![]()
|
2 maggio 2001
From: Giacomo Correale Santacroce
Subject: Il fantasma della classe dirigente
Segnalo l'editoriale di Eugenio Scalfari su la Repubblica di domenica 29 aprile 2001,
dal titolo "Il fantasma della classe dirigente", che commenta in modo fortemente
critico la vicenda Mediobanca e altre connesse, per la completa mancanza di trasparenza e
di contenuti che non siano di potere. "Mai la cosiddetta democrazia economica è
stata tanto lontana dalla realtà dei fatti e dei comportamenti e mai il fantomatico
libero mercato è stato più beffato e ignorato", conclude l'autore.
Nello stesso articolo si commenta un intervento (sarebbe utile sapere dove e come) di De
Rita, che "ha lamentato l'assenza di una classe dirigente all'altezza dei compiti
proposti dall'irruente irrompere di una trasformazione epocale del pianeta".
Purtroppo l'articolo desinit in piscem quanto a proposte concrete. Forse l'autore
si rende conto che anche la classe dirigente giornalistica, che potrebbe fare molto, dà
uno scarso contributo alla classe dirigente del Paese.
Giacomo Correale Santacroce
- - - - - -
IL FANTASMA DELLA CLASSE DIRIGENTE
di EUGENIO SCALFARI
NON manterrò la promessa che avevo fatto domenica scorsa di dedicare l'articolo di
oggi a Spinoza e alla sua filosofia: con quello che accade in questi giorni di campagna
elettorale sarebbe come lanciare il pallone sulle gradinate invece che calciarlo nel campo
di gioco. Non sarebbe sportivo e quindi non lo farò.
D'altra parte l'Italia (per fortuna) non si ferma sol perché Rutelli insegue Berlusconi e
il Cavaliere si autoproclama già vincitore per molte lunghezze. Avvengono nei dintorni
parecchie altre cose non secondarie che a loro volta influiscono sul clima pre-elettorale
e ne sono reciprocamente influenzate. Vorrei segnalarne alcune all'attenzione dei lettori
sperando che ne traggano motivi di riflessione e di giudizio.
Comincerò da una ricerca comparsa pochi giorni fa sulla prestigiosa "Technology
Review" edita dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) nella quale sono state
censite le 150 imprese più innovative del mondo sulla base dei brevetti che ciascuna di
esse detiene in otto settori di massima qualità: aerospazio, biotecnologie e
farmaceutica, chimica, computer, telecomunicazioni, elettronica, semiconduttori,
autoveicoli. I brevetti sono stati valutati per quantità e per efficacia innovativa.
La presenza di imprese italiane in questa classifica è soltanto di due: la Fiat e la ST
Microelectronic. Se si pensa che il nostro paese fa parte di quelli più sviluppati del
mondo, il risultato riguardante ricerca e innovazione è dei più deludenti e preoccupanti
per il nostro futuro sviluppo economico.
Le cause di questo bassissimo livello tecnologico, che ha come inevitabile effetto una
nostra dipendenza da tecnologie altrui e una nostra altrettanto inevitabile decadenza
economica, sono parecchie. La prima deriva dalle insufficienti dimensioni delle imprese
italiane: non più di cinque o sei grandi, qualche centinaio di medie e una miriade di
piccole e piccolissime; non già una struttura razionalmente piramidale ma qualcosa di
molto simile alla Mole Antonelliana, con una punta assai sottile e una base larga e
schiacciata. È chiaro che in una struttura così configurata la ricerca è di fatto
impossibile e si riduce ai processi produttivi anziché ai prodotti. Innovazioni vere,
zero.
Un'altra causa sta nel fatto che le imprese hanno preferito investire su operazioni di
ingegneria finanziaria anziché sull'innovazione tecnologica.
Una terza sulla scarsa liberalizzazione dei mercati e sulla persistenza di un capitalismo
protetto anziché realmente aperto alla concorrenza.
Giustamente la Confindustria nel suo recente convegno di Parma ha segnalato il drammatico
"gap" di competitività che affligge le imprese italiane; c'è stata anche
qualche timida autocritica in quel convegno a smentire il luogo comune che "piccolo
è bello"; ma le colpe maggiori sono state addossate, come sempre in questi casi,
all'insufficienza del finanziamento pubblico alla ricerca.
HO DETTO che le cause di questo preoccupante stato di cose sono parecchie e che l'allarme
è più che giustificato, ma non c'è dubbio che l'imprenditoria italiana ne porta ampia
responsabilità. Ci dovrebbe essere una vera e propria rivoluzione di mentalità e di
comportamenti nell'atteggiamento delle imprese verso l'innovazione ma purtroppo non se ne
vede la minima traccia nonostante i pressanti appelli del presidente della Confindustria,
D'Amato. Proseguono lotte accanite in Mediobanca e dintorni, tutte centrate su questioni
di potere, intrecci azionari, patti di sindacato, rastrellamenti di Borsa, rivalità e
vendette personali. Queste lotte coinvolgono il Gotha della finanza italiana, come si
diceva un tempo con qualche eccesso di enfasi: oltre alla stessa Mediobanca, le
Assicurazioni Generali, la Montedison, la Banca di Roma, la Banca Intesa, l'Unicredito, il
San Paolo di Torino, l'Hdp e, sia pure indirettamente, la stessa Banca d'Italia. A guardar
da lontano questa sorta di telenovela che dura ormai da anni con alterne fortune, emergono
i seguenti elementi: la trasparenza delle decisioni e degli obiettivi non è scarsa ma
addirittura inesistente poiché tutto avviene nell'ombra e nel più spesso silenzio tra
pochissime persone che conducono i giochi tra minacce sussurrate e lusinghe sottintese;
non esiste alcun programma industriale ma solo la pura conquista del potere come fine;
capitali ingenti sono impegnati in assalti e contrassalti che non incidono in nessun modo
su sviluppo e innovazione dell'economia. Mai la cosiddetta democrazia economica è stata
tanto lontana dalla realtà dei fatti e dei comportamenti e mai il fantomatico libero
mercato è stato più beffato e ignorato. Il professor De Rita, che è uno degli studiosi
più attenti della società italiana, responsabile delle indagini statistiche del Censis
sullo stato del paese, ha lamentato l'assenza d'una classe dirigente all'altezza dei
compiti proposti dall'irruente irrompere d'una trasformazione epocale del pianeta. Credo
che De Rita abbia pienamente ragione: ci sono alcune singole personalità di rilievo nel
campo della scienza, dell'amministrazione, dell'economia, della cultura, della politica.
Sì, anche della politica nonostante la diffusa disistima che circonda quest'attività
essenziale per lo sviluppo materiale e morale di una comunità, di una "polis".
Ma poche eccezioni non fanno una classe dirigente; gli esempi concreti che ho testé
indicato confermano purtroppo questa diagnosi. Mi domando il perché d'una carenza così
grave; la diagnosi di De Rita è a mio avviso esatta ma la spiegazione del fenomeno non la
fornisce neppure lui e tanto meno la terapia. Direi che manca una visione lucida del bene
comune, manca perfino l'interesse a porsi questo tema e la motivazione etica per
affrontarlo. Mancano idee-forza capaci di mobilitare entusiasmi e speranze attorno alle
quali una classe dirigente riesca a formarsi e a crescere. *** Siamo ormai a due settimane
da un voto che avrà notevoli effetti sulla società italiana ma non mi pare che le forze
in campo abbiano ancora detto con chiarezza qual è la vera posta in gioco. Lo sforzo
maggiore da parte di tutti i concorrenti è stato quello di mettere in luce la pochezza o
la pericolosità della parte avversa: aspetto inevitabile ed anche utile in uno scontro
così aspro, ma non sufficiente a toccare le coscienze intorpidite dall'indifferenza e
dallo scetticismo. Si è parlato di tasse da ridurre, opere pubbliche da effettuare,
disoccupazione da combattere, sicurezza da tutelare, immigrazione da disciplinare,
federalismo da organizzare: cose abbastanza concrete anche se prospettate, specie dalla
destra, con dosi massicce di generica demagogia. Ma non è con questi argomenti, non
soltanto con questi, che si mette un paese grande e complesso, ricco ma frustrato, alacre
ma privo di riferimenti morali, di fronte a scelte che riguardano il destino di tutti e di
ciascuno. La campagna elettorale era cominciata con la diffusa convinzione che destra e
sinistra fossero ormai parole vuote e che di fatto non ci fossero differenze apprezzabili
tra i due schieramenti maggiori. Ancora tre giorni fa l'ineffabile Celentano dai
teleschermi della Rai ha detto di non essere né di sinistra né di destra e neppure di
centro. "Se vi dicessi come voterò - ha aggiunto - sposterei 4 o 5 milioni di voti,
ma non lo dirò" e giù una tirata contro il trapianto di organi e le biotecnie che
salvano le vite. Non darei molto peso a questi goffi tentativi di manipolazione delle
opinioni ma lamento invece un'afonia di messaggi che pongano gli elettori di fronte a una
scelta responsabile di identità e di futuro. Le tasse, certo; le opere pubbliche, la
sicurezza e tante altre cose, ma non è lì, sull'uno per cento in più o in meno, su
cento magistrati e mille poliziotti in meno o in più che si decide. Questo è un paese
che deve coniugare libertà di iniziative e solidarietà, riconoscimento del merito e
eguaglianza dei diritti e delle condizioni di partenza nella gara della vita. Il
discrimine che segna i criteri della scelta è questo e riguarda tutti; l'indifferenza e
l'equidistanza sono due vie di fuga che delegano il problema in mani altrui. Qualcuno
sceglierà comunque anche per voi che proclamate di non stare con nessuno. Ma se la scelta
poi non vi piacerà, allora sarà troppo tardi per rammaricarsene: quale che sia, anche
voi l'avrete voluta
Concordo con le "intenzioni" dei firmatari
dell"appello per la ricerca" e in linea di massima perciò anche con le
tesi di Garattini esposte nellarticolo
apparso su "Il Sole" del 1° aprile; ciò premesso è necessario chiedersi se «un'authority o
un comitato etico che vagli le richieste e conceda permessi» sia la soluzione migliore
per garantire la libertà della ricerca e linteresse della società.
Lipotesi di Garattini è senzaltro unipotesi ragionevole, ma dà come scontate alcune premesse che invece non lo sono affatto.
Negli ultimi due anni, la città in cui vivo (Parma) ha posto la candidatura per essere sede dellAuthority europea per la sicurezza alimentare; ci si sarebbe aspettato, a livello locale, un ampio dibattito sul significato di questa localizzazione; come adeguare per esempio le attuali infrastrutture materiali e culturali in relazione al ruolo e alle competenze dellAuthority.
Invece, grazie alla capacità di comunicazione del movimento verde oggettivamente alleato di un sistema agro-industriale impegnato a trasmettere unimmagine da Mulino Bianco, complice una classe politica più attenta alla presunzione dei sondaggi che al governo dellinnovazione e grazie alla collaborazione di un mondo accademico preoccupato di non dispiacere ai ministri competenti (Pecoraro-Scanio per lAgricoltura e Gianni Mattioli per i rapporti con lEuropa) ne è uscita una campagna autopromozionale il cui tema dominante pareva essere quello della lotta agli ogm.
Anche se è molto improbabile che lAuthority per la sicurezza alimentare possa essere localizzata nella mia città, è abbastanza ovvio che il suo funzionamento, in ogni caso, sarà diverso da quello auspicato dai Verdi di Parma. Non potrà infatti non tener conto della complessità degli "interessi" in gioco a livello europeo.
Solo un vetero-positivista può immaginare che anche per la sicurezza alimentare esistano procedure certe per definire il campo del bianco e il campo del nero; se pensiamo per esempio alla regolamentazione delligiene negli stabilimenti per le produzioni tipiche constatiamo la difficoltà nel trovare lequilibrio fra le ragioni della sicurezza e quelle delleconomia.
Tutto ciò autorizza il dubbio sulla possibilità che possano esistere strutture amministrative indipendenti, non tanto perché asservite agli interessi di lobby o consorterie, ma in quanto non possono restare insensibili al clima sociale, culturale ed economico in cui operano. E un dato di fatto che di fronte al transgenico la percezione del rischio nelle società europee è diversa rispetto alla società americana.
La complessità delle conoscenze tecnico-scientifiche, specialmente nella ricerca di frontiera, è tale che esistano "esperti" indipendenti. E opportuno chiarire che il giudizio di non indipendenza non è un giudizio morale. La non indipendenza più che essere una categoria giuridica è una categoria psicologica. Può essere un esempio banale; ma un esperto di Cad se chiamato a scegliere fra diverse procedure, si orienterà, anche senza essere in malafede, senzaltro verso quella che più assomiglia alla procedura con cui opera abitualmente.
Ma oltre a condizionamenti di carattere politico, ideologico, psicologico ed anche lobbistico od altro, quale che sia lauthority il suo campo di intervento è limitato rispetto alla globalizzazione dei problemi. Supponiamo che a suo tempo, a seguito degli accordi di Kyoto, la Comunità Europea avesse designato un Authority per il controllo dellemissione dei gas serra. Dopo la dichiarazione di Bush ogni intervento di questa Authority da un lato non servirebbe a risolvere il problema dellinquinamento climatico (gli Usa con il loro 25% sono i maggiori produttori di gas serra), dallaltro appesantendo con oneri valutabili sul 2% del pil appesantirebbe la competitività dei paesi europei e la tenuta del sistema sociale (nella old economy 100.000 posti di lavoro equivalgono al 3% del pil).
Queste considerazioni appartengono al campo della ricerca applicata e della connessa produzione industriale. Anche se la distinzione fra ricerca pura e ricerca applicata non è molto chiara, nulla ci vieta di pensare ad una ricerca di base i cui contenuti e i cui fini possano essere sottratti al giuoco degli "interessi" e sottoposti a una qualche forma di "indirizzo etico".
«Incoraggiare un'applicazione biotecnologica - oppure, che è lo stesso, delimitare troppo dettagliatamente una sua alternativa perché considerata non accettabile moralmente - rischia di provocare "forzature" scientifiche che sono di per sé pericolose, oltre che intrinsecamente censorie nei confronti delle terze infinite direzioni che la ricerca potrebbe intraprendere. Nell'ambito della scienza, la prescrizione delle condotte è tipica della metodologia, e non dell'etica, che dovrebbe soltanto evitare che si procurino danni "certi" a individui specifici o alla società nel suo complesso. L'etica, cioè, non deve indirizzare la ricerca ex ante, ma solo vietare ex post» scrive Cinzia Caporale sul Il Sole 24 Ore del 3 settembre 2000.
Daltra parte lo stesso Garattini afferma «Occorre anche ricordare che in molte ricerche, soprattutto quelle che esplorano le frontiere delle conoscenze è molto difficile prevedere cosa si troverà; spesso accade che una ricerca dia lumi per risolvere un problema completamente diverso da ciò che ci si proponeva di ottenere».
Da tutto ciò però non deve conseguire linutilità o peggio la dannosità di authority o comitati etici; ma solo che in rapporto alla ricerca il loro ruolo va ridisegnato. Un dato ormai comunemente accettato da tutte le culture bioetiche è il diritto al "consenso informato", che implicitamente nega il paternalismo del medico nei riguardi del paziente. Ma le authority che altro non sono se non forme di paternalismo collettivo? Ho pochi dubbi che nel caso del consenso informato il rapporto medico-paziente sia bilaterale, ma, per esempio, nel caso della sperimentazione di un nuovo farmaco, nel protocollo del consenso informato generalmente è previsto che il paziente possa essere assistito da un medico di fiducia al fine di comprendere meglio costi e benefici della sperimentazione.
Se dal cittadino paziente ci spostiamo al cittadino consumatore, o meglio al cittadino tout court più che sovraccaricare il sistema di strutture amministrative, che bene o male, hanno carattere autoritativo, è necessario che il cittadino sia in grado di esercitare nel modo più completo la propria autonomia. Per esempio, più che la proibizione della ricerca e della commercializzazione di prodotti con ogm occorre favorire letichettatura delle confezioni, poi il cittadino consumatore deciderà nella sua autonomia.
La società in cui viviamo è una società dove il rischio tecnologico è più incombente che nelle società che ci hanno preceduto - anche perché in queste il livello delle tecnologie era piuttosto basso -, eliminare il rischio è impossibile se non a scapito della stessa vita sociale. Dalle stragi del sabato sera, agli incidenti domestici, alla morte per fumo fra la tentazione della proibizione, demandare cioè a dei "saggi" che definiscano i limiti della nostra esistenza (ma ricordiamo il paradosso di Russell, chi fa poi la barba al barbiere) e laffermazione che tutto va bene, il giusto mezzo è nellinformazione, garantire cioè che tutte le opinioni possano accedere al mercato dellinformazione. A 18 anni i cittadini sono abilitati a decidere il governo del paese, possiamo pensare che siano altrettanto abilitati a decidere con quale tipo di cibo alimentarsi, se fumare o no ecc. ecc.
Per quanto riguarda il principio di precauzione vorrei segnalare l'importanza crescente
di Chaos-Usa, Fanucci 1999 di Bruce Sterling considerato negli Stati Uniti uno
science-writer, ovvero un autore che riflette sugli effetti possibili dell'uso delle
tecnologie esistenti, piuttosto che uno Sci-Fi writer ovvero un puro e semplice scrittore
di fantascienza (come si potrebbe pensare dal marchio editoriale che pur rappresenta una
buona casa di nicchia del settore).
Sterling fa una sorta di ragionamento previsionale mettendo insieme, in Chaos-Usa, i
problemi e le esigenze di lobbying nel rapporto tra un laboratorio biotecnologico e lo
staff di un senatore degli Stati Uniti tra una cinquantina d'anni.
Fatta eccezione delle concessioni alla forma narrativa, poche tra l'altro, nel testo ci
troviamo di fronte alla rappresentazione dei tentativi di risoluzione di una gamma di
problemi legali, amministrativi, politici, tecnologici, di strategie di ricerca nei
laboratori che nel romanzo sembrano essere stati disseminati, in un'ipotetica societa'
americana dei prossimi cinquanta anni, dalle politiche in materia biotecnologica e di
sviluppo delle reti generate nella decade appena trascorsa.
Non e' male confrontare, a mio avviso, le proprie riflessioni etiche in materia con
l'operazione di ragionamento previsionale di Sterling. Ben sapendo che si tratta di
applicazione simulata dei propri principi etici, un'operazione di confronto con Sterling
puo' aiutare a ripulire quell'eccesso di astrazione che ogni normazione in campo etico e
morale porta inevitabilmente con sè.
Del resto, i vecchi filosofi del diritto usavano la filosofia della storia per costruire
dei concetti che durassero nel tempo al momento della stesura delle costituzioni.
Caratteristica della costituzione, dicevano, e' quella di sopravvivere a chi l'ha scritta
pena la decadenza dell'edificio statuale faticosamente eretto.
Questione simile, mutatis mutandis, c'e' per quanto riguarda l'applicazione di principi
etici in materia di ricerca che non riguardano solo il presente ma anche la dimensione del
futuro.
A mio avviso, l'opera di Sterling e' un buono strumento per familiarizzarsi in campo etico
con questa dimensione del futuro proprio perche' tenta una descrizione previsionale del
rapporto tra gestione delle istituzioni di ricerca e funzionamento della macchina
amministrativa avendo presente le politiche biotecnologiche implementate in questi anni.
Sterling, che e' stato funzionario federale, aveva inaugurato questo sito
http://www.multimedia.edu/~deadmedia/frame.html
sull'obsolescenza dei media.
5 maggio 2001
From: Andrea Tatafiore
Subject: Authority e libertà della ricerca
La possibilità dell'impiego dello strumento d'indole politico-amministrativa dell'Authority come mezzo di risoluzione di problematiche cariche d'interessi economici ed etici non sorprende in un periodo in cui la maggior parte dei giuristi e degli esperti nel settore dell'innovazione sembrano aver trovato, proprio nel profilo del garante imparziale e terzo, una soluzione più che possibile. Tra l'altro la figura aulica dell'Authority è ormai "di moda" specialmente in quei casi in cui possa tornar utile il liberarsi di responsabilità oberanti derivate da problematiche avvolte da interessi contrastanti basati tutti su motivazioni e diritti tutelabili e quindi in situazioni dall'ardua risoluzione. Per analogia si potrebbe ricordare la vicenda evangelica di Ponzio Pilato che tra il diritto ed il sentimento comune si "lavò le mani" e decise per la soluzione meno responsabile, più liberatoria.
Quella che spinge verso la figura dell'Authority è una soluzione possibile, concretamente valida ma comunque poco adatta e sicuramente liberatoria. Quindi condivido nel merito le motivazioni di Vittorio Bertolini.
Non so invece quanto possa essere realmente efficace puntare sull'informazione. L'informazione aumenta sicuramente il livello di tutela del consumatore ma rappresenta un rimedio che si colloca sulla falsa riga delle idee-ideologie di Cinzia Caporale le quali si racchiudono tutte, dal punto di vista risolutivo, nella "fictio" del vietare ex post.
L'informazione colloca il consumatore di fronte ad una realtà già perfezionata. Una realtà già perfezionata ovvero un prodotto (OGM) in commercio, un brevetto concesso, delle ricerche intaprese e finanziate ecc. Tutto ciò rappresenta il resoconto di "un'accettazione indirettamente manifestata".
L'informazione come "mezzo di difesa" ha ed avrà in futuro un ruolo ed un valore fondamentale ma rischia di permettere al motore dell'innovazione insensibile al rischio di prendere comunque il via permettendo la creazione di sistemi e strumentalizzazioni a catena che, a mio giudizio, allontaneranno i consumatori da una percezione responsabile e sensibile al rischio. Essi avranno, spero sempre di più, la possibilità di scegliere coscientemente (grazie all'informazione) ma qualcosa (pubblicità, luoghi comuni, qualità stimolanti dei prodotti, il peso ed il successo delle novità ecc.) li allontanerà dalla percezione del rischio e demonizzerà il reale peso e la reale importanza dell'ambizione verso il rischio zero, la precauzione o lo sviluppo commerciale sostenibile.
Il potere economico del mercato nell'ultimo decennio ha piegato o aggirato, specialmente oltreoceano, ogni valore che si discostasse dal riscontro economico. L'informazione potrebbe essere anch'essa aggirata come si fa con gli ostacoli più forti... ad aggirarla potrebbero essere proprio i consumatori.
Balzac e la sua filosofia guida di quasi tutte le sue opere letterarie si basava sull'opinione per cui ogni uomo di fronte al peso delle passioni, dei vizi e del piacere futile (denaro, potere, sesso) cederà sempre relegando la sua intelligenza a favore delle sue debolezze.
In conclusione, rispetto il valore e l'efficacia concreta dell'informazione come "mezzo di difesa" del consumatore ma non come "mezzo risolutivo" di alcuni dei problemi legati al motore dell'innovazione.
Credo fermamente nel bisogno di regolare il sistema della ricerca verso un meccanismo trasparente e responsabile limitato nelle materie e nelle forme. Una disciplina comunitaria in questo senso penalizzerebbe il nostro continente nel sistema economico globalizzato ma, nello stesso momento, creerebbe un'Europa responsabile e sana se guidata in modo autorevole. Ciò non succederà mai e riconosco che a differenza del rimedio dell'informazione la mia soluzione ha un valore astratto e quasi impossibile. Questa scelta potrebbe tornare utile in futuro nel rispetto della inconfutabile filosofia di Vico dei cicli e ricicli storici. L'Europa sarebbe caratterizzata da cicli e ricicli sostenibili che forse ne accrescerebbero il valore. Questa è filosofia o pura utopia quella di Bertolini soluzione dalla concreta utilità.
Andrea Tatafiore
10 maggio 2001
From: Gian Maria Borrello
Subject: Precauzione vs libertà di ricerca... ?
Il "Principio di precauzione" meglio sarebbe stato chiamarlo "Principio di
Jonas", perché «per garantire il successo mediatico di un concetto tecnico senza
snaturarlo, bisogna dargli un nome suggestivo che non possa prestarsi a equivoci» (O.
Postel-Vinay, articolo qui oltre citato). A un concetto tecnico quale è il principio di
precauzione è invece stato dato un nome comprensibile da tutti, che ne tradisce il
significato e la portata. Sulla mancata comprensione del Principio si sofferma Olivier
Postel-Vinay in un commento pubblicato su La Recherche e tradotto dal settimanale italiano
Internazionale.
[
- Olivier Postel-Vinay, "Il principio di Jonas", La Recherche, n. 341,
Avril 2001 (la traduzione è stata pubblicata su
Internazionale n. 380 del 6
aprile 2001)
]
Sul sito della Fondazione Bassetti, il Percorso dedicato al Principio di precauzione
intende primariamente sottolineare l'importanza di fare riferimento alle fonti originali
che del Principio delineano significato e portata: la Commissione dell'Unione europea sta
indicando una linea di comportamento per i decisori politici, per coloro, cioè, che
devono fare delle scelte in presenza di fenomeni che presentano non un alto livello di
rischio, bensì un'elevata incertezza nella valutazione stessa del rischio. Come garantire
che, in presenza di situazioni critiche di questo tipo, le decisioni politiche dei Paesi
membri dell'Unione europea siano il più possibile univoche? Compito della Commissione è
individuare una possibile soluzione trattando il problema mediante un approccio normativo,
cioè proponendo delle regole che possano costituire fondamento delle decisioni politiche.
La Commissione ha esposto nel dettaglio il suo approccio attraverso la Comunicazione del
febbraio 2000. Un lettore attento di tale documento può constatare che la Commissione sta
mettendo a punto un metodo, una strategia strutturata, di analisi dei rischi che
troverebbe applicazione in presenza di dati scientifici incerti. Questo metodo sarebbe la
traduzione in termini pratici appunto del "Principio di precauzione".
[
- Percorso sul Principio
di precauzione, sito della
Fondazione Bassetti
- Comunicazione della
Commissione COM(2000) 1 del 2 febbraio 2000 sul
Principio di precauzione [formato .PDF]
]
Nelle News recenti, sul sito della Fondazione Bassetti, troviamo il Principio di
precauzione sia nelle parole del ministro Willer Bordon ("Sulla salute della gente
non decidono i democratici", intervista per La Repubblica), sia, in termini
antitetici, nell'opinione esposta dal fisico Tullio Regge sull'argomento dello sviluppo
scientifico ("E' solo una bella utopia il progresso 'rischio zero'", articolo
per La Repubblica).
[
- Willer Bordon, "Sulla
salute della gente non decidono i democratici",
intervista pubblicata su La Repubblica-online dell'8
aprile 2001
- Tullio Regge, "E' solo una bella utopia il progresso 'rischio zero'", La
Repubblica, 17 aprile 2001
]
Vittorio Bertolini, in uno scritto di qualche tempo fa, ha scelto di esporre un
ragionamento personale volto a fare chiarezza sull'uso corretto del Principio, mettendo in
luce come l'orientamento delle scelte nel campo della ricerca scientifica, della
tecnologia, dell'industria, dipenda non soltanto dal modello fenomenico di riferimento o
dall'incertezza statistica delle conseguenze di un comportamento, ma anche dall'importanza
assegnata agli eventi negativi. Un approccio, questo, che sembrerebbe ispirato al
"calcolo" proprio dell'ottica utilitarista e che potrebbe essere in sintonia con
l'opinione espressa da Tullio Regge.
[
- Vittorio Bertolini, "Sul principio di precauzione",
testo pubblicato
on-line sul Sito Web Italiano di Filosofia (SWIF) il
30 luglio 2000
]
Ma a riguardo, come felicemente illustrato da Olivier Postel-Vinay su La Recherche,
sarebbe necessario sgombrare il campo da un equivoco ricorrente: il Principio di
precauzione non è un modello di comportamento prudenziale da adottarsi quando occorra
prendere delle decisioni in presenza di un rischio provato, bensì un modo per
sintetizzare una linea di condotta riservata ai casi in cui l'esistenza di un rischio da
un lato non è dimostrabile, ma dall'altro non può neppure essere esclusa. In tali
circostanze non si tratterebbe di soppesare i pro e i contro, perché, allo stato della
scienza e della tecnica, la "bilancia" per farlo non sarebbe disponibile. Il
Principio di precauzione, infatti, ha la funzione di orientare la discrezionalità delle
scelte proprio quando le conseguenze negative siano da considerarsi meramente plausibili e
l'esigenza (di cui si è fatta carico la Commissione U.E.) è quindi di indicare in modo
rigoroso quando possa farsi ricorso a questa impostazione. In buona sostanza, essa si
fonda sull'assunto che in determinati settori le potenzialità della tecnica siano tali da
consigliare di dar peso anche alle ipotesi di effetti negativi non dimostrabili e, pur
tuttavia, razionalmente prospettabili. Questo perché lo slittamento dall'evento negativo
"plausibile" a quello "probabile" a quello "in atto"
potrebbe rivelarsi talmente rapido e le conseguenze talmente imponenti (dirompenti?) da
non consentire alcun intervento correttivo.
[
- Olivier Postel-Vinay, "Il principio di Jonas", La Recherche, n. 341,
Avril 2001 (la traduzione è stata pubblicata su
Internazionale n. 380 del 6
aprile 2001)
- Comunicazione della
Commissione COM(2000) 1 del 2 febbraio 2000 sul
Principio di precauzione
]
Silvano Cacciari, con l'intervento di aprile in questo Forum, ha criticato negativamente
l'articolo di Tullio Regge. In una visione ironica, propensa a smitizzare lo
"sviluppo che si (auto)sviluppa", egli invitava ad essere scettici rispetto alle
doti di autocorrezione della scienza (e quindi anche a considerare con distacco ogni
policy di "deregulation" delle relative applicazioni) ed affermava la sua
diffidenza nei confronti di un ideale superiore che giustifichi un progresso ad ogni
costo.
[
- Silvano Cacciari, intervento nel Forum del 17 aprile 2001, sito della
Fondazione Bassetti
]
Del resto, è opportuno aggiungere che Bertolini, con le considerazioni sopra citate, non
concludeva il suo ragionamento, perché proseguiva osservando che i politici dovrebbero
prestare maggior attenzione al consenso della gente, democraticamente espresso, sullo
sviluppo scientifico. Questo è anche il nocciolo di un articolo di Jacques Testart,
pubblicato su Le Monde diplomatique di settembre 2000. Testart insiste sull'importanza di
considerare parte della responsabilità politica il mobilitare le conoscenze dei profani
per legittimare le decisioni. Egli tiene le distanze dall'esprimersi a favore del
Principio di precauzione, ponendo piuttosto l'accento sul suo uso politico: ciò che conta
maggiormente è evitare che i cittadini siano surrettiziamente esautorati dal partecipare
ai momenti politici decisionali.
[
- Vittorio Bertolini, "Sul principio di precauzione",
testo pubblicato
on-line sul Sito Web Italiano di Filosofia (SWIF) il
30 luglio 2000
- Jacques Testart, "Gli esperti, la scienza e la legge",
Le Monde
diplomatique, settembre 2000
]
E allora ecco il punto: chi deve decidere? ma soprattutto: come? Sono questi gli
interrogativi che hanno fatto da leitmotiv all'ampia riflessione svolta da Bertolini nel
suo commento alla Rassegna stampa di marzo-aprile. La responsabilità sociale dei
ricercatori, il problema dei fini della ricerca, le scelte su che cosa vada finanziato
sono inoltre gli argomenti toccati da Rodolfo Saracci e Paolo Vineis sul Sole 24 Ore del
1° aprile, articolo al quale fa da pendant quello di Silvio Garattini che si esprime a
favore di un'authority.
[
- Vittorio Bertolini, Rassegna
stampa commentata di marzo-aprile 2001, sito
della Fondazione Bassetti
- Rodolfo Saracci e Paolo Vineis, "Ogm, libertà e responsabilità", Il Sole
24 ore, 1 aprile 2001
- Silvio Garattini, "Ma no ai divieti ideologici", Il Sole 24 ore, 1 aprile
2001
]
Le considerazioni svolte da Tatafiore (intervento del 5 maggio) mi trovano molto
d'accordo. Sul riferimento a Ponzio Pilato come esempio di comportamento censurabile avrei
forse qualche riserva, ma questa ci porterebbe fuori tema.
Ritengo che il termine "fictio" con cui Tatafiore definisce un divieto "ex
post" renda ottimamente l'idea di quanto sia utopistico (quando non ipocrita) pensare
a una tutela di diritti soggettivi delegata all'informazione pubblica.
In sostanza, mi sembra di poter dire che Tatafiore non riconosce al mercato valori etici,
o, per lo meno, non ritiene che esso rechi in sè comportamenti che possano essere
definiti in termini di responsabilità (responsabilità nei confronti di diritti
soggettivi).
Interessante è anche la sua visione della debolezza del consumatore nel senso che questi
risulterebbe comunque "agito" dal potere economico.
In conclusione, nell'opinione di Tatafiore, all'informazione andrebbe realisticamente
riconosciuto un semplice ruolo strumentale rispetto a discipline eteronome. Un corollario
di questa posizione può essere quello che ripone scarsa fiducia nella progressiva
"contrattualizzazione" di diritti soggettivi.
Le considerazioni svolte da Tatafiore sembrano però seguire un tragitto a parabola che,
alla fine, trasforma la sua posizione in rinunciataria: egli sostiene una tesi che appare
favorevole a una regolamentazione "forte" per poi, al contrario, definirla
illusoria e "convertendosi" quindi proprio a favore della tesi che sembrerebbe
invece propenso a criticare (quella cioè di Bertolini: v. intervento del 2 maggio). Direi
che la sua critica, a questo punto, non può che apparire spuntata.
Bertolini è propenso a sostenere una tesi a favore di una regolamentazione
"soft", di una normativa, cioè, che dia luogo a condizioni tali da mettere la
gente in grado di decidere da sola. Egli, in altri termini, crede fino in fondo nel
consenso democratico, sempre che questo sia correttamente "informato". Il che è
come dire: sempre che alla "procedura" corrisponda l'effettivo "diritto
sostanziale".
In breve (e semplificando): Bertolini crede davvero nell'autonomia del consumatore, mentre
Tatafiore non ci crede, ma riconosce che la tesi di Bertolini è, a differenza della sua,
dotata di pratica realizzabilità.
Alla fine, Bertolini appare convinto delle sue opinioni, Tatafiore meno. E il confronto
viene smussato dallo stesso Tatafiore.
Più che riprendere le osservazioni di Andrea Tatafiore credo necessario da parte mia cercare di chiarire ulteriormente il concetto di informazione; questo per il motivo che, pur condividendo molte delle osservazioni di Andrea, ho l'impressione che seguiamo due strategie incommensurabili. Tatafiore pensa ad authority (uso questa parola in senso molto lato, forse andrebbe meglio governance) efficienti sul piano normativo-autoritativo, vietare ex-ante, io penso ad authority orientate, attraverso la crescita dell'informazione, alla crescita del consenso.
Ho superato abbastanza il neo positivismo da comprendere che non esistono dati informativi puri; in ogni informazione è contenuta una molteplicità di modelli culturali diversi tale da renderla estremamente selettiva; al di là di elementi informativi molto elementari ogni informazione si adatta solo a segmenti anche molto limitati.
La cognitività di una informazione (cioè quali decisioni si è in grado di assumere in base ad essa) dipende in primo luogo dal background culturale. Nei bugiardini che accompagnano i medicinali è riportata la posologia del prodotto. Ammesso che i bugiardini, nonostante il nome, siano sufficientemente affidabili, a me ingegnere dicono molto poco (sapere che nelle gocce contro la tosse che in questi giorni sto assumendo c'è del metile p-idrossibenzoato non mi dice poi molto). Al contrario l'informazione che in una lega di acciaio vi è una certa percentuale di cromo o di manganese è abbastanza significativa. Ma l'informazione per essere significativa non deve essere solo comprensibile nei contenuti; deve essere fruibile anche sul piano semantico (tutti sanno cos'è l'aspirina ma non tutti conoscono l'acido acetilsalicilico) e garantita sul piano della credibilità (leggere di una nuova terapia antitumorale su un settimanale di intrattenimento è diverso da apprenderla dal New England Medicine Journal).
Da tutto ciò risulta che nel rapporto fra esperti e società civile il problema dell'informazione si presenta in modo molto asimmetrico. E da questa asimmetria nasce l'aporia che una società democratica incontra di fronte all'innovazione. Che non è tanto nella non (o scarsa) percezione del rischio quanto nel fatto che l'ideale politico di una democrazia che persegue forme sempre più avanzate di eguaglianza in realtà viene sempre a differenziarsi fra chi sa e chi non sa. In una commedia di Fo degli anni '60 si diceva (cito a memoria): "il padrone conosce 1000 parole, l'operaio 100, perciò comanda il padrone".
Ma come nella storia del movimento operaio nessuno ha mai preteso che ogni membro delle classi subalterne imparassero le altre 900 parole, quanto piuttosto di realizzare delle strutture intermedie che rendessero meno asimmetrico il rapporto padrone-operaio così, di fronte ai problemi della modernizzazione il problema è analogo; come garantire cioè chi non sa.
Nel conflitto fra proprietari e dipendenti le maggiori informazioni in possesso dei primi danno alla proprietà un vantaggio nei confronti dei dipendenti (per esempio mentre la proprietà è in grado di valutare il costo che per una giornata di sciopero un prestatore d'opera deve subire, per quest'ultimo non vale il reciproco). Di conseguenza le strutture intermedie (sindacati, uffici per il collocamento ecc.) diventano agenzie che producono informazioni da mettere a disposizione dei propri associati. Io posso continuare a non capire un acca di quanto è scritto sulla confezione di un medicinale senza averne nocumento, se però posso rivolgermi a qualche associazione che può garantirmi rispetto ai contenuti dell'informazione.
L'asimmetria informativa fra esperti (scienziati, leaders politici, imprenditori, ecc) e società civile (consumatori, studenti, pazienti, elettori, e così via) risulta, rispetto a quella che investiva il campo sociale ed economico, molto più differenziata. Inoltre la mondializzazione dei problemi ha limitato di molto la capacità di intervento delle strutture intermedie. Authority, comitati etici, associazioni di consumatori, sindacati, organizzazioni di interessi ecc. se non vogliono essere solo strumenti di protesta, riescono ad essere efficaci solo in ambiti politicamente definiti, nei quali cioè sussista un chiaro quadro normativo. Se non esiste una norma che fa obbligo alle case farmaceutiche di corredare le proprie confezioni con tutte le informazioni necessarie per comprendere le caratteristiche del prodotto, non c'è struttura intermedia che tenga.
Di fronte a queste complicazioni però la strategia dell'informazione rispetto a quella della normazione ha il vantaggio di potere utilizzare strutture intermedie che non hanno nessuna difficoltà ad assumere una valenza sovranazionale. Esiste però sempre la difficoltà, come ha sottolineato Tatafiore, che l'informazione venga burocratizzata (vedi i sistemi di qualità dove per le aziende dal problema della qualità si è passati al problema del come ottenere il certificato di qualità).
Alla fin fine più del che cosa fare il problema forse è nel come farlo.
Nel ribadire le proprie posizioni Bertolini avvalora nel merito il peso
e l'opportunità dell'informazione come mezzo di difesa. Non posso che condividere
l'efficacia d'intermediazione tra le parti che ha l'informazione.
Devo però rilevare che sottolineare e rinvigorire il ruolo che l'informazione ha, nel
contesto in cui ci muoviamo nel Forum, non può significare ridurre delle distanze
incolmabili come quelle (ad esempio) che sussistono tra datore di lavoro (imprenditore) ed
operaio (subordinato) oppure (nel rispetto del Forum) tra produttori e consumatori. Il
motivo risiede nel fatto che queste persone fisiche si muovono all'interno di due
"ordinamenti giuridici" differenti. Quello del Mercato e quello dello Stato.
L'informazione può difendere, aiutare, migliorare la nostra realtà ma non può
cambiarla. Non intendo dire che il datore di lavoro o l'imprenditore produttore o
ricercatore non siano immersi nella plurisoggettività, requisito di ogni ordinamento
giuridico riconosciuto tale, ma che essi godono di un altro motore quasi autonomo...del
mercato. I consumatori lo subiscono, loro ne alzano i giri.
Negli anni 70 lo Statuto dei Lavoratori e, molto prima, la legge sull'impiego privato
hanno rappresentato i due pilastri base per la disciplina del mercato del lavoro e quindi
della tutela del lavoratore. In quel contesto il diritto, e l'ordinamento che esso regola,
vinsero contro il sistema del lavoro che era governato da chi conosceva 1000 parole a
discapito di chi invece ne conosceva 100. Tante ore di scuola post-lavoro o di crescita
culturale non avrebbero, in quel contesto, cambiato nulla! Anche la conoscenza di mille
parole contro 1000, senza delle regole risolutive ed equilibrate, non avrebbe cambiato
nulla! Si aveva bisogno di regole opportune ed adatte volte a creare un equilibrio.
Ritengo che la tutela del consumatore risieda nelle regole, nel diritto, nella priorità
di fatto del regolabile sull'irregolabile. Non per forza in un Authority.
I miei propositi, supportati dai contenuti e da valutazioni in tema di diritto commerciale
di un grande giurista come Francesco Galgano, devono fare i conti (come fatto nel
precedente intervento) con un impatto empirico. L'esperienza e l'attualità m'insegnano
che mancano quei presupposti per i quali oggi il diritto, gli ordinamenti nazionali o
sovranazionali, possano incidere sui ritmi e sui bisogni-leggi del mercato.
Le mie opinioni rimangono forti ma coscienti.
Credo nell'informazione come mezzo di difesa che comunque non può arrivare a cambiare gli
equilibri di questa società globalizzata anzi..... con il tempo potrebbe arrivare ad
adattarsi a questa; credo invece nel diritto e nel bisogno di regole non opprimenti, non
incoscienti, ma comunque equilibrate come quelle (metaforicamente) che caratterizzarono la
nuova disciplina del mercato del lavoro e dei diritti dei lavoratori.
Solo il diritto potrà incidere in modo risolutivo sul mercato.... chissà l'informazione
potrebbe aiutarlo.
Che cosa intende Silvio Garattini, nell'articolo da cui ha preso le mosse questo
dialogo on-line ("Ma no ai divieti
ideologici"),
facendo riferimento a un'Authority o a un Comitato etico che «vagli le richieste e
conceda permessi sulla base di giustificate utilità»?
Il motivo per cui si ricorre a un'Authority (e il senso dell'operare di questa) è di sottrarre una materia particolarmente delicata, che ha a che fare con determinati diritti soggettivi, alle decisioni governative che, in quanto tali, sono espressione del potere esecutivo. In presenza di una disciplina generale (quadro normativo), la normazione originata dall'Esecutivo (dai decreti di vario genere fino ai regolamenti amministrativi) si avvale (deve potersi avvalere) di spazi di discrezionalità; questi, in certi casi, possono risultare estremamente ampi. Ebbene, la principale funzione di un'Authority è quella di garantire il rispetto del quadro normativo; di conseguenza oltre ad essere autonoma e indipendente (risponde del suo operato soltanto al Parlamento), dovrebbe essere dotata, a differenza di un Comitato, di poteri incisivi.
In sintesi, premesso che la sovrapposizione concettuale tra Authority e Comitato è stata favorita in primis dalle parole di Garattini, a me sembra che non si possa parlare di un'Authority negli stessi termini in cui si parla di un Comitato. Sia beninteso: senza nulla togliere alle caratteristiche peculiari di quest'ultimo, quali sono quelle che Vittorio Bertolini ha esposto nel suo ultimo intervento del 17 maggio.
Bertolini, in quell'intervento, ha concentrato la propria attenzione sulle strutture intermedie e sulla loro funzione di mediazione della conoscenza. Un Comitato, effettivamente, può essere definito come "struttura intermedia" (a differenza di un'Authority) e quindi direi che egli ha già dato una risposta di buon taglio al messaggio lanciato da Garattini.
Andrea Tatafiore, nell'intervento del 17 maggio, sostiene una tesi diversa da quella di Bertolini. Fondamentalmente, sono differenti le loro concezioni della normazione: dell'origine legittima e della funzione sociale della normazione. Tatafiore si presenta come convinto assertore del primato della norma giuridica rispetto al rilievo che possono avere altri fattori dello sviluppo sociale, anche se poi --a mio parere-- la sua posizione rimane irrisolta fra tale ideale e la presa d'atto che «mancano quei presupposti per i quali oggi il diritto, gli ordinamenti nazionali o sovranazionali, possano incidere sui ritmi e sui bisogni-leggi del mercato». V'è da chiedersi quali siano i "presupposti" a cui egli fa riferimento e al verificarsi dei quali «il diritto potrà incidere in modo risolutivo sul mercato».
Personalmente, apprezzo le posizioni dogmatiche (nel caso di specie, il dogma sarebbe quello della primazia degli ordinamenti giuridici e quindi del diritto), ma credo che, proprio in quanto dogmatiche, occorra che vengano sostenute ad oltranza. Mentre invece Tatafiore oscilla dalla tensione ideale alla presa d'atto pragmatica. La nettezza di alcune sue affermazioni ritengo sia comunque pregevole, prenderei ad esempio la frase --appartenente alla sua ottica pragmatica-- in cui afferma che di fatto il Mercato, controllato dall'impresa, è pressoché legibus solutus ed è autonomo rispetto alle istanze del consumatore: «i consumatori lo subiscono, loro [coloro che lo governano, parentesi mia] ne alzano i giri».
Bertolini, da parte sua, esprime una posizione, chiara e (si capisce) a lungo meditata, a sostegno dei comitati etici, avvalorando la loro funzione politico-sociale.
A questo punto, avverto la necessità di vedere se sia possibile convergere verso una risposta alla seguente domanda: si deve (o, in ogni caso, è opportuno) ricorrere a una struttura ad hoc per decidere sul finanziamento della ricerca in settori particolarmente delicati sotto il profilo etico?
Prima di concludere lasciando spazio a Tatafiore e a Bertolini (così come --va da sè-- a chiunque desideri intervenire in argomento), osservo che sull'Economist del 12 aprile (il testo integrale e alcuni estratti dell'articolo, "Perfect", possono essere letti nel Percorso sulle Biotecnologie) troviamo che «Every country should have some equivalent of Britains Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA) --a permanent independent regulatory overseer, composed of scientists and ethicists, that reports to the health ministry. This may involve a little more red tape. But it forces scientists to justify what they are doing as "necessary and desirable" every time they leap ahead» [grassetti miei]. Frase, questa, che mi sembra adeguatamente esplicita per essere assunta come nuovo step della nostra discussione on-line.
La mia opinione è che nei confronti di organismi come l'inglese "Human Fertilisation and Embryology Authority" (HFEA) o la statunitense "National Bioethics Advisory Commission", o l' "Ethics Committee of the American Society of Reproductive Medicine", ecc. i "decisori" politici nutrano prima di tutto un'aspettativa di legittimazione delle proprie scelte. Ed è appunto per evitare un gioco di sponda di reciproche legittimazioni che risulta indispensabile il mantenimento dell'indipendenza della struttura ad hoc di cui sopra. E quindi non possiamo trascurare i requisiti che dovrebbe possedere un organismo in grado di svolgere effettivamente un ruolo di rilevanza politico-sociale nell'orientare la ricerca: permanenza, indipendenza e potere normativo. Pertanto sarei propenso a ritenere che più che in un Comitato, o in una Commissione, la struttura ad hoc dovrebbe rinvenirsi nell'istituto dell'Authority, nel senso in cui questo è da intendersi in ogni democrazia avanzata (con "avanzata" voglio dire che ha già sperimentato i cosiddetti "mali della democrazia"). Non ritengo però affatto pacifico che a un'Authority debba farsi riferimento, come invece auspica l'Economist.
22 maggio 2001
From: Andrea Tatafiore
Subject: Authority e libertà della ricerca (Diritto e Mercato)
Ogni opinione accurata e propositiva richiede, senza dubbio, giustificazioni e riflessioni che entrino a pieno nel merito di un idea, di una possibile prospettiva che negli scorsi interventi ho avvalorato ed esposto.
Entrando appieno nel merito di quanto sostenuto premetto che prospettare rimedi risolutivi, circa una problematica tanto specifica e complessa come quella della libertà della ricerca e del possibile rimedio di una Authority, non è affatto facile. Insomma è molto più facile ed analizzabile prospettare rimedi , curare (mezzi di difesa-informazione) che prevenire e stroncare "ab origine" ogni male (mezzi risolutivi). Specialmente nei confronti delle mie valutazioni recenti in cui, in virtù di quel pragmatismo arricchito da dogmi di cui parla legregio Borrello, dò al Diritto, quindi alle sue Istituzioni, larduo compito dintervenire.
La cautela manifestatasi in passato, per le ragioni appena sopra indicate, lascerà il posto ad un analisi caratterizzata da giudizi ben precisi.
Il Diritto ed il Mercato corrono paralleli allinterno della società civile. Linnovazione (intesa in questo caso come Mercato) ha dimostrato negli ultimi tempi di correre di più del Diritto e nello stesso momento di poter vivere e procedere anche in piena solitudine, anzi! in piena solitudine i suoi ritmi forse sarebbero più incalzanti e maggiormente redditizi.
Ma tutto quello che crea valori e progresso sembra togliere altro. Lequilibrio tra Mercato e Diritto risulta alterato. Lequilibrio tra progresso e sviluppo sostenibile (precauzione) sembra alterarsi come e quanto viene ad alterarsi quello tra Diritto e Mercato. Due problemi che corrono paralleli, luno contenuto nellaltro o viceversa.
Ogni equilibrio viene ristabilito, così ci ha insegnato prima di tutti Ippocrate, tramite il riordinare di ogni priorità tale da riportare "al mezzo". Se è vero che il Diritto ed il Mercato sono paralleli è anche vero che il Mercato nasce dal Diritto, nasce da regole. Il Diritto ha anche il compito di regolare il Mercato.
Per ristabilire questo equilibrio si ha bisogno di scelte e dIstituzioni capaci e volte a regole opportune e responsabili. Si ha bisogno dIstituzioni forti e giuridiche ovvero di diritto di precauzione, di responsabilità. Istituzioni per il Diritto e di diritto e non per il Mercato e di mercato.
Questo non significa far divenire le nostre Istituzioni paladine della lotta al mercato, allinnovazione o al progresso, anzi! significa far crescere il mercato secondo regole che vadano a difendere i valori dellopportunità di ogni ricerca e dellopportuno svilupparsi di ogni risultato. Significa dare un futuro concreto e degno agli "amministrati" ed al mercato.
Oggi mancano presupposti di questa tipologia, mancano norme chiare e lungimiranti, mancano Istituzioni pronte a rispettare una linea forte e coerente insomma presenza sensibile nel mercato.
Come primo presupposto per il ritorno ad un opportuno equilibrio propongo la creazione a livello comunitario di un Testo Unico sulla ricerca. Composto in parte da norme già presenti nella normativa attuale (comunque a tratti modificate) e da nuove norme e discipline create e proposte allattenzione della Commissione Europea e del Parlamento da una Commissione (straordinaria o permanente) per la ricerca e lo sviluppo sostenibile. Un gruppo di esperti e tecnici capaci di creare un insieme di norme concertate e da porgere allattenzione delle Istituzioni Comunitarie. Un Testo Unico che non si ponga come limite ma come mezzo di delimitazione dellopportuno e del non opportuno.
Pensare a norme restrittive significherebbe cadere nello stesso problema che ci muove ovvero nella su giustificata mancanza dequilibrio. La presenza di una Commissione dalle finalità appena esposte non deve essere confusa come entità simile a quella dellAuthority o di un Comitato. Queste ultime goderebbero di poteri effettivi e decisori, una Commissione del tipo da me indicato solo di poteri propositivi sulla base di studi e ricerche. Spetterà poi alle Istituzione comunitarie decidere lapprovazione o meno di tali "pacchetti".
Oltre al Testo Unico per la ricerca e lo sviluppo sostenibile sarebbe essenziale la presenza di Istituzioni coerenti e forti nel rispetto dei precetti approvati. Mi riferisco prima di tutto alle Istituzioni Comunitarie ed europee e poi a quelle delle singole Nazioni (facenti parte della UE) le quali, nel rispetto della loro libertà di scelta dovranno comunque rispettare il trend dell ordinamento comunitario.
Sulla base di quanto scritto non condivido quindi, nella realtà giuridico-sociale comunitaria, la presenza di un "permanent indipendent regulatory overseer". Condivido la "ratio" che si pone alla base di certi rimedi, ma confermo linefficacia, nella condizione dellordinamento comunitario, di un Authority o comitato le cui scelte non passino direttamente per le Istituzioni Comunitarie. Senza il supporto, deciso e coerente, delle Istituzioni ogni decisione o norma troverebbe contraddizioni continue che aumenterebbero il clima dincertezza. Inoltre in termini di coerenza le Istituzioni comunitarie hanno sempre dimostrato lacune di fronte a problematiche cariche dinteressi rilevanti. Un esempio importante in tema è quello della Direttiva 98/44 che vieta la brevettazione di esseri umani o parte di essi anche se poi in sede dapprovazione brevettuale lUfficio Brevetti Europeo sembra concedere brevetti aventi ad oggetto organismi viventi senza che la Commissione Europea sia mai intervenuta.
Nel silenzio del diritto e delle Istituzioni nazionali e comunitarie è normale che la ricerca goda di spazi e libertà. Chissà se questo silenzio circa un intervento serio e risolutivo in un senso o nellaltro (completa libertà o paletti di confine in continuo aggiornamento per la ricerca) nasconda un assenso, un "laissez faire".
Se così fosse il Mercato avrebbe vinto sul Diritto in attesa di nuovi equilibri.
Andrea Tatafiore
Bene. In definitiva direi che Tatafiore porta avanti un'impostazione
che ha come caposaldo il primato dell' "Istituzione" e quindi del
"Diritto".
Mi sfugge il merito di non pochi aspetti di tale costruzione, quale per esempio il nesso
tra le istituzioni e la gente (volutamente preferisco non parlare di
"cittadini"), problema che attiene all'analisi politica. Ecco, questo mi sembra
un punto nodale; anzi, alla fine, "il" punto nodale: il rapporto con la gente,
con la percezione che la gente ha dell'innovazione scientifica e tecnologica.
Si parlava di un'Authority con riferimento alla libertà di ricerca e lo spunto veniva
dalle questioni legate all'innovazione biotecnologica (nel caso di specie: gli Ogm).
Ebbene, la parola "Authority" andrebbe intesa primariamente come
"garante" dei diritti soggettivi implicati dall'avvento di un'innovazione, per
esempio biotecnologica. Credo che a riguardo una risposta articolata e nient'affatto
scontata l'abbia data Jacques Testart nell'articolo segnalato sul sito della Fondazione
Bassetti nelle News del 17 aprile (Jacques Testart, "Gli esperti, la scienza e la legge",
Le monde diplomatique, settembre 2000 [sul Sito Web Italiano di Filosofia - SWIF]).
Dunque, nell'impostazione di Tatafiore, personalmente vedo il Mercato e il Diritto come
due entità ectoplasmatiche levitanti sulla testa di noi tutti. Il che, a mio parere, non
solo non dovrebbe essere, ma neppure è.
Ringrazio Tatafiore per la sua esposizione e passerei la parola a Bertolini che
sicuramente (immagino) vorrà dirci qualcosa proprio in merito al rapporto tra le
"istituzioni" e la "gente".
Intervengo sfruttando limpronta dibattimentale data al Forum circa questa accesa tematica, premettendo che mi soffermerò sul nodo del rapporto istituzioni-gente (anche se non cittadini) e su alcune osservazioni inserite nellultimo intervento del dr. Borrello che penso siano da giustificare e codificare in modo completo.
Non trovo ragioni o motivi per pensare che il nodo istituzioni-gente possa avere effetti incisivi nella risoluzione effettiva delle problematiche legate alla ricerca sulle quali ci interroghiamo.
Non è la gente che fà le norme, non sono le sue paure o le sue idee. Quello che incide sono i suoi bisogni. E francamente penso sia inopinabile la mancanza ad oggi di un contatto tanto forte tra gente ed Istituzioni per poter auspicare risoluzioni (nel senso giuridico del rapporto) del problema della ricerca limitabile, da limitare o meno.
Da questo rapporto può scaturire spinta al rimedio, alla protezione, alla difesa, al prender social coscienza di alcune problematiche connesse alla nostra epoca, ma non risoluzioni.
A conferma di quanto asserisco, circa la distanza della gente dalle Istituzioni che possono incidere nelle scelte in materia di ricerca della nostra Unione Europea, porto quanto insegnatomi da Paolo Mengozzi nel suo trattato "Il diritto comunitario e dellunione europea" e dalla concittadina Senatrice Elena Marinucci (ex parlamentare europea). Il deficit democratico, che ancora oggi di fatto subisce il nostro Parlamento europeo, dimostra quanto i rappresentanti della nostra gente europea (parlamentari europei primo mezzo di contatto tra gente, cittadini europei e Istituzioni comunitarie) incidano relativamente negli interventi dell Unione europea. I primi, i più diretti rappresentanti della gente europea sono gli ultimi ad incidere nelle scelte comunitarie. Quindi il rapporto gente-istituzioni rimane interessantissimo dal punto di vista politico e sociale della problematica ma non dal punto di vista risolutivo o di possibile chiave di volta immediatamente diretta ed efficace.
Propendo verso riflessioni volte a cogliere, nel piccolo di ognuno di noi, sistemi risolutivi, come lo può essere quello di un Authority (che non condivido come precedentemente asserito), più che mezzi di difesa in cui credo e di cui riconosco limportanza e allo stesso momento i limiti.
Dr. Borrello non pensa che il rapporto istituzioni-gente ricada nellaccezione allargata dinformazione (mezzo di difesa e non risolutivo già considerato ed avvalorato dagli interventi di Bertolini)?
Inoltre nel rispetto dei lettori e delle opinioni dognuno non posso esimermi dal chiedere al dr. Borrello del come sia arrivato a percepire dalle mie parole le due entità (intese tali in termini argomentativi e filosofici o meglio come microcosmi secondo i tratti salienti della filosofia di Cusano) Diritto e Mercato, come ectoplasmatiche quindi come fantascientifiche o giù di li. Da cosa si può aver desunto tali affermazioni? Forse da una mia esposizione romanzata o troppo semplicistica di un fenomeno molto complesso. Chissà? Mia intenzione era quella di creare un contesto in cui inserire una possibile risoluzione, un possibile mezzo di equilibrio tra Diritto e Mercato. Contesto la cui descrizione da me fatta è molto vicina, anche se sicuramente meno aulica, a quella illustrata dagli autorevoli Francesco Galgano e Natalino Irti (in particolar modo nel suo ultimo libro) che di certo non individuano il Diritto ed il Mercato come "entità levitanti sulla testa di noi tutti" (tutto sommato il diritto ed il mercato siamo noi stessi!).
Aspetto le delucidazioni di Borrello e le opinioni di Bertolini confidando in interventi propositivi di possibili tentativi dalle ambizioni risolutive sempre nel rispetto delle opinioni valide e condivisibili d ognuno.
Andrea Tatafiore
In attesa dell'intervento di Bertolini, rispondo al volo a Tatafiore, che mi chiede se penso che «il rapporto istituzioni-gente ricada nellaccezione allargata dinformazione (mezzo di difesa e non risolutivo già considerato ed avvalorato dagli interventi di Bertolini)»
Rispondo di sì; ma non mi sembra che Bertolini attribuisca all'informazione la funzione di semplice mezzo "di difesa" (che già... dire "di difesa" mi sembra quanto meno inconcludente), bensì ne valorizzi un ruolo che --volendo usare il termine-- direi "risolutivo". Io, comunque, in questa terminologia non mi ritrovo. Ma qui dev'essere Bertolini ad esprimersi.
Usando la parola "ectoplasmatiche" riferita a Diritto e Mercato intendevo suggerire l'idea che nella visione di Tatafiore essi --impalpabili e sfuggenti (ma non i loro effetti... )-- fossero emanazione di qualcosa di poco chiaro e a mio parere anche un po' inquietante. Ma era soltanto un modo figurato per rendere con un'immagine incisiva una mia personale impressione che avevo avuto nel leggere l'ultimo intervento. Chi preferisce, sulla mia frase può semplicemente tirare una riga. Ringrazio Tatafiore per l'obiezione intesa a chiarire il suo pensiero.
Per parlare di rapporto istituzioni-gente occorre definire il contesto
in cui calare le nostre considerazioni, e penso che appunto nella diversità del contesto
a cui facciamo riferimento risieda la differenza fra le mie opinioni, quelle di Tatafiore
e pure di Borrello (anche se con G.M. dato il suo ruolo di moderatore il discorso dovrebbe
essere ulteriormente articolato).
Il rapporto istituzioni-gente, se ci riferiamo ad una società in cui, bene o male, vigono
le regole dello stato di diritto e della democrazia progressiva, ha un senso solo se gente
viene interpretato come cittadini. Il termine gente mi sembra più adatto ad un modello di
democrazia plebiscitaria dove l'istituzione si rapporta con la gente in termini di trade
off fra consenso e benessere mentre in una democrazia progressiva i cittadini si
rapportano alla istituzione secondo una interazione di diritti e doveri.
Il fatto è che nel mondo attuale manca l'Istituzione, o almeno il campo d'azione
dell'Istituzione è molto limitato rispetto alla mondializzazione dei problemi. Tutti
ricorderanno che molti anni fa l'Italia è uscita dal nucleare, ma a pochi chilometri dai
nostri confini esisteva un imponente sistema di centrali elettronucleari. Nella
malaugurata ipotesi di un qualche collasso tutte le precauzioni prese dalle nostre
istituzioni sarebbero state risibili. E' chiaro che lo stesso discorso, mutatis mutandis,
vale per la Ue nel suo rapporto con gli Usa o i paesi asiatici o con l'ex est europeo.
Siamo in una fase di transizione e dobbiamo perciò utilizzare gli strumenti più adatti a
questa transizione che è un qualcosa di più del semplice accorpamento di realtà
statuali minori in entità territoriali maggiori. La patria europea non è assimilabile ad
una patria italiana più grande. Quello che determina la nuova realtà mondiale è il
sovrapporsi di diverse reti di riferimento di cui le istituzioni ne sono una parte
importante ma limitata. Accanto alla rete delle istituzioni nazionali c'è la rete delle
multinazionali, la rete dei consumatori, la rete degli uomini di scienza, la rete dei
mercati azionari, ecc.
Una ricerca vietata in una parte della rete troverebbe facilmente spazio in un'altra parte
della rete.
Di qui perciò la mia preferenza per l'informazione, che io vedo come una rete pervasiva
rispetto a tutte le altre reti, ed in grado perciò, proprio per questa sua pervasività,
di influenzare tutte le altre rete.
Pensiamo per esempio ad alcune battaglie per una maggiore sicurezza degli autoveicoli o
contro il fumo o altro. Più che i parlamenti o i giuristi è stata determinante la rete
delle informazioni; il diritto poi ha seguito. Il modello che ho in mente è quello di
comitati etici, o qualcosa di simile, che operino sulla base di una sorta di common law di
tipo anglosassone.
Ho scritto queste considerazioni direttamente in e-mail tra le 23 e le 24 e probabilmente
sarà necessaria una rilettura e qualche approfondimento locale, che rinvio però alle
prossime tappe del forum.
![]()
|