La protagonista di questa intervista è Sabrina Bartolotta, dottoranda di ricerca in Psicologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. La sua attività si concentra sull’interazione uomo-tecnologia, con particolare attenzione al digital learning e alle tecnologie estese (realtà virtuale, realtà aumentata e intelligenza artificiale) applicate all’educazione.
- Le applicazioni di realtà virtuale immersiva (IVR) stanno guadagnando attenzione nel campo educativo. In che modo sono, o possono essere, veramente innovative? L’apprendimento attivo, la centralità del discente, il “learning by doing” tanto citati sono di fatto concetti presenti da tempo nelle scienze dell’educazione…
La realtà virtuale immersiva è un “semplice” strumento, che, se utilizzato senza un obiettivo pedagogico o una finalità didattica chiari, non porta alcun valore aggiunto alla pratica educativa. Per capirne il portato innovativo, bisogna invece ancorarlo a un framework teorico solido come quello, ad esempio, della teoria dell’Experiential Learning di Kolb che definisce l’apprendimento un processo legato all’esperienza. In questo modo ciò che appare evidente è che la IVR permette un grado di multisensorialità non presente nella didattica tradizionale. Immergersi in uno spazio virtuale consente di generare ambienti di qualsiasi tipo, interagire con compagni presenti e no, trasferirsi in altri contesti, vivere esperienze proattive. La didattica tradizionale ha confinato il corpo in spazi fisici limitati, la IVR consente invece di riscoprire le capacità esplorative di corpo e movimento. Senza contare che in questo ambiente non è più il docente il solo detentore della conoscenza, se mai diventa un facilitatore… Ad oggi, la letteratura e gli studi sull’adozione in ambienti educativi delle tecnologie estese (realtà aumentata, virtuale, mista, intelligenza artificiale, integrazione in un unico ecosistema immersivo e interattivo), ci dicono che la realtà virtuale immersiva consente di accedere sia a setting diversi, sia a stati emotivi connessi a un ampliamento cognitivo grazie a una sorta di simulazione dell’attività cerebrale come indicato da Giuseppe Riva.
- Presso l’Università Cattolica è stato condotto uno studio che ha esplorato l’accettazione degli studenti nell’utilizzo della realtà virtuale immersiva e degli ambienti di apprendimento integrati del metaverso, per esplorare il grado di accettazione degli studenti di queste tecnologie? Quali sono stati i risultati?
Si è trattato di uno studio longitudinale su una classe di 30 studenti che hanno partecipato a diverse sessioni laboratoriali in cui la IVR veniva impiegata con precisi obiettivi didattici. Per esempio, per esplorare il tema delle tecnologie per il benessere, abbiamo sperimentato un app per la mindfulness; per affrontare il tema della clinica tra neuroscienze e tecnologia, abbiamo sperimentato un’app che consente, nel trattamento di disturbi alimentari come bulimia e anoressia, di entrare in un altro corpo…. Il percepito finale è stato positivo, con il risultato interessante che a determinare il risultato non è l’aspettativa, quanto la qualità dell’esperienza e la percezione dell’efficacia.
- E come cambia l’insegnamento? Quali strumenti e competenze sono necessari per i docenti?
Qui risiede uno dei principali ostacoli attuali. L’intero ecosistema delle tecnologie estese cambia e avanza molto rapidamente. I docenti non possono più limitarsi a essere erogatori di contenuti o esperti di materia: devono acquisire competenze tecnologiche e diventarne facilitatori. La IVR, ad esempio, richiede competenze per gestire hardware e logistica. È probabile che nel futuro si rendano necessarie figure intermedie che supportino l’uso degli strumenti, ma la formazione è ancora una volta, e non da oggi, fondamentale. Il nostro progetto Metaversity, coordinato da Andrea Gaggioli e dedicato all’esplorazione delle potenzialità formative della didattica immersiva, che ha da poco concluso i suoi primi tre anni, ha coinvolto circa 600 studenti in sedici giornate laboratoriali. Gli studenti hanno sperimentato la IVR in vari corsi universitari, e sono stati raccolti dati su aspettative, paure, soddisfazione, qualità percepita, emozioni positive e negative. L’analisi dei dati è in corso e porterà a una pubblicazione su una delle sperimentazioni più ampie al mondo in questo ambito. E che non si concluderà visto che avremo altri tre anni di ricerche, una sorta di Metaversity 3.0 con un focus sull’extended learning e l’integrazione con l’intelligenza artificiale.
- Un’altra criticità appare la possibilità di valutare la qualità dell’apprendimento ottenuto in ambienti di realtà virtuale immersiva o metaverso…
Gli studi che fanno comparazione tra le due diverse modalità didattiche ci sono e sono contrastanti. Il punto focale è che, facendo uso di esperienze didattiche e metodi differenti, anche i criteri valutativi dovrebbero essere diversi. Inoltre, la valutazione dell’aspetto quantitativo, ad esempio utilizzando questionari; non sempre coincide con il dato qualitativo, il valore immateriale percepito dallo studente. Altrettanto dimostrato però è il fenomeno del cosiddetto overload cognitivo. Quando gli ambienti virtuali sono troppo ricchi o le attività troppo numerose, l’attenzione viene catturata da stimoli non rilevanti ai fini didattici finendo con il diventare fonte di distrazione.
- E questi ambienti possono invece essere utilizzati per potenziare le soft skill?
Dipende. Anche in questo caso gli studi che dimostrano l’efficacia della IVR come ambiente simulativo per allenare soft skill danno risultati contrastanti. Il nostro gruppo di ricerca ha lavorato in un contesto aziendale per fare training a 45 dipendenti su comunicazione empatica e comunicazione ispirante. È bene chiarire che si è agito sul livello cognitivo della comunicazione empatica, sull’insegnamento dell’interazione verbale, non sull’empatia in sé, competenza disposizionale che per lo più dipende dalla propria biografia. In questo progetto abbiamo adottato tutte le quattro fasi del ciclo di Kolb per l’apprendimento esperienziale, e i risultati sono stati positivi, soprattutto perché la tecnologia era usata con parsimonia, la persona era al centro del processo e l’obiettivo chiaro. Quello che è emerso, in questo caso, il metaverso offre più possibilità di sperimentazione rispetto alla realtà fisica.
- L’esperienza dell’apprendimento sollecita però tutti i sensi del nostro corpo, olfatto e tatto compresi. Le tecnologie estese, dalla realtà virtuale al metaverso, sono in grado di colmare questa mancanza?
Non lo fanno, ed è un tema molto attuale. Abbiamo appena concluso un laboratorio immersivo per un corso di geografa in cui abbiamo simulato una passeggiata, con tanto di digressioni temporali fino al 2008, a Chinatown, e uno degli studenti commentava proprio l’assenza dell’olfatto e della percezione tattile. Noi sappiamo che la mente è intricatamente legata al corpo e alle sue interazioni con l’ambiente: è la teoria dell’embodied cognition. Attualmente la IVR stimola prevalentemente vista e udito, ma ci sono ricerche promettenti. Ad esempio, l’IIT di Genova e il Politecnico di Milano stanno sviluppando dispositivi olfattivi, come quelli progettati nel laboratorio di Monica Bordegoni, responsabile del Virtual Prototyping del Dipartimento di Meccanica, scaricabili online e compatibili con i visori. In Svizzera, alla EPFL, tra ingegneria biomedica e neuroscienze, si lavora su guanti aptici per restituire il senso del tatto.
- La prima classe di realtà virtuale utilizzando Oculus Quest 2 è stata introdotta dalla Stanford University. A essa, sono seguite altre università, sempre non pubbliche. C’è il rischio che questa nuova esperienza di apprendimento diventi elitaria e amplifichi ulteriormente le disuguaglianze?
Purtroppo, sì. Basti pensare ai costi dell’attrezzatura hardware, occhiali o visori, dai 350 ai 5.000 euro, della logistica e delle applicazioni necessaria. Non tutte le università o scuole possono permetterselo. Anche l’adozione delle tecnologie estese pone quindi una questione di responsabilità sociale. Il che comprende anche una riflessione sul senso della loro introduzione nei diversi contesti. Uno studente, per esempio, ha avanzato l’ipotesi, durante i nostri laboratori, di portare visori nelle scuole dei bambini di Paese in via di sviluppo per permettere di fare esperienze a mondi a cui presumibilmente non potranno mai accedere. Viene da chiedersi se sia davvero utile, o se in questo caso l’adozione delle tecnologie estese abbia davvero una chiara finalità didattica.