale.
In altre parole i principi dell’ ecodesign dovrebbero riflettere i principi organizzativi che la natura ha sviluppato per sostenere la rete della vita.
Negli ultimi anni, sociologi, fisici, biologi, hanno trovato moltissime correlazioni tra il funzionamento della società umana e quello di altre realtà apparentemente distanti, quali la cellula, l’ecosistema globale, internet, l’apparato neuronale, il sistema stradale o ferroviario di una nazione.
Gli esseri viventi non sono individui isolati, a sé stanti, ma sono immersi in una rete di relazioni: la vita, cioè, è tale solo in quanto si struttura come sistema, come una rete in cui tutti i diversi organismi trovano la propria realtà.
La scienza “delle reti”, sta decifrando la struttura organizzativa sottesa a questi mondi, ed è arrivata a dimostrare che le relazioni personali, il nostro cervello, la propagazione di virus, la comunicazione e i trasporti agiscono tutti secondo gli stessi schemi: vere e proprie reti che sono il principio nascosto comune a tutto il nostro universo e che lo rendono molto più semplice da interpretare di quanto immaginiamo.
Sono i legami sociali deboli a tenere insieme una società e che , in ultima analisi sono veicoli del piccolo mondo.
Dovremmo incominciare a pensare all’individuo come nodo integrato di una complessa ragnatela di legami sociali, economici e istituzionali. Nello spazio dei network, due nodi possono essere intimamente connessi tra loro a prescindere dalla loro vicinanza fisica o sociale. Ovviamente, le interferenze sociali e fisiche non perdono la loro importanza – spesso conosciamo delle persone perché ci abitano vicino o perché sono simili a noi per certi versi, come il grado di istruzione o la professione che svolgono – ma adesso sappiamo che esiste una relazione tra tali fattori e lo spazio dei network, una relazione che per anni è rimasta un mistero.
Oggi il problema più affascinante e pressante è quasi sempre quello di comprendere la sottile ed intricata alchimia organizzativa delle reti complesse.
Possiamo infatti osservare come ogni rete tende alla integrazione dei suoi componenti in una unità superiore che sembrerebbe comportare l’insorgere di nuove proprietà (emergenti). Ne è un esempio il nostro stesso corpo, formato milioni di cellule (ognuna delle qual è un organismo microscopico ma di estrema complessità) che obbedendo ad una complessa distribuzione di funzioni si specializzano, gestiscono il processo della vita interagendo le une con le altre, appunto come una rete di grandissima complessità, che almeno nell’uomo prelude all’emergere dell’unità superiore, dell’organismo, e persino del Sé, della mente e della coscienza. La nascita insomma dal caos della complessità di un sistema di elementi di ordine e di una organizzazione che sembra dotata di proprietà emergenti ignote agli elementi originali del sistema stesso: una proprietà di autorganizzazione definita “autopoiesi”.
Ciò che definisce le caratteristiche dei sistemi biologici sono i processi metabolici, il flusso incessante di energia e materia attraverso una rete di reazioni chimiche che consentono ad un organismo di ripararsi, rigenerarsi e quindi perpetrarsi. La comprensione del metabolismo richiede però di tener conto di due aspetti differenti: il flusso di materia ed energia e la rete delle reazioni chimiche. Il primo viene analizzato dal punto di vista della materia e usa i linguaggi della chimica. Il secondo richiede un punto di vista formale e l’uso del linguaggi formali (ordine, organizzazione, complessità, etc.). i processi che comportano l’emergenza di nuove proprietà del sistema vanno quindi compresi nella prospettiva della materia, mentre l’attività di integrazione richiede un punto di vista formale.
A livello biologico, l’integrazione richiede l’apparizione dell’ “autopoiesi”, vale a dire l’autocreazione di un nuovo sistema di alta complessità, processi del genere potrebbero essere ipotizzati anche per sistemi non direttamente biologici, come le reti informatiche e in ultima analisi, la stessa società umana.
Il livello di integrazione ipotizzabile per i processi biologici è quello della rete dei processi metabolici, che appunto costituiscono una rete che genera la propria integrazione. Sono questi che costituiscono una rete autopoietica.
Il processo di autopoiesi è quindi ipotizzabile in futuro, anche per la società umana nel suo complesso, magari grazie alla interconnessione globale garantita dalla rete.
Il concetto di autopoiesi, di autorganizzazione, è applicabile alla società umana. Ma in questo caso i processi non sono reazioni chimiche, come per il metabolismo biologico. Sono i flussi di informazione. Le reti sociali sono autogeneranti, perchè ogni informazione che entra nel flusso genera pensieri e significati che a loro volta producono ulteriore comunicazione. Così, la rete, nel suo complesso, genera se stessa. E la dimensione del senso, del significato accettato, è cruciale per la comprensione delle reti sociali. Mentre le reti biologiche agiscono nel regno della materia, quelle sociali operano nella dimensione del senso. Se la connessione continua si crea un comune contesto che definiamo una “cultura”. Per autoidentificarsi come membri di una cultura (vale a dire di una comunità), i membri individuali di una siffatta rete sociale si comportano in un determinato modo.
Così la rete stessa genera le coordinate di una cultura non materiale, che determina i comportamenti dei suoi membri, autoproducendo i propri confini.
Non sempre però, i processi di integrazione, di autogenerazione e le loro emergenze, portano a strutture sane ed accettabili; a volte genera anche disastri, come i livelli di produzione industriale planetari stanno dimostrando a livello ecologico, minacciando la salute stessa del pianeta. Nella natura non umana, le strutture negative, a volte emergono, ma vengono poi eliminate dalla selezione naturale. Ma questa non può agire nei tempi rapidi dei sistemi umani, che sono sistemi culturali. Nei sistemi umani occorre applicare criteri culturali: questo il senso dell’ecodesign. Un ecodesign è una progettazione che utilizza la saggezza dei processi naturali, messi alla prova e raffinati nel corso di miliardi di anni, per programmare strutture ecologicamente sostenibili. Insomma, è la Natura stessa che deve farci da ispiratrice, modello e maestra.
Al centro della visione sistemica unificata della vita ci dice che lo schema di organizzazione fondamentale della vita stessa è quella reticolare. A tutti i livelli in cui la vita si esprime, i componenti di questi sistemi viventi sono collegati tra loro secondo uno schema reticolare. Nella nostra era dell’informatica i processi sociali e le funzioni si vanno sempre più organizzando attorno a delle reti. L’organizzazione reticolare è diventata sempre di più un importante fenomeno sociale e una fondamentale fonte di potere.
Anche le organizzazioni si comportano come i sistemi viventi. Innanzitutto più un sistema diventa grande, più si differenzia in parti, e il funzionamento di queste parti separate deve essere integrato per mantenere in vita l’intero sistema. Come ad esempio il corpo umano, in cui i differenti organi vitali sono integrati attraverso il sistema nervoso e il cervello. L’azienda è un aggregato di forme di energia che rendono possibile la funzione economizzante: c’è l’energia organica degli agenti dipendenti; ci sono le strutture fisiche, gli edifici e l’equipaggiamento; ci sono i materiali di processo; c’è la tecnologia e c’è la struttura organizzativa; c’è la conoscenza. Gli agenti e le imprese cercano e acquisiscono nicchie economizzanti, che consentono loro l’adattamento e la sopravvivenza. Questa è l’attività che Kauffman chiama un “gioco naturale”.
La lotta per la sopravvivenza, il gioco naturale, la danza continua caratterizzano le imprese esattamente come tutti gli altri sistemi complessi adattativi.
Il modello complesso si basa così sull’idea che l’organizzazione sia un sistema complesso adattivo, in un ambiente turbolente e in un futuro imprevedibile. In questa situazione il successo deriva dal non-equilibrio e dall’innovazione.
La complessità può rappresentare per uomini ed organizzazioni una grande minaccia o una grande opportunità. I rischi connessi alla complessità generano timori. Non sempre è facile portarsi sull’orlo del caos, sapendo che è possibile imbattersi nel fallimento della distruzione e non solo nel successo della creazione. Se da un lato apprendimento e innovazione sono due necessità irrinunciabili, dall’altro esse risultano sempre più difficili.
L’orlo del caos è l’area della distruzione creativa: rischia di far precipitare le organizzazioni nella distruzione, ma è il luogo più favorevole alla creazione a all’innovazione. Un sistema complesso che non si porti sull’orlo del caos è destinato a morire per troppa stabilità o troppa instabilità. Mediante la disorganizzazione creativa invece le organizzazioni possono sopravvivere creando il nuovo, pur dovendo convivere con i rischi che ogni disorganizzazione porta con sé.
In uno scenario instabile in cui non è possibile prevedere, le organizzazioni che costruiscono scenari futuri alternativi, colgono i segnali deboli e sono strategicamente flessibili, possono essere in grado di cogliere l’attimo che si presenta inaspettato.
La complessità è creatività perchè introducendo la cultura dell’ and – contrapposta alla cultura dell’ or - avvicina concetti contrapposti, accetta la diversità e genera quindi novità e cose inaspettate grazie all’esplorazione di nuovi sentieri.
Ed è in questo contesto che oggi, due innovazioni registrano dei profondi impatti sul benessere e sugli stili di vita dell’umanità. Entrambi hanno a che fare con le reti e con l’introduzione di tecnologie radicalmente nuove. La prima consiste nell’ascesa del capitalismo globale; la seconda è data dalla creazione di comunità sostenibili basate sulla formazione ecologica e sulla pratica dell’ecodesign. Se il capitalismo globale ha a che fare con le reti elettroniche in cui scorrono i flussi di capitali e di informazioni, l’ecodesign si occupa invece delle reti ecologiche attraversate dai flussi di energia e di materia. Lo scopo dell’economia globale è quello di massimizzare la ricchezza e il potere della sua élite; lo scopo dell’ecodesign è quello di massimizzare la sostenibilità della rete della vita.
Questi due scenari si trovano oggi in rotta di collisione. La forma attualmente assunta dal capitalismo globale è ecologicamente e socialmente insostenibile. Il cosiddetto “mercato globale” è in realtà una rete di macchine programmate secondo il principio base per cui il far soldi viene prima dei diritti umani, della tutela ambientale, della democrazia e di ogni altro valore. Probabilmente una grande sfida sarà quella di cambiare il sistema di valori che sta alla base dell’economia globale, in modo da renderla compatibile con le esigenze della dignità umana e della sostenibilità ecologica.
Oggigiorno, grazie alla grande versatilità e accuratezza delle nuove tecnologie d'informazione e comunicazione, è tecnicamente realizzabile un'effettiva regolazione del capitalismo globale secondo princìpi e valori umanistici ed ecologici. La nostra sfida nel XXI secolo sarà quella di trasformare il sistema di valori dell'economia globale in modo da renderlo compatibile con la dignità umana e la sostenibilità ecologica.
È un'impresa che trascende tutte le differenze di razza, cultura o classe. La Terra è il focolare domestico che tutti abbiamo in comune: creare un mondo sostenibile per i nostri figli e per le generazioni future è compito di tutti noi.
Si tratterà in altri termini di cominciare a sviluppare forme sociali ed economiche che siano realmente sostenibili, ossia inserite in questa rete che, per oltre tre miliardi di anni ha garantito la vita sulla Terra. Infinite sono le possibilità davanti a noi, così come Jorge Luis Borges in El jardin de los senderos que se bifurcan (1941) ha scritto: “lascio ai vari futuri (non a tutti) il mio giardino di sentieri che si biforcano”.

Bibliografia

Buchanan M., Nexus. Perché la natura, la società, l'economia, la comunicazione funzionano allo stesso modo, Mondadori, Milano, 2004.
Capra F., La scienza della vita, Rizzoli, Milano, 2002.
De Toni Alberto; Comello Luca, Prede o ragni? Uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità, Utet, Milano, 2005.
Panzarani R., La complessità e il business: contesti competitivi e processi di innovazione nella “adptive enterprise”. in Albino V., Carbonara C., Giannoccaro I., “Organizzazioni e complessità. Muoversi tra ordine e caos per affrontare il cambiamento”, Franco Angeli, Roma, 2005.
Panzarani R., Il viaggio delle idee, Franco Angeli, Milano, 2005.
Sachs J., La fine della povertà. Come i paesi ricchi potrebbero eliminare definitivamente la miseria dal pianeta, Mondatori, Milano, 2005.

[ * ] L’autore ringrazia la Dr.ssa Paola Previdi per il prezioso contributo offerto alla stesura del capitolo.

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