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Al di là del Principio di Precauzione

( 18 Novembre 2005 )

( scritto da Gavino Zucca Cliccare sul link per scrivere all'autore )
In "Principio di precauzione (proposta di un percorso di lettura)" (14 Maggio 2005) Gian Maria Borrello richiamava un testo di Gavino Zucca pubblicato nel sito di Observa e intitolato "Il principio di precauzione tra incertezza intrinseca e razionalità limitata".

Successivamente, Gavino Zucca è intervenuto direttamente nel sito della Fondazione Bassetti col testo "Quali sono l'ambito e la portata del Principio di precauzione" (22 Giugno 2005).

In seguito, nel sito della Fondazione hanno riguardato il Principio i seguenti articoli: "Sul Principio di precauzione" (11 Settembre 2005, intervento di Luciano Butti all'interno di un dialogo on-line sviluppatosi attorno al tema della Governance dell'innovazione scientifica e tecnologica); "A favore del Principio di precauzione per far fronte ai possibili rischi del Riscaldamento globale" (16 Settembre 2005, di Luciano Butti); "Principio di precauzione, ovvero: come la scienza della responsabilizzazione può affiancare la scienza delle cause" (19 Settembre 2005, di Vittorio Bertolini).

Si segnala, inoltre, la Bibliografia sul Principio curata dallo stesso Zucca e pubblicata nel sito della Fondazione il 16 Ottobre 2005.

L'intento di questo scritto

Nel suo intervento sul Principio di Precauzione dell'11 settembre 2005, Luciano Butti ha evidenziato come

"la necessaria difesa del Principio di Precauzione, nei suoi fondamenti culturali e giuridici, richieda in primo luogo di tener conto delle buone ragioni dei suoi detrattori".

Si tratta di una affermazione che, personalmente, ritengo di poter sottoscrivere pienamente. Pertanto, dopo aver difeso nei miei passati interventi l'idea di un PdP definito come principio generale in forma "debole", espressione di un diritto inalienabile di individui e comunità, desidero qui invece accogliere e sviluppare ulteriormente alcuni rilievi critici che sono stati recentemente avanzati nei confronti del principio, soprattutto se considerato nella sua forma più forte. L'intento di questi rilievi è quello di individuare forme di implementazione del principio che ne costituiscano, in qualche modo, una sorta di miglioramento e superamento in vista di una più efficace gestione di quei rischi solo ipotetici, ma estremamente gravi e potenzialmente irreversibili, cui dobbiamo necessariamente far fronte.


Versione forte e versione debole del Principio

Prima di procedere occorre anzitutto spiegare cosa intendo per definizione "debole" o "forte" del PdP. La definizione "debole" è quella basata su una corretta interpretazione dell'enunciato espresso nella Dichiarazione di Rio e che potrebbe essere così parafrasata:

"nessuno può impedire di prendere misure precauzionali se vi sono dubbi circa l'esistenza di un rischio potenziale che potrebbe causare un danno esteso e irreversibile, anche quando non vi è evidenza scientifica che questo pericolo esista".

La versione "forte", invece può essere così espressa:

"quando sussistono dubbi circa l'esistenza di un rischio potenziale legato ad una determinata attività, si deve agire in maniera preventiva, anche se l'esistenza effettiva di tale pericolo non è stata ancora stabilita scientificamente".

La prima enuncia una possibilità, un diritto. La seconda un obbligo, un dovere. È mia intenzione cercare di mostrare con questo intervento che solo una versione debole può rispondere ad una implementazione del PdP che sia fattibile, rispondente alle esigenze di tutti gli stakeholder (coloro che hanno "una posta in gioco") e adeguata da un punto di vista adattativo.

In un precedente intervento intitolato "Quali sono l'ambito e la portata del Principio di Precauzione" ho cercato di evidenziare alcuni problemi a cui conduce una versione forte del PdP. Tra i caratteri principali di questa versione si possono evidenziare i seguenti:

  • anche in mancanza di certezze scientifiche, a fronte di un rischio potenziale, ma plausibile, che darebbe luogo a danni estesi e irreversibili, è necessario adottare opportune misure precauzionali
  • le misure precauzionali devono condurre, fra l'altro, ad un esame delle alternative disponibili, fra le quali deve essere scelta la migliore secondo un qualche criterio decisionale. Fra le alternative vi è in generale anche la non-azione, e questa appare sovente l'opzione preferita (si veda il caso degli OGM in Italia ed Europa)
  • l'onere della prova deve essere spostato dalla dimostrazione della esistenza di un pericolo alla dimostrazione della sua assenza

Il Principio di Jonas

Olivier Postel-Vinay nel 2001 scriveva sulla rivista da lui diretta, "La Recerche", sotto il titolo "Il principio di Jonas":
«Il grande pubblico, ma anche una parte acculturata della società, che va dai giornalisti agli uomini politici, confondono principio di precauzione e principio di prudenza.
(...)
La ragione è semplice. A un concetto tecnico è stato dato un nome che è comprensibile da tutti, ma che nel linguaggio corrente ha un altro significato. Grave errore di strategia semantica! Per garantire il successo mediatico di un concetto tecnico senza snaturarlo, bisogna dargli un nome suggestivo che non possa prestarsi a equivoci. La parola "quark" è un esempio di successo di questo genere. Si sarebbe potuto, per esempio, chiamare il principio in questione "principio di Jonas", in memoria del filosofo tedesco che è stato, a quanto sembra, il primo che abbia tentato di formularlo.
»

L'articolo di Postel-Vinay può lessere letto per intero consultando, in questo sito, il Percorso sul principio di precauzione sviluppato dal 2000 al 2002.

È forse opportuno osservare che questa versione "forte" corrisponde in buona parte a quella che potremmo definire invece una visione intuitiva, o "ingenua", del principio. L'idea diffusa di precauzione, infatti, sembra essere quella per cui nessun cambiamento tecnologico di una certa entità dovrebbe essere introdotto nell'ambiente e nella società fino a che i suoi impatti, inclusi quelli a lungo termine, non siano conosciuti e misurabili. Ciò porterebbe, per inciso, a ritenere che il termine precauzione in sé non sia forse il più adeguato da un punto di vista pratico per riuscire a far riflettere tutti intorno alla ricerca di un equilibrio tra sicurezza e innovazione che rispetti le esigenze di ognuno. Lasciando da parte questa questione semantica (i cui effetti pragmatici tuttavia sono tutt'altro che trascurabili), nel seguito vorrei analizzare brevemente i tre aspetti sopra citati, cercando di evidenziare come in ciascun caso la realtà sia più complessa ed elaborata di quanto si vorrebbe far credere in un'ottica di approccio "ingenuo" alla precauzione.


L'incertezza (epistemologica e ontologica)

Il primo punto riguarda il problema dell'  I N C E R T E Z Z A.
Il PdP fa riferimento alla mancanza di certezze ma, come ho rilevato nel testo sulla portata e i limiti del PdP, sarebbe priva di senso una enunciazione del principio in cui si richieda la certezza sulla innocuità di una determinata attività. Come alcuni autori hanno recentemente osservato, tuttavia, vi è un altro aspetto dell'incertezza che va considerato. Molti sostenitori del PdP, infatti, sembrano far riferimento soprattutto ad un'incertezza epistemica, ovvero legata ad un determinato stato delle conoscenze e superabile grazie ad ulteriori studi e all'avanzamento del sapere scientifico. Ciò presuppone, come osserva Mariachiara Tallacchini [3], l'esistenza di uno stato normale della conoscenza scientifica in cui la certezza è la caratteristica normale, mentre l'incertezza rappresenta uno stato anormale e transitorio. Dunque la situazione di incertezza o ignoranza sarebbe temporanea e dovuta solo alla incompletezza delle nostre attuali conoscenze. In tal modo, bloccare del tutto un'attività come approccio precauzionale può diventare una richiesta che si ritiene sensata, in attesa di nuovi studi che diano finalmente la desiderata certezza sulla sicurezza di quella attività (o sulla sua pericolosità).

Quella epistemica non è tuttavia la sola fonte di incertezza. Quando si ha a che fare con sistemi complessi, esiste anche una incertezza ben più profonda, che potremmo definire ontologica o "oggettiva", per utilizzare le parole di Dupuy e Grinbaum [1], che non è legata né all'incompletezza di teorie e modelli, né all'imprecisione con cui sono noti i dati. Questa incertezza è intrinseca, "oggettiva" e non "soggettiva". Si tratta di una incertezza inevitabile con cui si deve comunque fare i conti, un'incertezza che esiste sia che agiamo, sia che non agiamo, perché tutto intorno a noi muta di continuo, che noi si faccia qualcosa oppure no. Se parliamo ad esempio di mutamenti climatici, si può osservare che le grandi glaciazioni del passato non sono state provocate dall'azione dell'essere umano, e che la peggiore catastrofe della storia della vita sul nostro pianeta, il cosiddetto "avvelenamento da ossigeno" prodotto dai primi organismi unicellulari apparsi sulla Terra, è stata un evento che potremmo definire del tutto naturale.

I pericoli presunti, potenzialmente globali e irreversibili, nei quali dovrebbe trovare applicazione il PdP sono in generale proprio di questo secondo tipo, in cui sussistono sia un'incertezza epistemologica che ontologica. Tuttavia è la seconda ad essere predominante, e può condurre a comportamenti del tutto imprevisti e imprevedibili. I sistemi complessi sono infatti caratterizzati dalla loro robustezza (possono assorbire perturbazioni anche grosse senza subire contraccolpi) ma anche dalla loro criticità (ad un certo punto, possono attraversare una fase di mutamenti violenti e improvvisi, detta catastrofe, nella quale tutto cambia in maniera irreversibile e inarrestabile, per portare il sistema verso un nuovo stato stabile, diverso dal precedente). Le catastrofi sono sostanzialmente imprevedibili: il loro legame con le possibili cause è non lineare, sia nel tempo che nello spazio. Perciò, quando si parla di applicare il PdP, si deve sempre essere coscienti del fatto che una qualunque misura precauzionale può anche essere inutile, se non dannosa, poiché l'effetto di qualunque azione è in realtà imprevedibile. Nessuno, in realtà, può essere in grado di prevedere con esattezza gli esiti sulle varie scale temporali sia delle misure precauzionali (compresa la non-azione), sia di qualunque altra attività umana, naturale o non. E anche la non-azione ha i suoi effetti: ad esempio, bloccare il progresso può impedirci, un giorno, di avere gli strumenti che potrebbero consentirci di far fronte ad una crisi derivante da altre cause, anche non umane.

La realtà è che quando si ha a che fare con sistemi complessi bisogna imparare a convivere con l'inevitabile incertezza. Questo non vuol dire che non si deve fare niente, naturalmente. È abbastanza evidente che le attività umane degli ultimi secoli stanno modificando le condizioni in cui la nostra specie è nata e si è evoluta, creando delle condizioni che potranno andare bene per altre specie ma, forse, non per noi. Tuttavia questo effetto lo otterremmo lo stesso anche solo esistendo: sei miliardi di persone (e chissà quanti altri miliardi di esseri viventi) "inquinano" in conseguenza del loro solo metabolismo organico. Quale è la strada per cercare di gestire l'evoluzione dei sistemi complessi per noi vitali? Naturalmente si tratta di un problema di una complessità spaventosa, ma a mio parere qualche utile indicazione si può trarre a partire dalla nostra esperienza passata. Ad esempio, la medicina può darci un aiuto, soprattutto quando ci raccomanda di prestare attenzioni ai sintomi, quelli che in altro ambito sono definiti "early warnings", segnali precoci che qualcosa non va. Esempi di early warnings ignorati ce ne sono tantissimi, a cominciare dal caso dell'amianto, per il quale vi erano segnali su una sua possibile cancerogenicità già nel momento in cui si iniziò ad utilizzarlo, oltre un secolo fa.


La scelta fra alternative

Il secondo punto su cui vorrei soffermare l'attenzione riguarda un'altra delle idee fondamentali alla base dell'applicazione del PdP: la SCELTA TRA ALTERNATIVE. Non sto qui a soffermarmi sull'indubbia utilità di valutare possibili alternative, e i pro e contro di ciascuna. Spesso, però, tra i fautori del PdP vi è l'idea che questa attività di analisi e selezione possa essere condotta in maniera sufficientemente esaustiva e conduca a decisioni dall'esito predeterminabile. In altri termini, che la presa di decisione possa essere condotta secondo i criteri descritti dalle teorie economiche classiche, ovvero la massimizzazione di una utilità attesa. In tal senso, il PdP sarebbe una presa di decisione sociale in condizioni di incertezza o di ignoranza. Questo può certamente essere vero, a patto però di intendere correttamente quale tipo di razionalità sia implicata in una decisione sociale di questo tipo e di questa complessità.

Riprendendo la distinzione introdotta da Andy Stirling proprio a proposito del PdP [2], bisogna anzitutto fare distinzione fra rischio, incertezza, ignoranza e ambiguità, ciascuno caratterizzato dal diverso grado di conoscenza sui possibili esiti e sulle probabilità di accadimento di questi. In particolare:

Rischio:
elevata conoscenza dei possibili esiti e delle relative probabilità di accadimento
Incertezza:
elevata conoscenza dei possibili esiti, ma bassa conoscenza sulle relative probabilità di accadimento
Ignoranza:
bassa conoscenza dei possibili esiti e delle relative probabilità di accadimento
Ambiguità:
bassa conoscenza dei possibili esiti, ma elevata conoscenza delle relative probabilità di accadimento

Ora, mentre nella condizione di rischio, che in senso più rigoroso è oggetto di prevenzione più che di precauzione, è almeno teoricamente pensabile l'applicazione di metodologie decisionali classiche (come ad esempio metodi bayesiani), nelle altre condizioni di ambiguità, incertezza o ignoranza (si noti per inciso che per Stirling solo il caso della ignoranza è oggetto del PdP), questo appare un compito irrealizzabile. In particolare, quando siamo in condizioni di ignoranza, non abbiamo una conoscenza esaustiva delle possibili azioni alternative, di ciascuna di queste non conosciamo tutti i possibili esiti, né le rispettive probabilità di accadimento. Ma c'è di più: in base a quali criteri attribuiamo dei valori a ciascun possibile esito, dal momento che le scale di valori di utilità possono essere diverse da persona a persona e, per la stessa persona, possono variare nel tempo? E che valore assegnare ai "valori", cioè a tutte quelle conseguenze che non sono quantificabili in termini economici?

Il PdP riguarda in effetti un problema di decisione, ma la situazione cui ci si trova di fronte non è quella asettica e controllata di uno studio teorico su un decisore economico classico, ma quella tipica di qualunque decisore reale, in cui questi si trova stretto:

  • da un lato, dalla pressione ambientale (necessità di una decisione e tempo limitato per operare la scelta)
  • dall'altro, dalle limitazioni cognitive (capacità cognitive, mnemoniche e computazionali limitate, impossibilità di una analisi esaustiva delle alternative disponibili e delle ragioni a favore di ciascuna alternativa)

Non solo. Limitandoci al caso della presa di decisione individuale, anche ammettendo che sia possibile giungere al calcolo di una funzione di utilità soggettiva, vi è una vera e propria impossibilità di ottimizzare la scelta in senso classico (massimizzazione dell'utilità attesa), poiché non esiste un ottimo che valga per tutti. A livello sociale, poi, subentrano criteri divergenti, aspirazioni contrastanti, conoscenze e competenze distribuite, obiettivi, motivazioni e valori che possono divergere e anche opporsi fra loro, differenze di metodi, euristiche, strategie, diverso peso (status, prestigio) delle varie componenti del processo decisionale. Inoltre, come insegnano le teorie dei giochi la scelta "migliore" dipende anche da ciò che fanno gli altri.

La teoria della razionalità limitata (soprattutto nella recente versione di "razionalità ecologica", proposta dagli psicologi Gigerenzer e Selten) suggerisce una diversa via per affrontare il problema delle decisioni sociali. Più che una ricerca della alternativa migliore (che, come detto, in realtà non esiste), si deve ricercare una scelta che soddisfi i livelli di accettazione di tutti coloro che sono interessati, e il processo di decisione deve essere tale che tutti possano adeguare dinamicamente i propri livelli di accettazione. Il processo di decisione così descritto persegue non la massimizzazione dell'utilità ma, come già a suo tempo evidenziato dallo psicologo cognitivo Herbert Simon, il soddisfacimento.

Pertanto, se l'idea alla base del PdP è quella di cercare alternative migliori in senso adattativo per tutto il gruppo e per tutti gli attori interessati, ovvero operare una scelta che soddisfi possibilmente tutti gli attori, resi consapevoli nel momento della scelta, il compito può anche essere realizzabile. Se l'idea è invece quella di individuare una alternativa che sia la migliore in assoluto rispetto alla massimizzazione di una utilità attesa, oppure la migliore tra quelle definibili in un dato momento, si tratta di un obiettivo intrinsecamente non realizzabile. E anche il ritenere che non far nulla sia, in situazioni di estrema ignoranza, la via migliore, non è corretto. Anche non far nulla è una decisione, con i suoi esiti anche imprevisti, i suoi benefici ma anche i suoi costi. E non è detto che sia la più adeguata dal punto di vista della comunità.

L'approccio che ne consegue si basa sulla applicazione di strategie euristiche sociali per una presa di decisione "evoluzionisticamente" valida. Naturalmente, proprio l'approccio euristico della psicologia cognitiva suggerisce anche una serie di problemi cui si deve cercare di porre rimedio. Abbandonare l'approccio economico classico alla presa di decisione sociale per abbracciarne uno di tipo euristico implica dare rilievo, indirizzandole verso l'interesse comune, a strategie elementari individuali che potrebbero anche condurre a scelte inadeguate. Euristiche di imitazione, soddisfacimento, scelta rapida possono aiutare a prendere decisioni valide da un punto di vista adattativo, in tempi accettabili rispetto alle esigenze poste dall'ambiente esterno. Ma possono anche condurre ad errori, soprattutto quando ci si trova ad affrontare situazioni nuove, per le quali i riferimenti passati si rivelano inadeguati. Ad esempio, come evidenziato da Dupuy e Grinbaum [1], è noto che l'essere umano ha una forte tendenza a scegliere ciò che è certo rispetto a ciò che è incerto, anche quando l'utilità di questa seconda scelta è maggiore (effetto certezza) e che questa "avversione a non conoscere" si può tradurre nell'impossibilità di credere alla realtà di una possibile minaccia, se di questa non si sa nulla. In una presa di decisione in cui vi sia grande incertezza sugli esiti delle varie azioni, tutto ciò si può tradurre nel fatto che la scelta preferita tenda ad essere la non-azione, che appare come l'opzione più sicura. Allo stesso modo, però, di fronte ad una possibile catastrofe, può anche esservi una tendenza a "rimuovere" l'idea che la catastrofe possa avere una realtà, almeno fino a quando le prove della sua realtà non siano tali da non poter più essere ignorate.

Il rischio, come si vede, può anche qui essere quello di precipitare in uno dei due estremi opposti: da un lato un rifiuto eccessivamente precauzionale verso le innovazioni tecnologiche, per timore delle conseguenze ignote di qualunque nuova iniziativa, e dall'altro un rifiuto di vedere le possibili conseguenze catastrofiche delle nostre azioni e di operare precauzionalmente per cercare di contrastare questo scenario. È chiaro che le procedure partecipative con cui può essere messo in atto un programma di presa di decisione sociale euristica devono cercare di sfruttare il meglio che queste strategie possono offrire, evitando nel contempo i rischi che da esse possono derivare.


L'onere della prova

Sulla terza questione, relativa all'attribuzione dell' O N E R E   D E L L A   P R O V A , il PdP prevede uno spostamento dalla dimostrazione della presenza di un rischio alla dimostrazione della sua assenza. Anche qui, si tratta certamente di una richiesta giustificata da innumerevoli esperienze passate ed è più che lecito richiedere che chi modifica una situazione preesistente faccia il massimo dello sforzo alla sua portata per evitare danni. Tuttavia le cose non sono naturalmente così semplici, soprattutto perché il compito richiesto per effettuare le prove necessarie è estremamente gravoso, richiede risorse e può protrarsi a lungo nel tempo. Per comprendere la natura del problema, può essere utile riferirsi ad un caso concreto.

I distruttori endocrini sono agenti che interferiscono con tutti i meccanismi che ruotano intorno agli ormoni naturali responsabili del mantenimento dell'omeostasi negli organismi e della regolazione dei processi di sviluppo. Si tratta di prodotti chimici (ad esempio pesticidi) che da decenni vengono dispersi nell'ambiente, e per molti dei quali è nota la potenziale tossicità. L'uso ne è tuttavia consentito secondo determinate norme che ne regolano l'esposizione in modo da tenere i rischi al di sotto di una determinata soglia. Una delle principali preoccupazioni sorte di recente è dovuta al fatto che iniziano a emergere forti sospetti circa la portata della loro nocività, poiché anche se si è esposti a dosi basse, dato che l'esposizione è continua e protratta nel tempo, a lungo andare potrebbero verificarsi problemi in seguito all'accumulo di sostanze di tipo differente, delle quali oltretutto non sono note le interazioni (i prodotti non si presentano isolatamente, ma sotto forma di miscele). Queste sostanze infatti rimangono a lungo nell'ambiente, e possono facilmente penetrare nell'organismo, dal quale non vengono smaltite efficacemente, e tendono quindi a concentrarsi nei tessuti. Viene pertanto meno uno degli assiomi della tossicologia, ovvero la dipendenza della tossicità dalla dose, poiché siamo in presenza di una dipendenza della tossicità dal tempo.

L'incertezza in questo caso è a tutti i livelli: sia sulla effettiva azione a lungo termine dei singoli prodotti, sia sul comportamento di un organismo in cui venga alterata la funzione endocrina, sia sulla effettiva esposizione dei singoli individui. In molti casi, addirittura, l'incertezza è sulla stessa azione del composto. Certamente, e in molti sono d'accordo (ad esempio l'EPA statunitense e EEA europea) esistono ormai una serie di indizi che possono essere collegati con l'ampia diffusione di distruttori endocrini: tra questi, l'aumento dell'incidenza di svariati tipi di problemi all'apparato riproduttivo (tumori ai testicoli, alla prostata, alle mammelle) e la diminuzione della fertilità maschile dovuta al calo del numero di spermatozoi. Sebbene si ammetta che non vi siano evidenze in grado di stabilire in maniera definitiva un collegamento causale tra gli effetti nocivi e l'esposizione ai prodotti chimici, alle dosi e nei tempi propri delle situazioni reali, l'osservazione di trend abbastanza chiari, insieme ad una serie di prove più o meno dirette di effetti nocivi simili sugli animali (sia da laboratorio che selvatici), rende estremamente plausibile, anche da un punto di vista scientifico, l'ipotesi della nocività di queste sostanze anche nelle condizioni tipiche di bassa esposizione cui le popolazioni sono soggette. Soprattutto, come già detto, quando queste sostanze possono mescolarsi e interagire in maniere totalmente imprevedibili.

Può essere utile chiarire a questo punto quale sia la natura degli "indizi" a cui si potrebbe fare riferimento in questo e in altri casi simili. Supponiamo che il prodotto X, testato in laboratorio, produca con ragionevole certezza effetti di riduzione della fertilità dei topi. Il prodotto X viene utilizzato in modo esteso a dosi estremamente basse, tali da non provocare a breve alcun effetto sull'uomo. Dopo alcuni decenni di utilizzo si osservano nelle popolazioni umane e animali effetti di riduzione della fertilità dei maschi. Cosa si dovrebbe concludere? Chiaramente la correlazione non può essere stabilita in modo scientifico. Ma possiamo sostenere che questo non sia un indizio che la sostanza X potrebbe essere la causa dell'effetto osservato? E nel dubbio, cosa conviene fare? La risposta sensata sembra talmente evidente da parere scontata: se posso fare a meno del prodotto X, lo elimino. Altrimenti cerco di sostituirlo con qualcos'altro di equivalente che almeno non mi dia un risultato chiaro sui topi di laboratorio. E intanto cerco di limitare il più possibile l'uso di X e di avvertire la popolazione esposta perché prenda tutte le misure per ridurre il contatto con la sostanza. E questa è quella che si chiama precauzione.

Tuttavia, vi sono enormi limitazioni alla possibilità di effettuare degli studi esaustivi in questo campo ed è praticamente impossibile attribuire ai produttori l'onere di provare con certezza che non vi sono rischi. Anzitutto, poiché questi prodotti variano moltissimo come struttura, non è probabile che sia possibile collegarne la struttura con gli effetti, limitandosi a studiare un numero limitato di composti rappresentativi. Il problema, a questo punto, è la crescita esponenziale del tipo di controlli che dovrebbero essere effettuati. Ad esempio, se si dovessero studiare i 1000 composti tossici più comuni in combinazioni di 3 alla volta, dovrebbero essere effettuati 166 milioni di esperimenti, senza tenere conto dell'ulteriore aumento dovuto alla necessità di avere diversi tipi di campione per ogni esperimento e del bisogno di protrarre ogni esperimento nel tempo. Si tratta di una mole di lavoro che va oltre la capacità di qualunque nazione al mondo. Da qui, constatando la plausibilità del rischio e la potenziale enorme portata del danno possibile, oltre che della sostanziale irreversibilità degli effetti, si è giunti in Europa alla raccomandazione di adottare misure precauzionali, in attesa che giungano gradualmente i risultati delle ricerche necessarie. La risposta precauzionale può essere naturalmente di vario tipo: riduzione dell'uso delle sostanze più sospette (quelle in cui sono provati effetti in laboratorio o quelle in cui si è verificata un'associazione fra esposizione ed effetti, pur se la relazione causale non è provata), ricerca di prodotti alternativi, analisi della reale utilità del prodotto, eliminazione graduale laddove possibile, studio in laboratorio almeno degli effetti a breve, con uno spostamento dell'onere della prova dalla parte dei produttori.

La strategia europea, in linea col principio di precauzione, prevede azioni a breve, medio e lungo termine. Le prime riguardano l'aggiornamento delle informazioni sulla scienza della distruzione endocrina e sul modo in cui questo fenomeno sta influenzando le persone e la vita selvaggia, e l'identificazione di sostanze di cui dovrà essere valutata la capacità di distruzione endocrina. Le azioni a medio termine riguardano invece principalmente lo sviluppo e la validazione di metodi di test. Quelle a lungo termine, infine, prevedono la revisione e l'adattamento della legislazione esistente per la regolamentazione del testing, della valutazione e dell'uso di sostanze chimiche nell'Unione Europea. Ed è proprio da qui che, in sostanza, è nata anche la recentissima normativa denominata REACH.

Quello descritto rappresenta forse uno degli esempi più chiari e incontrovertibili di applicazione del PdP. Nessuno può dubitare del fatto che l'onere della prova spetti principalmente a chi produce i distruttori endocrini perché siano utilizzati. Tuttavia non è un onere attribuibile integralmente ad essi, e soprattutto non è pensabile che sia espletato tutto all'inizio, cioè nella fase che precede l'introduzione di una sostanza. Una simile richiesta (che coincide con l'enunciato "ingenuo" del PdP: non innovare se non si è sicuri) condurrebbe inevitabilmente alla paralisi e al blocco di qualunque attività che interferisca con l'ambiente preesistente con un certo grado di complessità. L'onere della prova deve essere invece inteso come uno sforzo continuato di monitoraggio e ricerca, di attenzione all'insorgere di early warnings e di volontà di farli emergere. E una parte dell'onere della prova spetta comunque anche a chi propone una misura precauzionale, poiché nessuna richiesta di questo tipo è sensata senza una qualche giustificazione, anche indiretta, ma comunque razionalmente e scientificamente plausibile.


Riassumendo

  • L'incertezza dei sistemi in cui trova applicazione il PdP è soprattutto "oggettiva", ontologica, intrinseca, ovvero non eliminabile. Con l'incertezza si deve imparare a convivere. Ricercare la certezza è utopistico, anche se tendenze innate ci portano a questo
  • L'esame delle alternative non può essere completo, esaustivo. Nelle scelte reali è impossibile ottimizzare l'utilità attesa da una decisione. Le scelte reali vengono operate non con criteri di massimizzazione dell'utilità attesa, ma di soddisfacimento. La razionalità ecologica deve sostituire la razionalità economica classica
  • L'onere della prova non è attribuibile a nessuno in via esclusiva. Ciascuno deve concorrere a tale scopo, in fasi e momenti differenti. Tuttavia, anche se alla fine la decisione della comunità è comunque sovrana (e in questo consiste il diritto di precauzione che deve essere riconosciuto a tutti), la logica indica che almeno qualche indicazione (early warning) dovrebbe essere data per poter giustificare l'attivazione di una misura precauzionale

Tutto ciò depone a mio parere a favore di un uso prudente della precauzione, in cui la richiesta di attivazione delle misure precauzionali sia plausibile e decisa in modo collegiale e responsabile, e le misure proposte ragionevoli e adeguate. Solo una definizione "debole" del PdP può essere appropriata a tale scopo e la messa in atto del PdP deve rispettare la pluralità esistente di conoscenze, interessi e valori.

Di fronte ai due atteggiamenti contrapposti:

  • quello pre-esistente alla nascita del PdP, in cui si attendeva l'insorgere di un pericolo prima di prendere contromisure, nella convinzione che gli ecosistemi fossero in grado di ritornare naturalmente al loro stato di equilibrio
  • quello suggerito da una versione forte, o "ingenua", del PdP, che prevede il blocco di un'attività fino a quando non si sia raggiunta la certezza della sicurezza

emerge da quanto detto un quadro di compromesso. Una volta esclusa la possibilità che sussistano pericoli evidenti ed estremamente probabili, il blocco completo di una innovazione, che porterebbe per altri versi vantaggi all'umanità, dovrebbe in generale essere l'ultima ratio. Una volta esauriti i controlli possibili in laboratorio, è solo mediante l'applicazione in campo che si possono ottenere le ulteriori indicazioni, a patto di prevedere forme di monitoraggio continuo e attento, e di prestare attenzione anche al più piccolo allarme che da tale innovazione dovesse derivare. In fondo, si potrebbe concludere, se non si fa, non si sa. Ma soprattutto, se non si fa, non si ha. Non si ha, cioè, tutto quell'insieme di vantaggi non solo materiali che dobbiamo al progresso scientifico e tecnologico e ai quali nessuno probabilmente può e vuole più rinunciare.

 

Bibliografia essenziale

[1] Dupuy Jean-Pierre, Grinbaum Alexei, "Living with uncertainty: from the precautionary principle to the methodology of ongoing normative assessment", Comptes Rendus Geosciences, Vol. 337, Issue 4, March 2005, pp. 457-474

[2] Stirling Andrew, ESTO Report On Science and Precaution in the Management of Technological Risk, vol. 1 (EUR 19056/EN), 2000 e vol 2. (EUR 19056/EN/2), 2002

[3] Tallacchini Mariachiara, "Before and beyond the precautionary principle: Epistemology of uncertainty in science and law", Toxicology and Applied Pharmacology, Vol. 207, Issue 2, Supplement 1, 1 September 2005, Pages 645-651

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