Che rapporto c’è tra una società che promette “più vita” e lo strapotere tecnologico contemporaneo? Longevità, innovazione, intelligenza artificiale riflettono, nelle loro interconnessioni e conseguenze, la complessità del mondo attuale (almeno quello occidentale). Tutte sono presenti nel nuovo libro di Chiara Giaccardi, sociologa e antropologa dei media, e Mauro Magatti, sociologo ed economista, Generare libertà (Il Mulino 2024). Al professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nonché direttore del Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change, abbiamo chiesto di partecipare ai nostri Dialoghi su Responsabilità e Intelligenza Artificiale.
- “Più vita” è una delle grandi promesse della società contemporanea, una promessa che intercetta il grande potere che noi attribuiamo alla tecnica fino a ipotizzare una sorta di immortalità, di superamento dell’umano, di cui intelligenza artificiale, robot umanoidi e realtà virtuale sono sintomi. Nel libro si mette in dubbio che l’aumento delle possibilità di vita individuali sia un bene in sé, cercando di portare la riflessione sul significato vero del “più vita”. Ma, in un’epoca in cui è la stessa intelligenza artificiale ad assicurare potenziamento cognitivo e tutte le risposte possibili, dove possiamo trovare quel senso e quel valore?
Il Novecento è stato un secolo che ha segnato l’accesso, almeno per l’Occidente, a un benessere quotidiano diffuso, ma per noi è importante, in senso weberiano, guardare alla dimensione culturale e spirituale che sta dietro a questo processo di crescita. Il salto in avanti ha coinciso con la secolarizzazione delle società, e un allontanamento progressivo da ogni senso di trascendenza. “Più vita”, nella società contemporanea, ha così assunto un significato prettamente materiale, quando invece si tratta di una profonda questione filosofica dalle grandi implicazioni politiche e sociali. Ma se l’essere umano schiaccia la spinta del suo “andare oltre” sull’immanenza, un’immanenza tecnica in cui cessa il riconoscimento dell’anello vita/morte, il pericolo è quello di esaurirsi in essa. Tutto il tema del potenziamento dell’umano o del transumanesimo consegna in vero l’umano alla sua autodistruzione perché non concepisce un sé, se non nel mondano, nella macchina. Possiamo accettarlo?
Ma se l’essere umano schiaccia la spinta del suo “andare oltre” sull’immanenza, un’immanenza tecnica in cui cessa il riconoscimento dell’anello vita/morte, il pericolo è quello di esaurirsi in essa. Tutto il tema del potenziamento dell’umano o del transumanesimo consegna in vero l’umano alla sua autodistruzione perché non concepisce un sé, se non nel mondano, nella macchina
- Il fisico Max Planck, nella sua Autobiografia Scientifica (Castelvecchi ed.) scrive che raramente un’innovazione importante si fa strada convertendo i suoi avversari. Ciò che accade è invece che i suoi oppositori gradualmente scompaiono e la nuova generazione finalmente la adotta. Parafrasando: “la scienza progredisce un funerale alla volta”. La società del “più vita” determinata dal progresso di scienza e tecnica contiene dunque, anche per quanto riguarda la sua possibilità di creare nuova conoscenza, di innovare, i semi per un sua fine?
Basta guardare alle crisi che incombono: i grandi progressi che la scienza moderna ha generato hanno garantito un aumento quantitativo della vita, ma essendo basati su principi di astrazione, sulla sconnessione della vita umana dal suo ambiente naturale e sociale, finiscono per abbandonare pezzi di vita umana, fragilità compresa. Il paradosso sta proprio nel fatto che dalla conoscenza pur straordinaria prodotta da questa emancipazione dal naturale, in cui l’essere umano è soggetto e osservatore, deriva un’idea di tecnica come strumento di controllo e dominio. Una tirannia che alimenta quel distacco tra noi e ciò che ci circonda e di cui però rischiamo di rimanere vittime, anche perché è la relazionalità, come la scienza stessa afferma, a essere la condizione imprescindibile dell’esistere. Ecco, quindi, che anche la qualità della nostra conoscenza stessa alla fine risulta compromessa.
- Ed è a rischio anche la nostra libertà. Sappiamo che big data, piattaforme digitali, e ovviamente intelligenze artificiali costituiscono un sistema fortemente condizionante, con un potere di routinizzazione e anticipazione di comportamenti e opinioni… Ma un mondo in cui prevale la “sovranità dell’Io”, è il concetto di libertà stessa, ormai concepita solo come autodeterminazione, a vacillare…
L’idea tutta moderna che esistono identità diverse, l’Io, l’Impresa, lo Stato, che agiscono con libertà assoluta è inadeguata rispetto alla complessità che viviamo, ma non è facile incorporare la consapevolezza che non ci sia nulla che non sia in relazione. Si tratta di un cambio di concezione paragonabile alla rivoluzione galileiana. Noi siamo liberi, ma questa libertà non si può dare indipendentemente dal legame, anzi si gioca tutta nella responsabilità con quel legame. Il nesso tra individuo e organizzazione sociale è inscindibile, con i due poli che si rigenerano in una continua lotta di libertà. In Occidente negli ultimi secoli abbiamo raggiunto nuove e importanti libertà, ora l’organizzazione prodotta dallo sviluppo tecnico-economico ripropone la questione della nostra libertà. Possiamo ancora decidere qualcosa nel mondo che abbiamo costruito? Come scrive il filosofo Slavoj Žižek, “esistono libertà che ci vengono concesse a patto che non le usiamo: siamo liberi di scegliere solo se facciamo la scelta giusta”.
- Ma sono davvero queste infrastrutture tecnologiche, dispositivi tecnici o del mercato, l’intelligenza artificiale, a indebolire la nostra intelligenza vivente? L’intelligenza incarnata?
Non le infrastrutture in sé. Nella storia dell’umanità, ci sono stati diversi sistemi che hanno provato a proclamarsi onnipotenti generando violenza e disuguaglianze. Ci sono stati secoli in cui era la religione, attraverso Dio, a incarnare onnipotenza, e in nome di quel Dio si sono fatte guerre. Poi è stata la politica a monopolizzare la potenza, a diventare onnipotente, e ancora è stato l’umano a essere sacrificato. Questo è il momento della tecnica. Perché ogni volta che si costruisce un monopolio intorno all’idea di potenza, in nome di quel che ci si propone di attuare, si compiono sacrifici. In nome della “crescita”, è per esempio accettato che qualcuno rimanga indietro. C’è un tema, quello del sacrificio della vita concreta in nome dell’onnipotenza della tecnica, che è presente ma non vogliamo riconoscerlo.
Il fatto è che non riusciamo più ad avere un immaginario del futuro che vada al di là dell’innovazione tecnologica. Provare a costruire un vago immaginario di qualcosa che non sia tecnologia, potrebbe essere una soluzione
- È paradossale che nella società che mette al centro la crescita, che promette il “più vita”, i giovani faticano a desiderare. Come si legge nel libro, forse sono gli unici a non desiderare “più vita”. Quanto questa mancanza di desiderio è determinata dalla rottura del rapporto intergenerazionale? Una lacerazione, noi diremmo digital divide, che per altro si esaspera quando si parla di sostenibilità, futuro del pianeta e intelligenza artificiale…
C’è stata una generazione, quella del Sessantotto, che ha creduto che aprendo tutti i cancelli ciascuno avrebbe finalmente potuto immaginare la propria vita. Oggi tutti i cancelli sono spalancati, ma molti non hanno alcun desiderio di passarli. Le ragioni possono essere diverse, a cominciare da un individualismo imperante che proietta il desiderio solo su di sé, ma è evidente che si è bloccato quel transito del desiderio da una generazione all’altra. Il fatto è che non riusciamo più ad avere un immaginario del futuro che vada al di là dell’innovazione tecnologica. Provare a costruire un vago immaginario di qualcosa che non sia tecnologia, potrebbe essere una soluzione. Il desiderio individuale riflette sempre le condizioni storico sociali in cui ci si palesa: il permissivismo assoluto associato ai disastri attuali e alla concentrazione sul tempo presente, costituiscono un mix micidiale per una generazione che cresce. Ripeto: aver immaginato un Io sovrano scisso dall’ambiente naturale e sociale e destinato a una crescita progressiva, con la fiduciosa convinzione che l’affermazione di un modello democratico liberale avrebbe garantito in modo definitivo benessere e stabilità, è stato un’illusione. La ricerca ossessiva della comfort zone finisce d’altra parte per aprire un ciclo distruttivo e negare la vita stessa, che è esposizione, relazione, dinamismo, rischio.