Jacques Derrida parlò per la prima volta del suo Archive Fever, A Freudian Impression durante una conferenza organizzata dal Museo Freud nel 1994. Ne derivò un libro, pubblicato l’anno seguente, considerato profetico rispetto all’impulso archivistico che caratterizza il nostro tempo. Profetico perché riconosce in questa “febbre d’archivio” la risposta al malessere culturale della modernità causato da un sovraccarico di dati e informazioni di ogni sorta che si accumula sopra le nostre vite, le nostre istituzioni, le nostre storie (nel 1992, l’antropologo Marc Augé, nel suo Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità aveva definito una modernità caratterizzata da un eccesso di tempo, spazio ed ego). E profetico perché vede in questa stessa infinita possibilità data dalle tecnologie, la patologia dell’accumulo, la vulnerabilità dello stesso (qui un articolo del Sole24Ore Corsa contro il tempo per salvare il sapere digitale), i rischi di manipolazione, di concentrazione e distribuzione, fino all’archivio che si rivela, al di là della lettura psicanalitica, come esercizio di potere, controllo della memoria collettiva.

Arché, ricordiamocelo, indica assieme il cominciamento e il comando.
Jacques Derrida“Soprattutto, ed ecco la cosa più grave, di qua o di là da questo semplice limite che si chiama finitudine o finitezza, non ci sarebbe mal d’archivio senza la minaccia di questa pulsione di morte, di aggressione e di distruzione. Ora questa minaccia è in-finita, comporta la logica della finitezza e i semplici limiti fattuali, l’estetica trascendentale, si potrebbe dire, le condizioni spazio-temporali della conservazione. Diciamo piuttosto che ne abusa. Un simile abuso apre la dimensione etico-politica del problema. Non c’è un mal d’archivio, un limite o una sofferenza della memoria tra altri: impegnando l’in-finito, il mal d’archivio tocca il male radicale”. E ancora: “Questa possibilità strumentale di produzione, di stampa, di conservazione e di distruzione dell’archivio non può non accompagnarsi a trasformazioni giuridiche e quindi politiche”. E d’altra parte, nelle pagine iniziali si legge: “Arché, ricordiamocelo, indica assieme il cominciamento e il comando. Questo nome coordina apparentemente due principi in uno: il principio secondo la natura o la storia, là dove le cose cominciano…, ma anche il principio secondo la legge, là dove uomini e dèi comandano, là dove si esercita l’autorità, l’ordine sociale, in quel luogo a partire da cui l’ordine è dato”.
A citare Derrida per contestualizzare questa spinta verso una sorta di “industria della memoria” è stato Antonio Somaini, dell’Università Paris III – Sorbonne Nouvelle, durante Architexture, il convegno internazionale organizzato da Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori (video), che ha esplorato il ruolo che gli archivi giocano nella cultura contemporanea. Un’industria resa ancor più performante dalla diffusione dell’intelligenza artificiale (si cita la trascrizione automatizzata di Transkribus, i nuovi modi di creare e interrogare la memoria, la fruizione predittiva scaturita dall’analisi di dati passati e futuri, il mutamento radicale della classificazione tradizionale), nonché da una passione documentale che sconfina nella cultura pop (con tanto di Festival e Notte degli Archivi). Nella stessa cornice, Maria Canella, docente di Storia Contemporanea Università degli Studi di Milano, ha parlato della nascente Rete degli archivi politici di Milano, a cui partecipa anche la nostra Fondazione insieme alle fondazioni Aldo Aniasi, Badaracco, Corrente, ISEC, e l’Archivio del Lavoro di Sesto San Giovanni (qui la sintesi del nostro intervento durante il convegno Arti e politica a Milano negli anni Settanta: casi di studio tenutosi Fondazione Corrente e qui quella del seminario Archivi del presente organizzato da Fondazione Feltrinelli).

Un’educazione alla scelta, e non all’accumulo.
Riccardo FedrigaEmerge, con un archivio che sempre più diventa una “matrice di possibilità”, l’idea condivisa che la mediazione e la reinvenzione del passato siano da porre come questione politica. Tanto più in un periodo storico in cui, come scrive Barbara Carnevali su La Stampa, Trump ha avviato una colossale operazione di censura per cancellare dai documenti ufficiali, siti web e programmi di formazione scolastica, alcune parole, tra cui una all’apparenza inoffensiva: historically, storicamente. In un clima politico e culturale in cui, come scrive Riccardo Fedriga su DoppioZero, è in atto una vera guerra delle enciclopedie, con Elon Musk che dalla sua X annuncia la – sempre sua – Grokipedia @xAI alternativa a Wikipedia. Il filosofo e storico, docente all’Università di Bologna, nel sounding board di Fondazione Bassetti, ha più volte richiamato sull’importanza di questo continuo gioco archivistico tra la scelta di cosa “va tenuto” e cosa “va lasciato a latenza”. «Siamo davanti a un modello stimolato da intelligenza artificiale per cui il problema non è tanto più quello dell’accumulo di conoscenze e informazioni, quanto quello di decidere cosa buttiamo via», ha dichiarato durante un recente incontro. «Ci sono esempi, anche esempi storici e storico-coscienti, di società che si sono costruite sulla scelta di quale tipo di selezione operare su informazioni, conoscenze e memoria per mantenere una convivenza comune, una società compatibilista. Una società che decide responsabilmente, prima che lo faccia una macchina in modi che possono portare anche a illusioni di sistema, cosa si debba abbandonare. Un’educazione alla scelta, e non all’accumulo. Il che porta anche a una riflessione sui depositi fisici dei dati, i data center dove si stoccano le informazioni, depositi attivi della memoria, in cui alcune conoscenze, in un regime di interplay con le macchine, vengono riattivate e recuperate in maniera responsabile quando si ritengono essere pertinenti».
Di spazi latenti, con cui vengono rappresentati grandi volumi di dati e documenti, organizzati, gestiti, applicando le tecnologie di intelligenza artificiale, e che si configurano sempre più come veri spazi di trasformazione che rivoluzionano la gestione dell’archivio estraendo nuovi significati e interconnessioni, parla anche Jeffrey Schnapp dello Stanford Humanities Lab, anche lui presente ad Architexture. L’intelligenza artificiale generativa può essere utile per rendere un archivio “live” – parla infatti di Arch(L)ive – trattabile su dimensioni nuove, tra automazione, mappatura e conservazione. E per rendere un deposito documentale un patrimonio realmente vivo, per ridurre la perdita di conoscenze viventi, Schnapp, che riflette anche sull’effettiva democratizzazione prodotta dall’accesso diffuso ai dati e alla loro creazione, suggerisce il coinvolgimento delle comunità interessate anche nella costruzione dell’architettura informatica. Organizzare, gestire, selezionare, persino “dimenticare”, sembrano azioni culturali e sociali parte di una strategia adattiva capace di rispondere agli “eccessi della (sur)modernità”. Sempre per citare Derrida: “La questione dell’archivio non è una questione del passato… È una questione del futuro, la questione del futuro stesso, la questione di una risposta, di una promessa e di una responsabilità per il domani”.













