Innovazione in campo sanitario e responsabilità politiche: elenco di tutti gli interventi

( 2 Marzo 2004 )

( scritto da Redazione FGB Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Gli interventi su questo argomento (in ordine cronologico):

Per intervenire basta scrivere alla Redazione di questo sito.

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Il paziente: oggetto e soggetto

( 1 Marzo 2004 )

( scritto da Vittorio Bertolini Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Nella Rassegna Stampa ho pubblicato "Medicina: arte o scienza", dove viene riportata una recensione di Giorgio Cosmacini al libro "L'Etica medica nello Stato liberale" di Giovanni Felice Azzone, medico, patologo generale, promotore di ricerca biologica, accademico linceo.
Al centro della recensione di Cosmacini è il tema del paziente inteso come oggetto e, contemporaneamente, soggetto della pratica medica. Se come oggetto va riguardato scientificamente, come soggetto va trattato con l'opportuna attenzione alla persona. Ippocrate ha parlato di téchne iatriké, l'arte di curare gli uomini, sintetizzando con questo la stretta connessione fra la conoscenza tecnico-scientifica e l'intuizione artistica necessaria a comprendere più compiutamente il paziente come uomo.
In questa sezione Argomenti, all'item "Due parole sulla Evidence based medicine" è menzionato, mediante un link, un certo numero di articoli di e su Ivan Cavicchi. Paricolarmente significativi mi paiono i seguenti.

  • "Il fordismo fa bene alla sanità" (Il Sole 24 Ore del 16 dicembre 2001), recensione di Cinzia Caporale al libro di Ivan Cavicchi "Salute e Federalismo. Forma e contenuti dell'emancipazione" (Bollati Boringhieri, Torino 2001, pagg. 252), in cui viene criticato l'appoggio tecnocratico, basato sull'evidence based medicine. Infatti, se è vero che si ottengono economie di spesa e una maggiore efficienza, non viene risolto il problema fondamentale del mismatching tra aspettative crescenti e risorse limitate.
  • Non del tutto convinto della critica di Cavicchi all'evidence based medicine è Sebastiano Maffettone in "Una crisi con l'evidenziatore" (Il Sole 24 Ore del 19 novembre 2000), recensione del libro "La medicina della scelta" (Bollati Boringhieri, Torino 2000, pagg. 454). In particolare, Maffettone si preoccupa del fatto che dietro la critica di Cavicchi si nasconda il retaggio di una cultura crociana refrattaria ai numeri e alle statistiche, anche se non nasconde il possibile rischio di un abuso pratico della nuova metodologia. Si confronti il contributo di Margherita Fronte "Due parole sulla Evidence based medicine".
  • In "Il malato della porta accanto" (Il Sole 24 Ore del 26 marzo 2000), Ivan Cavicchi critica il fatto che l'abuso di dati statistici abbia portato ad una medicina amministrata dove le direttive burocratiche contano più della "scienza e coscienza del medico".
Sul tema dell'innovazione in medicina segnalo anche due interviste a Umberto Veronesi:

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I rischi di una medicina sempre più tecnicizzata

( 25 Febbraio 2004 )

( scritto da Leopoldo Sarli Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Ha colto nel segno Bertolini, quando ha posto l'attenzione sulla condizione di disagio che la carenza di un adeguato colloquio medico-paziente determina sia tra gli operatori sanitari che tra gli utenti del sistema sanitario pubblico. Ha colto nel segno, perché questo disagio che si autoalimenta, cresce in maniera esponenziale e rischia di vanificare i sacrifici, anche economici, che la società ha posto in essere per procurarsi gli indubbi progressi ben evidenziati nel saggio di De Filippis. Il medico non colloquia con il paziente ma con i suoi dati strumentali, il paziente si rivolge sempre più spesso alle medicine alternative. Il paziente avverte il disagio come "malasanità" e ne attribuisce la responsabilità all'operatore sanitario; quest'ultimo avverte il disagio come svalutazione del proprio ruolo professionale, come mancato riconoscimento del proprio impegno e ne attribuisce la responsabilità alle eccessive pretese dell'utenza.
Del rischio che una medicina sempre più tecnicizzata allontani il sistema sanitario pubblico dal suo compito di provvedere alle reali esigenze dell'intera popolazione si sta discutendo anche durante i lavori di un convegno in corso a Parma che ha per tema "salute e multiculturalità".
Importanti flussi migratori stanno rapidamente trasformando la composizione della società italiana, attribuendole una connotazione sempre più multietnica. Il mondo della sanità non è risparmiato dalle difficoltà dettate dall'incontro tra culture diverse in quanto gli operatori sanitari, che devono confrontarsi con questa nuova e disomogenea realtà, non trovano nel loro bagaglio formativo gli strumenti idonei ad affrontare in maniera adeguata il confronto interculturale. I concetti di salute, malattia, morte, dolore, sono interpretati in maniera differente nelle diverse culture, tuttavia il paziente immigrato non rappresenta il prototipo di una concezione specifica di salute-malattia dettata dalla sua cultura. Nel migrante infatti, che vive a cavallo tra due mondi ed è impegnato in una continua trasformazione della propria identità, convivono concezioni della medicina in uso nel paese d'origine, concezioni della medicina popolare rappresentata dall'insieme della autoterapie insegnate dalla tradizione e concezioni della medicina occidentale, quella che definiamo biomedicina, ormai diffusa in tutto il mondo. Da questo intreccio, peraltro, non è esente neanche la nostra società che sempre più spesso ricorre ai rimedi della medicina popolare e, come abbiamo visto, a quelli delle medicine alternative. Non esiste quindi un numero, sia pure elevato, ma comunque ben delimitabile, di concezioni della medicina da apprendere e comprendere. Si potrebbe affermare che le concezioni di medicina sono tante quanti sono gli esseri umani, influenzate dalla cultura di ognuno, ma soprattutto determinate dalla personale esperienza di vita.
Ed in questo scenario i dettami della medicina tecnicizzata conducono al fallimento dell'interazione sanitario-paziente. Come inserire nel puzzle della "evidence based medicine" i tasselli amorfi rappresentati da sintomi e segni che il paziente "diverso" avverte e sottopone all'attenzione del curante, ma che questi non sa interpretare perché non rientrano nel bagaglio della "sua" semeiotica? E come ottenere quei dati strumentali con i quali gli operatori sanitari sono soliti rapportarsi per verificare i risultati della cura o per prevenire la ripresa di malattia quando i concetti di malattia cronica o di prevenzione (invenzioni della società del benessere) non rientrano nel background culturale del paziente? La risposta, fornita durante i primi dei 10 incontri previsti dal corso in svolgimento a Parma, è apparentemente elementare, ma nello stesso tempo rivoluzionaria nel contesto del percorso evolutivo della medicina occidentale descritto da De Filippis. Occorre fare qualche passo indietro e tornare a porre il singolo uomo-paziente, e non l'indagine diagnostica strumentale, al centro dell'attenzione della professione medica. Occorre rivalutare la soggettività dell'arte medica a spese dell'obiettività della scienza medica. Occorre cioè reimparare ad ascoltare attentamente il paziente, reimparare ad indagare sulle descrizioni dei sintomi, reimparare a costruire una storia clinica. Capire il vissuto della persona consentirà di ricondurre i concetti soggettivi di malattia, mescolati ad emozioni e sentimenti, nel concetto obiettivo, così come è descritto nei nostri libri di medicina. Ed un esercizio di questo tipo, oltre ad attenuare le difficoltà del confronto interculturale, risulterebbe anche assai utile con il paziente italiano, consentendo il recupero di quel rapporto umano quasi del tutto perso nel nostro sistema sanitario pubblico, efficiente, ma sempre più depersonalizzato. Imparare a curare lo straniero, quindi, potrebbe interrompere la crescita esponenziale di quel disagio che aleggia nel nostro sistema di salute pubblica su cui Bertolini ha acutamente posto l'attenzione.

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Due parole sulla Evidence based medicine [16/02/04]

( 13 Febbraio 2004 )

( scritto da Margherita Fronte Cliccare sul link per scrivere all'autore )
[16/02/04]

Il numero della rivista "Keiron" qui citato
(gli articoli, in formato PDF, sono tutti scaricabili)

Il sito di Farmindustria

La rivista "Keiron" diretta da Ivan Cavicchi

"Gli Scopi della Medicina": tavola rotonda virtuale con riferimento al documento "Gli scopi della medicina: nuove priorità", Rapporto dello Hastings Center Pubblicato su Politeia, 13, 1997 (la tavola rotonda è ospitata nel sito www.qlmed.org , realizzato dallo staff dell'Unità Operativa di Psicologia Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori di Milano)

Una Rassegna, curata da Vittorio Bertolini (pubblicata nel Sito Web Italiano per la Filosofia), degli articoli di giornale che citano Cavicchi e che parlano di argomenti affrontati anche nel corrente dialogo on line in questo sito.
Sulla Evidence based medicine vorrei segnalare un dibattito che Tempo Medico ha pubblicato tre anni fa. Il dibattito partiva da un editoriale di Marco Geddes (del Servizio di epidemiologia dell'Istituto nazionale dei tumori di Genova) in riposta alle posizioni espresse da Ivan Cavicchi, direttore di Farmindustria, su Keiron, la rivista da lui diretta. Credo che una lettura attenta possa essere utile per tutti coloro che stanno partecipando a questo dibattito. Da parte mia, non ho capito il nesso fra la medicina molecolare e la evidence based medicine. E' del tutto evidente che le biotecnologie non hanno finora portato alla medicina i frutti promessi. Gli unici avanzamenti concreti (applicabili su vasta scala ai pazienti) si registrano nel campo della diagnosi. Ma, come sottolineava un intervento precedente, il miglioramento delle tecniche diagnostiche ha poco senso, per il malato, se poi non c'è la cura. Ma questo che c'entra con la medicina basata sulle prove? Potrà essermi sfuggito qualcosa, ma non mi pare che gli studi della Cochrane Collaboration si concentrino sulla medicina molecolare. Valutano invece le tecniche e le medicine in uso, con l'obiettivo di stabilire su basi scientifiche quali sono quelle efficaci. Queste valutazioni sono uno strumento di lavoro indispensabile per il medico. E' vero che la medicina ha perso la sua dimensione umana, ma non mi pare che il recupero di questa possa passare attraverso la negazione del metodo scientifico con cui si valutano le terapie.
Logo di Farmindustria

Tavola rotonda virtuale

La rivista 'Keiron'

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La medicina 'amministrata' [16/02/04]

( 11 Febbraio 2004 )

( scritto da Gian Maria Borrello Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Ivan Cavicchi
Il sito "POL.it (Psychiatry on line)" ha pubblicato tempo fa un'intervista fatta nel dicembre 2001 da Cristina Bandinelli a Ivan Cavicchi [ * ], docente di sociologia e organizzazione sanitaria all'università di Roma "La Sapienza" ed ex direttore generale di Farmindustria [16/02/04]. Questi è stato già più volte citato all'interno del dialogo on line avviato col post Innovazione in campo sanitario e responsabilità politiche e, nell'intervista, esprime la posizione ribadita in un articolo di Marina Corradi su Avvenire del 15 febbraio 2002.

Gli interventi precedenti (in ordine cronologico) che, sino ad oggi, hanno alimentato questo dialogo on line:

Innovazione in campo sanitario e responsabilità politiche (G.M. Borrello)

La Fabbrica della Salute - Introduzione (M. De Filippis)

Innovazione in campo sanitario e responsabilità politiche (2) (G.M. Borrello)

Il feedback negativo dell'innovazione tecnica in medicina (V. Bertolini)

La Fabbrica della Salute (2) (M. De Filippis)

Innovazione tecnologica in campo sanitario (G. Belleri)

Innovazione in medicina (G. Buzzi)

La flebo e il bicchier d'acqua (L. Montagnini)

Ho scelto di segnalare l'intervista perché alcuni suoi brani possono essere messi in relazione con due domande che ritengo cruciali e alle quali ciascuno dei partecipanti a questo dialogo ha dato una risposta con stile personale:

  • esiste un rischio tecnocratico in ambito sanitario?

  • e il ricorso massiccio alla tecnologia quali conseguenze comporta sotto il profilo del diritto di accesso alla cura/terapia?
Tali domande riassumono anche le questioni su cui verteva la citazione delle parole di Cavicchi (nel blog delle Segnalazioni e richiamata nel primo intervento di questo dialogo) dalle quali il nostro dialogo aveva preso il via.

«[...]
Bandinelli: Dalla lettura dei suoi scritti, mi sembra che le critiche che lei solleva alla EBM [ndr: "evidence based medicine"] si collochino nella più generale cornice del rapporto fra sanità e medicina, che lei vede attualmente concretizzato in modo "lineare", cioè a senso unico, fino a farla parlare di "medicina amministrata": il potere tecnocratico degli amministratori della sanità esercitato sulla medicina. La EBM in questo contesto non sarebbe uno strumento fra gli altri, ma "lo" strumento utilizzato per avallare, dare scientificità a questa politica.

Cavicchi: [...] La medicina amministrata è una medicina vittima dell'economicismo, dei problemi finanziari della sanità, vittima dei limiti economici. L'economicismo non è l'economia. L'economia è una disciplina scientifica molto rispettabile, l'economicismo è un'ideologia che non antepone niente al limite economico, neanche i diritti dell'uomo: un'ideologia pericolosa. La medicina amministrata nasce nel momento in cui si toglie al medico e alla medicina la titolarità della valutazione sulla necessità clinica.
Oggi è già difficile decidere su cosa è necessario, clinicamente parlando. Pensi alla discussione sui Livelli Essenziali di Assistenza, pensi ai farmaci che a fasi alterne erano essenziali o non essenziali a seconda di come girava il bilancio: cosa vuole dire essenziale è, in medicina, un problema enorme.
Il punto, poi, è chi decide cosa è necessario. Nell'occidente, per ragioni economicistiche, la decisione su cosa è necessario si sta spostando sempre più su soggetti amministrativi, non su soggetti clinici. Si può fare in tanti modi: con le Linee Guida, coi DRG, con gli Standard, con i Livelli Essenziali di Assistenza. In tanti modi. Dietro c'è un ideale pericoloso: quello di eteroguidare l'atto medico, eteroguidare la scelta clinica. [...]

L'intervista prosegue toccando due punti nodali: quello del rapporto tra etica, scienza, economia e il welfare del Servizio Sanitario Nazionale.

Cavicchi sostiene che occorre... [grassetti miei]

«Ripensare il diritto: tutta la nostra storia di welfare, che comprende la legge 180, le leggi sulla donna, sul materno infantile, è impregnata di giusnaturalismo. Si fa riferimento ad un diritto naturale. Nel codice deontologico dell'Ordine dei Medici c'è scritto che la salute "va conservata": lei nasce con una cosa dentro che si chiama salute, una specie di dote, che la medicina deve conservare (certo, le malattie genetiche sono un po' una frode sulla dote.).
Io sostengo invece che il diritto naturale è anacronistico. La salute per me non è un diritto naturale, ma un diritto civico, quindi un diritto politico, e in quanto tale non è blasfemo supporre diritti diversi, perché le persone, i contesti lo sono. Sempre evitando la confusione con la disparità.
Se penso ad un diritto nuovo, devo ripensare la teoria che ha ispirato la legislazione sanitaria degli ultimi trenta anni, la teoria della salute tutelata. Tutelare: cosa vuol dire? Tutelare gli interessi, l'ambiente, un minore. significa difendere, proteggere qualcuno che non è in grado di farlo da solo. Se è vera la mia analisi sul paziente che diventa esigente, sulle trasformazioni della società legate alle conquiste scientifiche, il discorso della tutela e di un cittadino da tutelare vale sempre meno. E' sempre più presente un cittadino che si vuole autodeterminare attraverso la medicina, la scienza.

Verso la conclusione dell'intervista c'è un'affermazione che penso sia da mettere in rilievo: Cavicchi parla di una vera e propria "premessa ontologica" dell'attività del medico.

«Mi sto battendo per introdurre una cosa che non ho paura di chiamare Filosofia della Medicina. [...]
Se varia la premessa ontologica, varia anche il ragionamento scientifico. La premessa è dunque importante quanto il ragionamento scientifico. Se lei mi vede come una lavatrice, ragionerà su di me come se io lo fossi. Se lei mi vede come una persona, ragionerà su di me come tale. La differenza è nella premessa ontologica. In una mi vede ontologicamente come una macchina, nell'altra come una persona.»

[*]
Ivan Cavicchi è stato Direttore Generale di Farmindustria [16/02/04] e Responsabile Nazionale del Dipartimento della Sanità della CGIL. Laureato ad honorem in Medicina, insegna Sociologia Sanitaria presso l'Università di Roma "La Sapienza". Ha fondato e dirige la rivista Keiron ed è autore di diversi libri, fra i quali: "Il malato inguaribile. Il significato della medicina" (Editori Riuniti, 1998), "Il rimedio e la cura" (Editori Riuniti, 1999), "La medicina della scelta" (Bollati Boringhieri, 2000) e "Salute e federalismo. Forma e contenuti dell'emancipazione" (Bollati Boringhieri, 2001).
L'intervista, lunga e articolata, si è svolta il 3 dicembre 2001 nei locali di Farmindustria a Roma.

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La flebo e il bicchier d'acqua

( 1 Febbraio 2004 )

( scritto da Leone Montagnini Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Una donna anziana viene ricoverata per disidratazione. È confusa, è un effetto piuttosto tipico della disidratazione, perciò viene sistemata in un letto con le sbarre laterali. Le viene praticata una terapia reidratante mediante fleboclisi, soluzione glucosata (cioè acqua e zucchero) e soluzione fisiologica (cioè acqua e sale). Come per incanto, la signora comincia a riacquistare completa lucidità. Viene sospesa la somministrazione endovenosa. La signora mi chiama. Come sta bene, mi sembra un miracolo! Cosa vuole signora? Un bicchiere d'acqua per favore!

Sospese le flebo, nessuno ha pensato che era altrettanto necessario portarle l'acqua al capezzale. Le flebo sono mediche, il premoderno bicchiere d'acqua glielo diano i familiari. Ma la signora è sola. All'ingresso del reparto è anche stato scritto: è vietato ai visitatori dare cibo ai pazienti. Vale pure per l'acqua? Non lo so. Chiamo l'infermiera. Sì sì veniamo subito.

Raccontando l'episodio ad un medico anziano, mi disse qualcosa come: "in fondo la fleboclisi si è imposta un po' ovunque da pochi anni, dopo un periodo di transizione con la dolorosa e poco utile ipodermoclisi. E' una forma di somministrazione terapeutica semplice che ha prodotto una grande rivoluzione. Quello che mi dice mi rattrista."

C'è da riflettere molto su questa storia. L'ospedale ed in generale la medicina, sono figlie del nostro tempo. La nostra è una cultura futuristica. Nel senso che ciò che è vecchio è brutto e ciò che è nuovo è bello. E' una cultura che ama ciò che è tecnologicamente complesso. Quello che è semplice, anche se tecnologicamente efficace, ha difficoltà ad affermarsi.

«(...) e introducendo la minigonna si cambia comunque il modo di vivere e di fare tante altre cose...»
("Estratti dall'intervento di Piero Bassetti al seminario ISVOR Knowledge System di Luigi Luca Cavalli Sforza...")

«(...) Penso ad esempio alla minigonna il trionfo della quale e il mutamento di costume conseguito non sono stati certo decisi da qualche organo politico, né dalla stessa Mary Quant...»
("Innovazione, rischio sociale e responsabilità politica" --Lezione svolta alla London School of Economics, 14 maggio 2003)

Intervento del 19 settembre 2003 di Leone Montagnini al Call for Comments "Partecipazione pubblica e governance dell'innovazione" (pagina principale del Call for Comments)

Mi viene in mente un passo di un bell'intervento di Piero Bassetti sulla minigonna come innovazione semplice e geniale, oppure alcune mie osservazioni in un precedente call for comments su penne e matite spaziali.

In fondo, se ci si riflette bene, la fleboclisi in quanto innovazione occupa più il lato delle minigonne, matite, libri di carta che quello ad alto contenuto tecnologico costituito dai computer, dalle risonanze magnetiche nucleari, dalle TAC ecc. La flebo se ha vinto è perché aveva i vantaggi della bicicletta, della penna biro e delle barzellette: semplice ed efficace non aveva bisogno che nessuno la promuovesse per imporsi, tanto era utile. Fu così che è stata istituzionalizzata. Da allora ha messo il camice, è diventata medica, non più qualcosa di quotidiano, passatista, semplice come uno squallido e banale bicchiere d'acqua o come un familiare che ti viene a trovare. Altre terapie, come il voltare periodicamente il paziente a letto per evitare la polmonite da stasi e il decubito, come i massaggi contro il decubito o come il materassino ad aria con compressore, non sono mai riuscite a fare il gran salto. Si tratta di una mentalità che conosce bene il fisiologo o lo psicoterapeuta, cioè quelli che sono convinti che si possa guarire una persona con la ginnastica e con le parole. Ma quali parole? Fatti non parole ci vogliono signori. Anzi macchine, scintillanti macchine che vibrano e percuotono. E poi le chiacchiere?! Ma quali chiacchiere? Pillole servono, tante pillole e poi scosse, scosse elettriche, e magari un bella, materiale e risolvente lobotomia! Il massimo sarebbe un bombardamento mirato e, naturalmente, chirurgico!

Per la cronaca: tolte le sbarre, la signora cominciò ad andare da sola a riempirsi il bicchiere d'acqua.

Un bicchiere d'acqua

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Innovazione in medicina

( 31 Gennaio 2004 )

( scritto da Giorgio Buzzi Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Copertina di NeurologySull'argomento dell'innovazione tecnologica in campo medico, ho letto di recente un articolo che offre qualche spunto di riflessione sul penultimo numero di Neurology, la rivista dell'American Academy of Neurology (Neurology del 23/12/2003, pp. 1824-25).

In una sorta di rievocazione onirica dei suoi primi anni nel mondo della ricerca scientifica, un anziano neurologo ormai al termine della carriera rivede se stesso che conversa con un giovane collega di quegli anni, il quale lo rimprovera di essere troppo pessimista nei confronti della vera rivoluzione che ha investito il campo delle neuroscienze.

"Tu sai -gli dice l'amico ottimista- che per la prima volta siamo in grado di comprendere queste malattie, dar loro un nome preciso anzichè dire alle persone che hanno una distrofia o quant'altro e sperare che non facciano troppe domande..."

"mi dispiace, gli risponde l'alter ego giovanile dell'autore, credo che sarei molto più entusiasta se potessimo offrire loro qualche sorta di terapia... sono dieci anni che stiamo dicendo loro che siamo alle soglie di una terapia, ma non è accaduto niente. Ora possiamo dire ai pazienti che possiamo spiegare in dettaglio le loro malattie, ma se ne faranno molto di sapere il nome preciso della malattia se non possiamo offrire loro niente per alterarne il corso... avrebbero anche potuto starsene a casa..."

Questo, aggiungo io, è il caso delle distrofie muscolari, di cui parla l'articolo in questione, ma è ugualmente il caso di tutte le grandi malattie neurologiche: Alzheimer, Parkinson, sclerosi multipla, malattie dei motoneuroni... abbiamo a disposizione mezzi tecnologici meravigliosi per fare una diagnosi precisa millimetricamente: tecniche di analisi genetica, risonanza magnetica, risonanza magnetica spettroscopica, tomografia a emissione di positroni, tomografia a emissione di singoli fotoni, ... ma una volta fatta la diagnosi ?

Credo quindi che per evitare la fuga dei pazienti verso le "medicine alternative" (come giustamente segnalato in uno degli interventi precedenti), sarà necessario recuperare il giusto equilibrio tra la "medicina basata sulle evidenze" e la medicina basata sulle esigenze particolari di ogni singolo paziente, che spesso richiede più "arte" e umanità che scienza e tecnologia.

Per concludere, dice ancora l'autore dell'articolo suddetto per bocca del suo giovanile alter ego: "non ti sconcerta il fatto che ora abbiamo una serie di esami che saranno disponibili agli ammalati solo se capiteranno da un medico che conosce a sufficienza l'argomento e che abbia accesso a un laboratorio che possa effettivamente eseguire il test richiesto ? e che dire dei costi ?".

Qui entriamo anche nell'ambito della responsabilità politica, ma su questo argomento lascio volentieri la parola ad altri più ferrati di me.

Giorgio Buzzi, neurologo (convenzionato AUSL Ravenna)

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Innovazione tecnologica in campo sanitario

( 30 Gennaio 2004 )

( scritto da Giuseppe Belleri Cliccare sul link per scrivere all'autore )

La medicina è in crisi da almeno trent'anni e, probabilmente, lo è stata per altrettanti decenni in precedenza e lo sarà più o meno per i prossimi secoli. Voglio dire che si tratta probabilmente di uno stato di crisi endemico e costitutivo che affonda le sue fondamenta in due fenomeni:
- il carattere virtualmente illimitato dei bisogni e delle esigenze medico-sanitario-assistenziale della gente, aggravate da una definzione di salute (quella dell'OMS del 1948 dai contorni mitico-prometeici) praticamente irraggiungibile e "impossibile" (vedasi l'analisi di Callahan ne la "medicina impossibile" ed. Baldini & Castoldi, da poco ristampato);
- la conseguente ipertrofia delle attese nei confronti del sistema sanitario e le altrettanto ipertrofiche offerte dell'apparato tecnoscientifico e medico-mediatico, ispirate alle "magnifiche sorti e progressive" e all'occultamento dei limiti umani, scientifici, organizzativi, tecnologici, economici etc... del sistema (vedi la criminalizzazione dell'errore medico).

La crisi si coagula ed emerge attorno ad un problema epocale, che costituisce una sorta di perturbazione epistemologica e pratica per il pensiero e le pratiche mediche di stampo positivistico-meccanicistico, nonché una "croce" quotidiana per tutti i diretti interessati: la malattia cronica. E' già stata ricordata la ben nota transizione epidemiologica dalla patologia acuta-infettiva, prevalente fino alla prima metà del secolo scorso, alla cronicità, vera e propria pendemia di fine millennio, propiziata dal miglioramento delle condizioni economiche, sociali, lavorative di vita etc... Ciò che vorrei sottolineare è che la cronicità è diretta e imprevista conseguenza del trionfo della tecnomedicina sulle malattie acute. Una volta guarito dalla polmonite o dal tifo, il paziente tornava alla vita normale, grazie alla cosiddetta restitutio ad integrum.

Oggi non e' più cosi!
L'infartuato, il diabetico insulinodipendente, il malato di AIDS, il bronchitico cronico, l'artritico, superata la crisi grazie alla potenza dell'intervento tecnomedicale deve rassegnarsi a prendere medicine, fare controlli, esami e visite per tutto il resto della sua vita! Insomma la malattia cronica è l'amaro frutto dell'intervento medico nelle situazioni acute: ma è un frutto acerbo ed assai indigesto per il sistema che resta costitutivamente orientato alla dimensione dell'acuzie, che ripropone in modo quasi coattivo proprio nelle situazioni di crisi.

Il problema è emerso anche recentemente nella nostra regione con alcuni casi finiti sulle pagine dei giornali: se una persona non sta più che male un posto letto in ospedale se lo sogna, ed anzi capita che anche quando versa in condizioni critiche deve peregrinare da un'ospedale all'altro, a meno che non evochi una consistente protezione in sfere elevate della politica. Il problema va naturalmente oltre la Lombardia e riguarda soprattutto la politica di riduzione dei posti letto, avviata a suo tempo dal ministro Bindi. Chi ne ha fatto fin'ora le spese sono stati soprattutto i reparti di medicina generale, che sono gli unici a poter accogliere pz. con polipatologie croniche in fase di scompenso o per fare un buon "tagliando".

Tutte le altre divisioni specialistiche dell'ospedale hanno un filtro rigido ed efficace: i malati non chirurgici, non-neurologici, non-cardiologici vengono facilmente respinti dalle rispettive divisioni. Il fatto è che il sistema, proprio nei momenti di crisi, si arrocca nella dimensione specialistica e ripropone la soluzione che è impressa nei suoi geni epistemologico-pratici, vale a dire la differenziazione funzionale tecno-super-specialistica e l'orientamento alla presa in carico delle situazioni acute che possono essere risolte con interventi tecno-riparatori (trapianti, chirurgia sostitutiva, rianimazione etc..,). E' quello che è accaduto in Lombardia, dove parallelamente al ridimensionamento delle medicine sono cresciuti i reparti cardiochirurgici e ortopedici, che operano a livelli di catena di montaggio industrale, con gran efficacia ed efficienza, ma non possono in nessun modo farsi carico della cronicità.

Servirebbe una specie di riorientamento organizzativo, una rivoluzione paradigmatica in stile Kuhniano ma purtroppo la triste scienza continua ad imperversare con i suoi limiti e, per giunta, i servizi e i professionisti che si prendono carico della cronicità e delle persone nella loro interezza bio-pisco-etc. sono poco considerati rispetto alla tecnomedicina, tendenzialmente sottopagati, sottofinanziati e scarsamente "appaganti" dal punto di vista del consenso politico.

Che fare dunque?

Dott. Giuseppe Belleri
medico di Medicina Generale
Flero (BS)

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La Fabbrica della Salute (2)

( 28 Gennaio 2004 )

( scritto da Maurizio De Filippis Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Nell'intervento "Innovazione in campo sanitario e responsabilità politiche (2)" del 19 gennaio 2004 Gian Maria Borrello, dopo aver compiuto alcune interessanti riflessioni sul rapporto tra tecnocrazia e politica, m'invitava ad esprimere un'opinione sullo "stato di salute" del sistema sanitario pubblico. In particolare mi chiedeva se tale modello, basato sino ad oggi su scelte di policy condivise, non stia attraversando un periodo di crisi. Cercherò, per quanto mi è possibile, di approfondire tali tematiche ponendo l'accento su alcuni degli aspetti più rilevanti del problema-salute.

Il fenomeno dell'invecchiamento della popolazione occidentale legato ad una diminuzione del tasso di natalità e all'aumento delle prospettive di vita media ha provocato una vera e propria rivoluzione anagrafica.

. Alle trasformazioni demografiche si è aggiunto un mutamento del trend epidemiologico: l'incidenza delle malattie infettive acute si è ridotta a favore di patologie croniche non trasmissibili.

. La diffusione di riviste, pubblicazioni, trasmissioni televisive e rubriche telematiche ha agevolato la diffusione di informazioni e conoscenze mediche tra la popolazione in una misura mai avvenuta in passato. La ricerca del benessere fisico e una sempre maggiore attenzione ai comportamenti e agli stili di vita ha contribuito ad accrescere la richiesta di servizi di qualità e di assistenza da erogare in tempi ragionevoli.

. A fronte dei progressi delle scienze mediche (prevenzione, profilassi e diagnosi) e della crescita della domanda di assistenza sanitaria (con conseguente aumento dei costi legati al personale e alle tecnologie applicate) si è registrata una contrazione delle risorse economiche disponibili.

. L'attenzione nei confronti degli aspetti economici (razionalizzazione dei servizi, riduzione delle spese e abbattimento dei costi) non deve però far dimenticare che il diritto alla "salute" è un bene prezioso che va garantito a tutti i cittadini con equità indipendentemente dallo status economico e sociale di appartenenza.

. Attraversiamo, purtroppo, un periodo in cui le disponibilità economiche da destinare al Servizio sanitario nazionale diminuiscono sempre di più (con gravi ripercussioni sulla qualità delle prestazioni erogate): occorre, a mio giudizio, nel più breve tempo possibile, effettuare scelte di politica sanitaria consapevoli (lotta agli sprechi e spese oculate ma anche attenzione ai bisogni del paziente) che riaffermino con chiarezza il ruolo basilare della sanità pubblica nei servizi di cura, assistenza e prevenzione. Tali scelte, in stretto collegamento con le necessità e i bisogni dei cittadini e del territorio, devono riportare al centro dell'attenzione generale la condizione individuale del malato impedendone così la frammentazione bio-psichica tipica di certa medicina iper-tecnologica.

. Il coinvolgimento attivo dei cittadini e degli "addetti ai lavori" nelle scelte di programmazione sanitaria deve essere percepita realmente come il risultato di un'intesa tra diversi soggetti, istituzionali e non, nell'ambito di una promozione generalizzata della salute che vada al di là degli egoismi sociali e geografici.

Lo stato di crisi in cui versa, attualmente, il sistema della sanità pubblica è evidenziato in modo esemplare dai deficit di bilancio e dalle difficoltà delle Regioni a far quadrare i conti. La recente suddivisione dei finanziamenti del Fondo sanitario nazionale è servita solo a tamponare l'emergenza. Il rischio concreto è che, di questo passo, nonostante i molti centri d'eccellenza accreditati e la presenza di personale qualificato, l'assistenza sanitaria pubblica vada incontro ad un declino inarrestabile favorendo così la privatizzazione delle strutture ospedaliere.

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Il feedback negativo dell'innovazione tecnica in medicina

( 28 Gennaio 2004 )

( scritto da Vittorio Bertolini Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Il saggio di De Filippis è indubbiamente un ottimo excursus sulla storia della medicina degli ultimi due secoli. Improntato, a mio parere, a un eccessivo ottimismo sulle “magnifiche sorti e progressive”. E’ fuor di dubbio che il progresso tecnico-scientifico abbia contribuito in modo determinante a modificare gli indici con cui abitualmente si misurano gli standard della salute di una popolazione, primo fra tutti la speranza di vita. La professione medica è sia un’arte che una tecnica; e l’innovazione tecnico scientifica ha spostato decisamente l’attenzione verso l’aspetto tecnico. Questo ha comportato un risultato positivo talmente evidente che non ha bisogno certamente di essere illustrato da parte mia e che nel saggio di De Filippis viene ampiamente evidenziato.
Il risvolto della tecnicizzazione della pratica medica ha innestato, però, un processo di retroazione negativa su cui vale la pena soffermarsi. Il medico più che a rapportarsi con il paziente, tende a rapportarsi ai dati strumentali. Il dibattito in corso su possibilità e limiti della evidence based medicine è un indice del disagio che il ricorso acritico alla tecnicizzazione suscita negli operatori sanitari più avvertiti ma anche nel grande pubblico. Non è casuale il ricorso, non più sporadico, a forme di medicina alternativa che, bene o male, danno l’impressione che al centro dell’attenzione dell’operatore sanitario ci sia la persona del paziente.
Un’ulteriore conseguenza della tecnicizzazione della medicina la troviamo nella ospedalizzazione della malattia. L’ospedale non è più il luogo della degenza e della cura ed ha sempre più accentuato la funzione di struttura di un centro di servizi tecnologici. Le stesse modificazioni intervenute nei modelli architettonici, in cui i diversi plessi di cliniche specializzate si sono via accorpati in unica struttura monoblocco è dovuto alla necessità di rendere più efficace l’utilizzo dei laboratori diagnostici. A ciò dobbiamo aggiungere che l’offerta crescente delle tecnicalità sanitarie si è rivelata insostenibile per ogni sistema sanitario, sia quello europeo basato sulla contribuzione pubblica che quello americano centrato sulla mutualità privata. Con la conseguenza della burocratizzazione e della standardizzazione delle procedure. L’aziendalizzazione dell’ospedale comporta che la responsabilità del medico prima di essere rivolta al paziente è rivolta al bilancio aziendale.
Nel saggio di De Filippis si parla del consenso informato come di una conquista della nuova medicina. E questo è senz’altro vero. Attraverso il consenso informato si supera quel rapporto asimmetrico fra medico e paziente che nel corso dei secoli ha sempre visto il paziente come “irresponsabile” di fronte alla propria cura. Ma nella medicina tecnicizzata il consenso informato, da atto in cui la responsabilità del medico si integra con quella del paziente, si trasforma in una procedura di routine.
In questo quadro emerge poi il ruolo del politico, che attraverso la burocratizzazione e l’aziendalizzazione ha trovato la via più facile per sfuggire alla responsabilità di conciliare i vari interessi, molte volte confliggenti, in un disegno unitario di compatibilità etiche ed economiche.

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Innovazione in campo sanitario e responsabilità politiche (2)

( 19 Gennaio 2004 )

( scritto da Gian Maria Borrello Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Nell'Introduzione che Maurizio De Filippis ha scritto al suo interessantissimo articolo "La Fabbrica della Salute" ho subito cercato delle risposte agli interrogativi che emergevano nel precedente intervento in questa sezione, intitolato "Innovazione in campo sanitario e responsabilità politiche".

La tematica più generale è quella dei rischi della tecnocrazia: una posizione --se vogliamo anche ideologica-- che si esprime nel ritenere che ci sono materie che sono di competenza esclusiva della Politica.

L'articolo di Marina Corradi e il modo in cui allora inquadrammo l'argomento: "Ciò che è possibile accadrà"

Il tutto poi ripreso in una postilla alla recente segnalazione del libro di Maurizio De Filippis "L'Ospedale Luigi Sacco nella Milano del Novecento"

L'articolazione che di questa tematica si può riscontrare nel campo della Sanità non è stata finora, in questo sito, adeguatamente sviluppata e le questioni toccate tempo addietro in un articolo di Marina Corradi, al quale facemmo riferimento e che riportava un dialogo a più voci coordinato dalla stessa giornalista, restavano sospese.
Ecco, allora, che avendo la possibilità di un'interazione con Maurizio De Filippis, dottore in storia e ricercatore presso l'Azienda Ospedaliera-Polo Universitario "Luigi Sacco" di Milano, ho subito cercato di recuperare questa tematica.
De Filippis, dunque, nella sua Introduzione affronta la questione già sottolineata da Ivan Cavicchi (direttore generale di Farmindustria) nell'articolo citato. Gli chiederei quindi se quando parla di "sistema democratico di regole condivise" non avverta la tentazione di dare un giudizio di merito sull'efficienza e sull'efficacia di questo "sistema". Più specificamente, vorrei chiedergli se, con riferimento al campo sanitario, pensa che questo sistema sia in crisi o che si prefiguri una sua crisi.
Per la verità non sono riuscito a capire chiaramente quale sia la sua opinione riguardo al rapporto fra Politica e Tecnoscienza (in campo sanitario). Io penso che --c'è poco da fare-- non possiamo confondere le due cose: da una parte c'è la Politica, dall'altra la Tecnoscienza. Se posso azzardare, direi che De Filippis preferisce vedere le due in rapporto organico. Sì --risponderei-- questo è quanto dovrebbe (forse) essere. Ma (domanda retorica) siamo sicuri che sia anche ciò che avviene?
Cavicchi, infatti, aveva posto un problema: come potrà la sanità pubblica garantire a tutti terapie sempre più efficaci ma anche sempre più costose?
E' forse questo un falso problema perché quello fra tecnocrati e politici è un sodalizio che va a gonfie vele?
Può darsi benissimo che questa unione funzioni alla grande, ma io mi chiedo (e anche questa è una domana retorica) se la sinergia che ne scaturisce travisi, negli effetti, una domanda della società, se eluda una sempre crescente esigenza di assistenza.
E, rivolgendomi a De Filippis, è appunto in riferimento a questa domanda di genere sociale (che trovo si ricolleghi bene al punto in cui egli pone in luce che l'intervento pubblico in campo sanitario affonda le proprie radici non nell'assistenzialismo, ma nella caritas cristiana e nella filantropia laica) è --dicevo-- proprio in riferimento a questa domanda che mi interesserebbe conoscere la sua opinione.

Grazie.

P.S.
Su La Repubblica di ieri (p. 27) trovo notizia del rapporto di Cittadinanzattiva sulle malattie croniche in Italia, presentato sabato scorso: «"E' un trend inesorabilmente in crescita", spiega Stefano Inglese del Tribunale per i diritti del malato - Cittadinanzattiva. "L'invecchiamento della popolazione produce sempre più malati cronici. Il problema è che lo Stato non risponde alle loro esigenze (...). Si bada al risparmio e non alla riqualificazione della sanità. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: il sistema non collassa solo grazie alla rete di supporto delle famiglie"».
Ora, io resterei sorpreso se scoprissi che Inglese ripone fiducia nell'attuale sistema democratico di regole condivise...

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La Fabbrica della Salute - Introduzione

( 19 Gennaio 2004 )

( scritto da Maurizio De Filippis Cliccare sul link per scrivere all'autore )
Se il Novecento ha rappresentato, sotto molti aspetti, il trionfo della Scienza e della Tecnica, il Terzo millennio si apre forse con l'esigenza di ripensare a fondo il rapporto tra la dimensione tecnico-scientifica del sapere e le forme della sua applicazione nella società civile. Il ruolo dominante assunto dalle discipline scientifiche nel corso del XX secolo ha indotto il mondo politico e istituzionale ad affrontare la questione della loro regolamentazione avvalendosi di consulenti tecnici in grado di supportarne le decisioni. L'interpretazione normativa del linguaggio tecnico-scientifico e la sua traduzione in scelte di policy hanno reso indispensabile la presenza di un sistema democratico di garanzie e regole condivise allo scopo di agevolare un attivo coinvolgimento della società civile alle decisioni science-based. La competitività di un paese in campo scientifico, infatti, si misura soprattutto dalla volontà e dalla capacità di rinnovare integrando tra loro le diverse "anime" che concorrono a produrre innovazione. In campo medico e sanitario, ad esempio, gli stretti rapporti tra le Università, sede elettiva dei percorsi di formazione e ricerca, le Aziende Ospedaliere e le case farmaceutiche, costituiscono la condizione essenziale per tramutare idee e conoscenze in soluzioni terapeutiche al servizio del paziente. La Lombardia rappresenta, da questo punto di vista, la regione italiana dove esiste la maggiore concentrazione di Atenei universitari, centri di ricerca pubblici e privati, risorse economiche e imprenditoriali. La risoluzione dei problemi inerenti alle dinamiche organizzative, il raggiungimento di un elevato standard di qualità nell'erogazione dei servizi, l'autonomia professionale, presuppongono, pertanto, l'adozione di logiche di carattere sinergico e multiprofessionale che prevedono la partecipazione di tutti gli "addetti ai lavori". La complessità di questi fenomeni coinvolge anche il rapporto medico-paziente: l'approccio sempre più specialistico della pratica medica ha determinato il prevalere della tecnica sugli aspetti antropologici della cura provocando, nel contempo, un progressivo aumento degli obblighi burocratici legati ai processi di ospedalizzazione e medicalizzazione della cosiddetta "società del benessere".

Le croniche difficoltà del sistema sanitario italiano non hanno impedito in questi anni l'avvio di un imponente processo di rinnovamento che, attraverso l'aziendalizzazione delle strutture sanitarie e la riqualificazione del personale, si è proposto di valorizzare tutti quei servizi volti ad ottenere un miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Tale trasformazione ha permesso, sino ad ora, la diffusione di efficaci modelli organizzativi e gestionali capaci di coinvolgere tutti i livelli strutturali e operativi, modificando sensibilmente la mentalità dei professionisti impegnati nella realtà del Servizio Sanitario Nazionale. Conciliare l'odierno processo di aziendalizzazione ospedaliera con la rilevazione delle situazioni di criticità di un "sistema sanitario" pubblico, ricco di contraddizioni ma anche di energie inespresse, implica l'adozione di politiche di tutela della salute che mettano in rilievo, accanto alle irrinunciabili logiche economiche, un'equa distribuzione delle possibilità di cura. Per restituire vitalità all'intero sistema occorre però reagire con grande impegno al crescente disagio e al moltiplicarsi delle situazioni di dipendenza socio-sanitaria di larghe fasce della cittadinanza infondendo nuova fiducia nelle qualità del servizio pubblico attraverso il raggiungimento di obiettivi condivisi, investendo risorse sul capitale umano, sulla ricerca scientifica e sulla formazione del personale addetto all'assistenza. Il problema, naturalmente, riguarda non solo gli "operatori del settore", ma tutta la popolazione: la diffusione di una "cultura della salute" che tenga conto sia dei confini della scienza e della tecnica che della comprensione dei limiti del corpo umano, deve preludere al rilancio di un sistema sanitario orientato non in senso assistenziale ma sociale (1). Va ricordato, infatti, che in Italia, l'intervento pubblico in campo sanitario a tutela della salute dei cittadini, affonda le proprie radici non nell'assistenzialismo ma nella caritas cristiana e nella filantropia laica, retaggio culturale che oggi troppo spesso, chi si occupa di salute e sanità, tende a sottovalutare (2).

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Note

(1) L'intervento pubblico in campo sanitario a tutela della salute dei cittadini, si può far risalire ai secoli XVIII-XIX, ma per cogliere l'inizio di questo lento processo, occorre tornare alla fine del Medioevo. Le città italiane furono tra le prime ad adottare iniziative concrete per difendersi dai rischi delle malattie contagiose quali, ad esempio, la peste: regolamenti e leggi emanati da Uffici di sanità provvisori, disposizioni per l'isolamento degli appestati, contenimento delle possibili fonti d'infezione, costituivano solo alcune delle misure precauzionali emanate dalle autorità cittadine. Nel 1374 Bernabò Visconti "dispone che tutti i malati di peste escano dalle mura e vivano in boschi e capanne, lontani dalla città, sino alla morte o alla completa guarigione. Gli accompagnatori dei malati devono rimanere isolati per dieci giorni, prima di poter rientrare in Milano". A. M. Calvi, Le malattie infettive nella storia, in L'Ospedale Agostino Bassi di Milano, Monticello, Grafica Briantea, 1993, p. 8. Sempre nello stesso anno Venezia, città "a rischio" per le intense relazioni commerciali con l'Oriente, impedì alle navi provenienti da località sospette di accedere al porto. Nel 1377 "Ragusa, l'odierna Dubrovnik, in Dalmazia, seguita poi da Venezia costruì addirittura un porto speciale nel quale le navi con contagiosi a bordo dovevano trascorrere un periodo di isolamento prima di trenta, poi di quaranta giorni. Da qui il termine quarantena". Ibidem, p. 9.

(2) Il progressivo estendersi della sfera d'influenza dello Stato nei confronti della società civile, dovuto alla graduale dissoluzione dei vincoli comunitari caratteristici della società d'ancien régime, portò con sé come conseguenza diretta l'esigenza di un sempre più accentuato impegno pubblico in materia assistenziale: a partire dai secoli XV-XVI, il declino dell'idea di povertà medievale capace di accostare il povero alla figura di Cristo coincise con l'affermarsi di una concezione che tendeva a trasformare il mendicante e il vagabondo in soggetti da segregare e da bandire in quanto potenziali perturbatori dell'ordine sociale. Cfr. B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1991. Per ciò che concerne la tradizione assistenziale milanese, occorre dire che sin dal Trecento essa era caratterizzata da un precario equilibrio che vedeva gerarchia ecclesiastica, patriziato e autorità statale in concorrenza per la gestione del sistema caritativo. L'assistenza cittadina si basava su numerosi istituti ospedalieri retti autonomamente da sodalizi religiosi, che però a differenza dell'Ospedale Maggiore, sorto alla metà del XV secolo, non si potevano considerare ancora veri e propri luoghi di cura. In tale contesto, la comparsa di un associazionismo laico con finalità di beneficenza elemosiniera rappresentò, nel panorama caritativo medioevale, una novità di assoluto rilievo. Tra le decine di luoghi pii presenti a Milano attorno alla metà del Settecento, poco prima che l'intervento di Giuseppe II (1741-1790) ne decretasse un drastico ridimensionamento, i più importanti per l'entità dei patrimoni e per la plurisecolare attività, erano cinque: le "Quattro Marie", la "Misericordia", la "Carità", la "Divinità" e il "Loreto". Cfr. I. Riboli, I Luoghi Pii elemosinieri di Milano e i loro benefattori, in La generosità e la memoria. I Luoghi pii elemosinieri di Milano e i loro benefattori attraverso i secoli, Milano, Amministrazione delle II. PP. A.B, ex E.C.A.,1998.

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Innovazione in campo sanitario e responsabilità politiche (inizio del dialogo on line)

( 16 Dicembre 2003 )

( scritto da Gian Maria Borrello Cliccare sul link per scrivere all'autore )

«Gli sviluppi istituzionali (veicolati dai progressi delle scienze mediche e delle tecniche diagnostiche) cui è andato incontro l'Ospedale Sacco nei suoi settant'anni di storia, mi auguro, possano fornire un piccolo contributo all'adozione di moderne politiche di tutela della salute e della sanità pubblica».

Questa frase di Maurizio De Filippis (ricercatore presso l'Azienda Ospedaliera-Polo Universitario "Luigi Sacco" di Milano), citata da Paola Parmendola nel suo blog di Segnalazioni, mi ha riportato alla memoria un argomento toccato in questo sito circa un anno fa, ma mai adeguatamente sviluppato: l'innovazione in campo sanitario e le responsabilità politiche che essa comporta.

Ci sarebbe sicuramente utile che De Filippis volesse offrirci un suo contributo di riflessione in merito.

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Argomento:
Innovazione in campo sanitario e responsabilità politiche
(Indice da Settembre 2003 ad Agosto 2004)