
'Audit Cultures', a cura di Marilyn Strathern
di Cristina Grasseni [1], Marilyn Strathern [2], 22 Luglio 2005
Nella sua raccolta Audit Cultures, pubblicata da Routledge nel 2000, una delle figure più eminenti della comunità antropologica britannica, Marilyn Strathern, si propone di mappare "una nuova cultura emergente", in altre parole una forma di innovazione socialmente, moralmente e politicamente pervasiva, che chiama la cultura delle "new accountabilities" - cioè l'introduzione di protocolli standard per rendere "accountable" (valutabili e perciò responsabili) determinati tipi di performance. L'interesse, nel contesto di questa rubrica, di una rivisitazione di questo innovativo testo antropologico nasce dal fatto che esso esprime esplicitamente interesse e preoccupazione, da un lato per l'etica e la credibilità delle imprese, e quindi per il tipo di moraità che può essere introdotta da una "cultura della valutazione"; dall'altro, per il fatto che vi si affronta l'emergenza di una nuova categoria globale di pratiche "che non sono confinate in nessuna istituzione specifica", anche se si radicano nella contabilità finanziaria e prescrivono l'efficienza economica in termini di "buone pratiche" - in primis la pratica della valutazione.
La maggior parte dei saggi si concentra sull'impatto sociale della valutazione nella pratica accademica e sulle istituzioni scolastiche, ma questo fatto è meno interessante, ai fini della segnalazione del testo, della chiara e vasta analisi che Marilyn Strathern opera sulle culture della valutazione. In particolare, si mette in luce che:
1. l'auditing è una procedura di valutazione che deriva da, e ha effetti importanti su, situazioni sociali precise, nonostante tenda a formalizzarsi in protocolli che aspirano ad essere svincolati dal contesto, trasparenti e neutrali. In altre parole, si creano così delle performance che sono in realtà uniche e specifiche rispetto a contesti, personalità e relazioni e che possono essere investigate etnograficamente, cioè secondo una logica narrativa, o genetica, che privilegia la prospettiva storica e il coinvolgimento personale del ricercatore. Richard Harper ce ne dà un esempio con la sua etnografia del Fondo Monetario Internazionale nel capitolo 1. Si tratta di un caso di studio che mostra come i rappresentanti del FMI in missione in un paese in via di sviluppo debbano concertare la loro raccolta di dati macroeconomici con le autorità locali, a volte mediando tra i diversi livelli della gerarchia delle autorità locali, e mantenendo un coordinamento tra loro stessi, in modo da "costruire" coralmente un quadro sensato dell'economia del paese. In particolare, gli incontri debbono passare sia per fasi negoziali e di concertazione, sia per fasi "rituali" per potersi trasformare in "riunioni che contano" e produrre dei quadri consensuali per le politiche successive.
2. Per il modo in cui vengono implementate e innestate nel tessuto stesso di molte pratiche quotidiane e situate, tuttavia, i protocolli di valutazione spesso diventano "rituali di verifica" che è "quasi impossibile criticare in via di principio".
3. Nonostante ciò, le culture della rendicontazione sono appunto culturali e ciò si rende particolarmente evidente all'interno di istituzioni come la Commissione Europea, che comprendono non solo diverse lingue, diverse tradizioni e scuole di professionalità, ma anche, inevitabilmente, diverse concezioni e pratiche di governance (come mostra Maryon McDonald nel capitolo 4).
Grazie a questa doppia focalizzazione, sui contesti di pratica professionale (pubblica e privata) e sui sistemi di riferimento etico-morali, la critica contenuta in questo libro sull'emergenza di un unico modello di valutazione, monitoraggio e rendicontazione che tradirebbe e impedirebbe la libertà di ricerca nell'accademia è in realtà di interesse molto più vasto per chiunque voglia ragionare in termini di antropologia dell'innovazione riferita alla società nel suo complesso. I protocolli di auto-valutazione, di implementazione e monitoraggio delle policies, e di rendicontazione delle performance sono diventati uno strumento pervasivo sia nelle imprese e nelle corporazioni che nei governi e nelle istituzioni pubbliche, implicando ugualmente individui diversissimi, impegnati in pratiche disparate in diverse parti del globo (dal fare il formaggio in alpeggio all'implementare un progetto di sviluppo, dalla mungitura in una stalla padana alle procedure di rimborso di un ufficio assicurativo di New York). Un esempio per tutti, tratto dal testo (il capitolo 3 di Eleanor Rimoldi), riguarda l'ubiquità e la proliferazione dei controlli di qualità, dai contesti produttivi caratterizzati da un alto grado di automazione a quelli dell'apprendistato, dell'apprendimento individuale e della conoscenza tacita, a volte con effetti disperanti. Come mostra Rimoldi comparativamente nel caso dell'educazione universitaria e della formazione professionale in Nuova Zelanda, dalla formazione del filosofo a quella dell'estetista, i protocolli di valutazione tendono a diventare "la misura di tutte le cose", con gravi implicazioni per i modi in cui essi danno effettivamente nuova forma ai processi di apprendimento e di addestramento (per esempio, trasformando un processo continuo di apprendimento in uno stillicidio di "unità didattiche" mirate alla trasmissione di specifiche competenze, misurabili e valutabili.
Ciò che è di maggior interesse in questo testo, oltre alla denuncia dello stato di difficoltà in cui versa la libera ricerca e docenza in seguito a tutto ciò, è l'approccio antropologico adottato per "pensare all'auditing come a un actant" nel senso di Bruno Latour - cioè un oggetto (una pratica in questo caso) che viene investito di un potere e una capacità di azione propria. Questo approccio etnografico è originale e potrebbe essere molto utile nello studio di istituzioni politiche, organizzazioni economiche e strategie di management, fornendo "una rete di descrizioni che pertengono ugualmente alla valutazione, all'etica e alla politica".

From rock engravings in Val Camonica, Northern Italy, c. 800-200 BC.
Cover Design: Sutchinda Rangsi Thompson
In Amazon.com [4]: Table of Contents; Excerpt; Index and Back Cover [5]
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- 1] /schedabiografica/Cristina Grasseni
- 2] /schedabiografica/Marilyn Strathern
- 3] https://www.fondazionebassetti.org/it/focus/2005/07/audit_cultures_a_cura_di_maril.html#commenti
- 4] http://www.amazon.com/exec/obidos/ASIN/0415233275/qid=1122025387/sr=2-1/ref=pd_bbs_b_2_1/002-0486362-1296853
- 5] http://www.amazon.com/gp/reader/0415233275/ref=sib_dp_pt/002-0486362-1296853#readerpage
- 6] http://www.livingstrat.com
- 7] http://arengario.net/citt/citt128.html
- 8] http://www.livingstrat.com

Commenti: 2
Giacomo Correale [6]
Il tema trattato da Marilyn Strathern nel suo libro "Audit Cultures" e ilcommento di Cristina Grasseni sono di grande attualità.
Recentemente ho scritto un commento al Bilancio sociale presentato dal Comune di Monza alla cittadinanza , commento che è comparso sulla rivista on line Arengario.net ( http://arengario.net/citt/citt128.html [7] ). Il bilancio sociale, che si va diffondendo sia tra le aziende che tra le amministrazioni pubbliche, non è altro che un rendiconto a tutti gli stakeholder dell'azienda o dell'istituzione non solo dei risultati economico finanziari, ma anche di quelli relativi ad altri "valori" perseguiti (dal grado di soddisfazione del cliente al livello di qualità della vita per i cittadini, rispetto agli impegni assunti).
In sintesi, le mie modeste convinzioni in proposito sono le seguenti:
1. La rendicontazione comporta un continuo sforzo, mai esauribile, di traduzione di elementi qualitativi in dati quantitativi che consentano di misurare i risultati rispetto agli impegni assunti. Ma i dati quantitativi dovranno sempre essere "enbedded" in quelli qualitativi. Non è quindi del tutto vero che "what you measure, is what you get", secondo l'idea originaria di Robert S. Kaplan e David P. Norton. inventori di uno dei metodi di misurazione delle prestazioni globali di una impresa più in voga, quello della Balanced Scorecard (BSC);
2. Ogni organizzazione offre qualcosa di unico a una platea altrettanto unica di stakeholder. Quindi, deve prima di tutto preoccuparsi di rendere conto su quelli che sono i propri specifici impegni programmatici verso i propri stakeholder, adottando i parametri che meglio rispondono a questa rendicontazione, che sarà quindi ovviamente diversa da ogni altra.
Una volta postosi questo obiettivo basilare, potrà e dovrà ricorrere a quei principi, codici, protocolli, format eccetera che vengono elaborati e proposti da enti "sussidiari" come supporto per la rendicontazione, e che sono essenziali per consentire confronti omogenei con altre organizzazioni analoghe. Ma senza mai rinunciare a rendicontare su quegli aspetti che non sono considerati da queste norme perchè non generalizzabili, ma che interessano specificamente il "sistema di fedeltà" di una data organizzazione...
Temo che questo mio contributo sia piuttosto banale e ovvio, anche se l'esperienza mi dice che molti si preoccupano di misurare e di riempire delle caselle secondo regole provenienti dall'alto o dall'esterno, senza chiedersi abbastanza che cosa debbano veramente rendicontare e a chi, e quali siano i parametri più appropriati allo scopo.
Mi sembra chiaro che tutto ciò dipenda da fattori sociologici e antropologici che caratterizzano le diverse organizzazioni e i relativi ambienti. Ma sul terreno della sociologia e dell'antropologia mi muovo sempre un po' a tentoni...
Può forse interessare un dato: nel 2004 la percentuale delle società quotate in Borsa in Italia che redigono un bilancio sociale è del 12%, contro il 72% in Giappone, il 49% in Gran Bretagna e il 36% in USA.
E' inoltre certo che in Italia solo una piccola frazione delle piccole e medie imprese elaborano un bilancio sociale.
Esistono dati che mostrano che la pratica di questo tipo di audit si va diffondendo anche nelle amministrazioni pubbliche, ma che è ancora in fase sperimentale ed evolutivo (vedi www.bilanciosociale.it).
Tutto ciò è sicuramente legato a una evoluzione in atto di tipo sociologico e antropologico (personalmente, faccio ancora una gran fatica a mettere a punto un audit par la mia attività professionale, anche perchè spesso non mi viene richiesto, e sono io a sentirne il bisogno più del committente!).
Mario Castellaneta
Mi sembra che l'argomento trattato da Marilyn Strathern e da Cristina Grasseni ponga un problema significativo per i processi di innovazione. Le audit cultures si sono sviluppate durante i processi di produzione "tayloristica": prodotti standard da immettere sul mercato attraverso un processo di "buona gestione"; questo riguardava anche prodotti immateriali (ad es. i corsi universitari) e non solo la mass production.
In questo contesto la cultura dell'audit assicurava il rispetto di standard di buona condotta e garantiva il cliente/consumatore da truffe e/o negligenze. Alla lunga c'è stato un proliferare di queste procedure che sono andate ben al di là di quello che erano preposte a fare spesso diventando fini a sé stesse: la forma, in alcuni casi, ha finito con il prevalere sui contenuti ed è diventata autoreferenziale: non era più un servizio, ma diventava il prodotto e qiesto certamente è un fatto negativo.
Nel contesto attuale, definito dall'ormai inflazionato, ma sempre attuale, termine di "società della conoscenza" queste procedure rischiano di diventare un ostacolo alla creazione di conoscenza ed all'innovazione discontinua: sono, infatti, state fatte per eliminare le punte e le anomalie e per allineare, sia pure verso l'alto, i comportamenti ed i processi.
L'innovazione, per sua stessa natura, tende a sfuggire a questi paradigmi ed a crerne continuamente di nuovi. In altre parole vive di "punte e anomalie": vedo con difficoltà queste procedure di audit applicate, senza gli opportuni adeguamenti, ad un laboratorio di biotecnologie o di nanotecnologie. Una delle sfide che si aprono, pertanto, è coniugare queste due culture.
Mario Castellaneta