02.02.06

Quale responsabilità? -parte 1- ...Il call for comments continua nel prossimo post...
Which responsibility? -part 1- ...This call for comments continues in the next entry...

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L'idea di questo call for comments è nata con l'ambizioso obiettivo di esplorare, necessariamente sul medio-lungo periodo, la pertinenza della riflessione sui concetti di responsabilità e innovazione, senza perdere di vista i contesti sociali, politici ed economici di riferimento che danno concretezza alla mission della Fondazione Bassetti. Non dimentichiamo infatti che quando si parla di responsabilità dell'innovazione, non si parla solo di responsabilità in senso tecnocratico, ma politico, poiché "chi fa innovazione fa storia e chi fa storia fa sempre politica" (Piero Bassetti). Il problema è piuttosto di "come e quanto consapevolmente chi fa innovazione si faccia carico delle conseguenze che le innovazioni hanno nella storia" (idem).

Le seguenti domande vorrebbero seguire da guida per invitare i lettori e interlocutori di questo sito a rinnovare la propria riflessione sull'idea di responsabilità nell'innovazione. Questo call for comments vuole però anche avere una funzione di servizio ed essere una chiamata in con-causa dei propri lettori, per segnalarci eventuali altri siti, centri, think tanks o istituti di politica culturale che si pongano in modo simile o interessante per la Fondazione la doppia domanda dell'innovazione e della responsabilità.

Uno degli snodi fondamentali che si vanno delineando nella riflessione interna della Fondazione oggi, per esempio a proposito della questione della responsabilità dello scienziato, è la decostruzione progressiva del concetto di esperto, e questo non solo per la proliferazione dei ruoli e dei modi in cui la globalizzazione fa di tutti noi degli utilizzatori "spontanei" di tecnologia, ma in modo più significativo come uno snodo teorico-pratico, quello della problematizzazione dell'idea di "innovazione responsabile", che si gioca tra scienza, politica e comunicazione. Proprio per approfondire quali siano le modalità concrete atte a localizzare l'innovazione nel rapporto tra sapere e potere, la Fondazione Bassetti ha già sponsorizzato un esperimento concreto di democrazia partecipata (Progetto 'Partecipazione Pubblica e Governance dell'Innovazione').

In seguito ad esperimenti come questi, e alla parallela riflessione su concetti come quello delle "audit cultures" e delle "comunità di pratica" (vedi i post precedenti in questa rubrica), sempre più la Fondazione si chiede: smetteremo di pensare in termini di responsabilità, per adottare il termine e una filosofia della governance dell'innovazione? Con ciò ci si chiede se si possa pensare alla responsabilità dell'innovazione in termini di auto-organizzazione di un fenomeno complesso, piuttosto che di volontà individuale, di progetto e di governo. È una prospettiva che suscita non pochi problemi, teorici e pratici, soprattutto perché, nella società del rischio, essa tende a diventare una prospettiva "di senso comune" e di effettiva de-responsabilizzazione dei singoli e delle istituzioni, non sottoposta a vaglio critico.

Porre il problema della responsabilità dell'innovazione significa fare una scelta di laicità del pensiero nel momento in cui falliscono altre ipotesi di mediazione tra fato e rischio, mantenendo ferma l'idea di autonomia della persona. Tuttavia, rispetto ai nuovi scenari, potenzialmente e sempre più evidentemente irresponsabili, dell'innovazione globale, dove si colloca il punto di esercizio della critica? Per riprendere il discorso, citato in apertura, di Piero Bassetti, " Dobbiamo fare appello all'etica? Ma di chi? Quando il soggetto attore di una innovazione non è una persona singola ma una tecnostruttura, di per sé deresponsabilizzante, chi sarà il responsabile? ... Chi avrà la responsabilità delle innovazioni non sostenibili rese possibili dal rifiuto del Trattato di Kyoto?" E, in ultima analisi, "chi, quale potere, è legittimato a determinare i fini che l'innovazione è chiamata a perseguire?"

La sfida si pone tra la definizione di un concetto puramente funzionale di responsabilità, che sostituisca al valore la forza della procedura efficiente (con tutte le derive pericolose e dis-umanizzanti denunciate da ricerche come appunto Audit Cultures), ed il reperimento di un nuovo, più ampio e più profondo, concetto di responsabilità. In altre parole, è davvero "probabile che delle procedure opportunamente studiate per esaltare il senso di responsabilità di chi innova possono aumentare la qualità e l'accettabilità politica delle innovazioni poste in atto dal sistema"? Oppure è nell'ambito più articolato della "politica" che occorre stabilire la direzione dell'innovazione e della responsabilità comunitaria rispetto ad essa?

Le seguenti domande vogliono esplicitare i molti dubbi e quesiti relativi alla responsabilità dell'innovazione rispetto agli ambiti della sua comunicazione e della sua implementazione politica, rispetto al problema della sua ricerca e osservazione, rispetto al problema della definizione di soggetti e scenari di responsabilità, e infine rispetto al concetto di governance dell'innovazione.

- Esistono/siete al corrente di agenzie o centri di ricerca che si prefiggano di far crescere la consapevolezza della responsabilità nell'innovazione? Con quali politiche culturali?
- In che modo si può evocare il concetto di responsabilità dell'innovazione nell'opinione pubblica (oltre che negli operatori)?

- Come è possibile osservare l'innovazione?
- Come è possibile prevederne gli effetti e quindi operare in regime di responsabilità?
- Con quali strumenti si può rilevare la dimensione di responsabilità "storica" dell'innovazione? In altre parole, è possibile stabilirne le co-ordinate solo ex post facto oppure esistono strumenti e criteri atti ad anticipare scenari di responsabilità e a valutarne l'impatto?
- Come si può misurare e/o implementare il grado di responsabilità di un innovatore?

- Fino a che punto questi è responsabile in quanto soggetto di azione e innov-azione, e fino a che punto le conseguenze delle sue innov-azioni sono legate a complesse interazioni con scenari sociali, politici, culturali, economici, storici che trascendono la sua volontà e quindi la sua responsabilità?
- Fino a che misura la responsabilità dell'innovazione è definita dal contesto e in particolare dai vari attori che con essa interagiscono? Esistono/siete al corrente di esempi di pianificazione del coinvolgimento dei diversi stakeholders in scenari responsabili dell'innovazione?

- Quali criteri definiscono un'innovazione "sostenibile"? Ci può essere responsabilità prima di un giudizio di sostenibilità?
- In che misura l'idea e la pratica della governance dell'innovazione lascia spazio a un'idea e una pratica della responsabilità dell'innovatore?

English version

The ambitious goal of this call is that of initiating an exploration of possible ways of reflecting on the concepts of responsibility and innovation, without losing sight of the social, political and economic contexts that grant a concrete and pragmatic scope to the mission of the Bassetti Foundation. When we mention the responsibility of innovation, we do not mean it only in a technocratic sense, but in a political sense, since "innovators make history, and those who make history always make politics" (Piero Bassetti). The problem is rather to determine "how and how consciously innovators take upon themselves the consequences that innovation brings about in history" (idem).

The following questions have been devised as a guideline to invite all interlocutors and readers of this web site to help us reflect on the issue of responsibility in innovation. This call for comments also wishes to serve a pragmatic purpose, calling on all readers to make us aware of other web sites, research centres, institutions, agencies and think tanks that are reflecting in similar or related ways on the double issue of innovation and responsibility together.

One of the most fundamental turning points in the evolution of the Foundation's philosophy today, regarding the issue of responsibility of innovation, is the realisation that the notion of "expert" has been gradually deconstructed. This is not only the result of the fact that globalization makes us all "technological actors". It is also a theoretical and practical issue that deals with the problematisation of the very idea of "responsible innovation" across the realms of science, politics and communication.

In order to investigate concrete ways of locating innovation within the relationship between knowledge and power, the Bassetti Foundation has recently sponsored an experiment of participatory democracy (see the project "Public Participation and the Governance of Innovation"). Following such an experiment, and following further reflections on concepts such as that of "audit cultures" and of "communities of practice" in this web space (see the interview to Grasseni and Ronzon), the Foundation has come to the following question: "have we stopped thinking in terms of responsibility, and are we bound to adopt instead a philosophy of governance of innovation?" In other words, we are asking if it is possible to understand the responsibility of innovation in terms of a self-organizing complex system, instead of trying to plan and govern innovation. This also means renouncing to evaluate the responsibility of innovation in terms of individual will.

This latter perspective is not free from both theoretical and practical problems, especially because, in the "risk society", it tends to become something of a common sense perspective that lifts both individuals and institutions from any responsibility, preventing any kind of critical analysis.

Posing the problem of the responsibility of innovation means taking a lay stand in the face of the problems of fate and of risk, and maintaining as a given the idea of the autonomy of the person. But in the new scenarios of potentially more and more irresponsible global innovation, where can we locate critical analysis? Quoting Piero Bassetti's lecture again, "Should we appeal to ethics? Whose ethics? If the subject of an innovation is not an individual, a person, but a techno-structure which holds no responsibility to anyone, who will be responsible? ... Who will be responsible for the unsustainable innovations made possible by refusing the Kyoto treatise? And finally, "who, which power, is legitimated to determine the goals that innovation is called to pursue?"

A new challenge emerges, between a purely functional concept of responsibility, which supersedes the idea of moral value in order to substitute it with the force of an efficient procedure (but this can cause a number of problems and dangers, as explained for instance in Audit Cultures ), and a new, deeper concept of responsibility which still has to be defined. In other words, is it really "probable that procedures apt to incentive a sense of responsibility in the innovators can increase the quality and the political acceptability of innovations"? Or is it, after all, still in the wider realm of politics that one should establish the direction of innovation and the common responsibility for it?


The following questions are aimed at making the many doubts and issues about the idea of responsibility in innovation explicit, under the different aspects of its communication , of its political implementation and of its observability. Finally, we pose the problem of defining subjects and scenarios for responsibility, and of defining what a governance of innovation may consist of.

- Are you aware of agencies or research centres that work towards increasing awareness about responsibility in innovation? What are their cultural policies? What do you think should be the cultural policy of such an agency?
- How do you think one can evoke and promote the concept of responsibility of innovation in the public opinion (as well as amongst operators)?

- How can one observe innovation in such a way as to foresee its effects and to act in a responsible way?
- With which tools can one measure the presence of responsibility in innovation? In other words, is it only possible to establish it ex post facto, on the basis of a historical review of the facts? or can we devise criteria and tools that help anticipating possible scenarios for responsibility in innovation, and evaluate its impact?
- How can one measure and/or implement an innovator's responsibility?

- To what degree is an innovator responsible as a subject of action (and of innovative action)? To what degree do the consequences of her innovations depend instead from complex interactions with political, cultural, economic, historical scenarios? Shall we say that, since these transcend her will, they also supersede her responsibility?
- To what degree is responsibility in innovation defined from context, and in particular by the various actors that interact in it? Are you aware of examples of plans to keep the various stakeholders involved in possible scenarios for responsible innovation?

- By which criteria would you define "sustainable" innovation? Is it possible to talk about responsibility without expressing a judgement of sustainability?
- Can we say that the idea and the practice of a governance of innovation is superseding the idea and practice of the innovator's responsibility? (By governance we mean, not "governing" or "steering" but a self-governing phenomenon, akin to an orchestra without a conductor).
- To which degree is this already true of innovation? Can you quote examples?


by Cristina Grasseni on 02.02.06 at 12:00 | Permalink |
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by Bruno Latour on 03.02.06 at 12:40

Riceviamo da Bruno Latour, e pubblichiamo in traduzione italiana, la seguente riflessione in risposta al nostro call. In calce, il testo originale in francese. Cristina Grasseni.
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"Perché si dovrebbe imparare a cartografare le controversie?"

"Mi ci è voluto del tempo per ammetterlo, ma la filosofia dipende dalla letteratura, e la letteratura non dice la verità. Soltanto la scienza dice la verità. E la sua verità s'impone". Questa è l'idea che delle ricerche scientifiche e tecniche si è fatto questo romanziere dalla reputazione sulfurea. Affinché tutto sia chiaro, egli aggiunge: "Mi dispiace (.), ma è la scienza a dire la verità. Punto." Un po' scioccata, malgrado la sua beata ammirazione, da questo dogma d'infallibilità nella bocca di un nichilista dichiarato, la giornalista domanda, non senza humour, perché il povero Houellebecq (poiché di lui si tratta) non sta al tavolo di un laboratorio anziché scrivere romanzi che non possono essere altro, stando alle sue stesse affermazioni, che perfette menzogne. Al che l'autore risponde di non saper fare nient'altro!
Quel "Punto", soprattutto, è ammirevole. Non c'è niente prima: la scienza cade dal cielo come la manna celeste; non c'è niente dopo: dopo che lei ha parlato, bisogna tacere. Se è vero che non sono i buoni sentimenti a fare la buona letteratura, è altrettanto vero che la buona letteratura non si fa nemmeno con una epistemologia tanto esecrabile. Il rispettoso silenzio che segue, secondo il nostro incensatore, il pronunciarsi della "verità scientifica" che "si impone" a tutti, non aiuta certo a comprendere le difficoltà, gli errori, i soprassalti, le incertezze e, soprattutto, l'interesse stesso della ricerca. Ciò che gli agnostici non accetterebbero mai dalla religione, dalla politica o dal diritto, lo fagocitano come un'evidenza quando si tratta di clonazione! Per fortuna altri scrittori, meno sottomessi ai dogmi, hanno visto nelle scienze una fonte ben più profonda di innovazioni letterarie.
Per i ricercatori scientifici, i tecnologi, gli innovatori e gli imprenditori sarebbe seducente illudersi di possedere una tale infallibilità. Quel "Punto" non è forse ciò che tutti sognano segretamente? Costoro pensano tra sé: "Ah, se la mia innovazione, il mio programma di ricerca, il mio software potessero imporsi in modo indiscutibile come una verità assoluta dinnanzi alla quale gli scettici dovrebbero inchinarsi!". Tuttavia, avrebbero torto a cullarsi in tali illusioni. All'infuori di qualche "letterario" del tipo di Houellebecq, nessuno è più disposto a considerare i loro editti e le loro bolle come fatti indiscutibili preceduti dal nulla e seguiti dal nulla. In altri termini, la scienza non è più l'espressione di un potere trascendente, poiché non ha più il potere di "imporsi" in questo modo. Per rendersene conto è sufficiente dare un'occhiata ai giornali: quando la verità scientifica parla, anziché manifestarsi il silenzio che sembra auspicare il romanziere, si assiste a un fenomeno dei più strani: la discussione continua e, anzi, riprende in modo ancor più infiammato. Basta pensare all'amianto, agli Ogm, alle cellule staminali, al chatelperronien, all'autostrada A-51, ai Suv in città, per rilevare l'impotenza degli esperti nell'ottenere la chiusura della discussione e a "imporre" il silenzio.
Prima d'indignarsi per una tale "diffusione dell'irrazionalità" e per la "perdita di fiducia negli esperti", bisogna rendersi conto di quanto Houellebecq si sbagli, quando afferma di non lavorare in un laboratorio. Infatti, l'estendersi delle scienze e delle tecniche ci ha trasformati tutti quanti in partecipanti, volontari o meno, di grandi esperimenti, alcuni dei quali si svolgono su scala planetaria. Alcuni sono al tavolo del laboratorio in funzione di ricercatori, altri fanno da finanziatori, altri fungono da testimoni, altri, infine, da cavie. Che si tratti di riscaldamento globale, di piani contro la disoccupazione, di telefoni cellulari, di fumo passivo, di autovelox, di riserve petrolifere o di costituzione europea, siamo tutti imbarcati in esperimenti di cui, talvolta, si potrebbe cercare invano il protocollo. La sfera artificiale e fragile nella quale viviamo, come spiega Peter Sloterdijk, richiede la partecipazione controversa di tutti i suoi membri. Se la verità scientifica non riesce più ad imporsi, ciò non avviene a causa dell'irrazionalità in cui sarebbe caduto il popolino, bensì perché la gente si trova oggi in situazione di co-ricerca. Se si è gettata nel laboratorio, è proprio per rifiutare le verità che tentavano di "imporsi" senza discutere e che rischiavano di gettarla sul lastrico. In una sola parola, i fatti indiscutibili sono diventati discutibili - ed è tanto di guadagnato per la razionalità.
Il problema è che non abbiamo ancora i mezzi, i riflessi, gli utensili, le abitudini mentali che ci permettano di trovarci a nostro agio nei fatti d'ora in avanti discutibili. Imbevuti ancora di epistemologia houellebecqiana, ci rivolgiamo ai manuali come fossero catechismi. Come i fondamentalisti, siamo come scioccati quando realizziamo che dovremo abituarci non più a dei dogmi, ma a delle controversie. Una tale libertà, un tale libero esame ci scandalizzano. Vediamo in questa situazione una perdita, anziché un guadagno. Un celebre chirurgo della schiena che mi propose una operazione dolorosa, e al quale mi permisi di dire che, dopo aver fatto il giro delle soluzioni disponibili a Parigi, "c'erano diverse versioni della mia malattia", mi rispose con alterigia: "Signor Latour, non esistono diverse 'versioni'. Vi hanno informato male.". Anche lui pensava che la verità s'imponeva e che i fatti indiscutibili avrebbero dovuto portare la mia schiena sotto al suo bisturi. Quest'ultima, fortunatamente, se la cavò molto bene grazie a un'altra "versione" completamente diversa.
Una nuova domanda si pone quindi a tutti, ricercatori, utenti, finanziatori, semplici cittadini, studenti o giornalisti: come esporre le versioni concorrenti delle stesse questioni scientifiche e tecniche che, su tutti gli argomenti interessanti, richiedono la nostra attenzione e la nostra deliberazione? In altri termini, come fare a ritrovare una obiettività che non si basi più su un silenzio ammirato, bensì sull'intera gamma dei pareri contraddittori attinenti a versioni opposte della medesima posta in gioco? Come riuscire a collegare queste versioni per riuscire a farsi un'opinione? Questa è la scommessa che la cartografia delle controversie scientifiche e tecniche, come l'ho definita, deve raccogliere. Fortunatamente, le nuove tecniche d'informazione permettono in parte di rimediare al caos d'informazione, di dicerie, di notizie nel quale queste stesse tecniche ci avevano immersi in un primo tempo.
Un esempio molto semplice può far capire l'interesse di questi media: una madre di famiglia perde per due volte un figlio piccolo; le assistenti sociali, poi la polizia, poi il giudice la accusano di maltrattamenti e si preparano a metterla in prigione; il medico esperto, delegato dai tribunali, conferma l'accusa. Tuttavia, la cartografia delle controversie rivela un paesaggio decisamente più contrastato. La ricerca medica inglese designa con l'espressione "shaken baby syndrome" non un crimine, ma una malattia la cui origine potrebbe essere genetica. Quindi, ciò che è "verità" in Francia può essere errore sull'altro lato della Manica. Si tratta forse di due versioni diverse? Certamente. Bisogna forse crogiolarsi nel relativismo rinviando le due versioni schiena contro schiena? Certo che no, dato che oggi è possibile identificare i ricercatori anglo-sassoni, trovare i loro articoli, risalire alla loro credibilità relativa e paragonare questa carta delle competenze alla situazione francese. C'è qui una "relativizzazione" dell'unico esperto francese, il cui potere "d'imporre" la sua diagnosi è battuto in breccia dall'avvocato informato delle ricerche inglesi. Chi oserà mai dire, quando la madre di famiglia sarà rilasciata, che c'è stato un indebolimento del potere della scienza e della ragione? Chi oserà mai affermare che sarebbe stato meglio nascondere all'imputata e ai suoi avvocati l'esistenza di un campo scientifico tanto contrastato?
Bisogna abituarcisi: le esigenze della ragione sono più complesse di quanto credono i signori Houellebecq. La grandezza e l'interesse delle scienze sta nel fatto che devono essere discusse giustamente, e non solo dai ricercatori. Poiché le scienze e le tecniche si sono estese all'intera esistenza quotidiana, è necessario che altri mezzi d'informazione impediscano la chiusura prematura di ciò che è divenuto un nostro bene comune.

Rubrica: cartografia delle controversie scientifiche e tecniche, Technology Review, numero 0
Bruno Latour, CSI, Ecole des mines, Parigi
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Pourquoi faudrait-il apprendre à cartographier les controverses?
Rubrique : cartographie des controverses scientifiques et techniques, Technology Review, numéro 0
Bruno Latour, CSI, Ecole des mines, Paris

« J'ai mis longtemps à l'admettre, mais la philosophie relève de la littérature, et ce n'est pas la littérature qui dit la vérité. Seule la science dit la vérité. Et sa vérité s'impose ». Telle est l'idée que se fait des recherches scientifiques et techniques ce romancier à la réputation sulfureuse. Et pour que tout soit clair il ajoute: « J'en suis désolé (.) mais c'est la science qui dit la vérité. Point ». Un peu choquée, malgré sa béate admiration, par ce dogme d'infaillibilité dans la bouche d'un nihiliste avoué, la journaliste demande, avec un certain humour, pourquoi le malheureux Houellebecq (car il s'agit de lui) n'est pas à la paillasse dans un laboratoire plutôt qu'à écrire des romans qui ne peuvent être, d'après ces propres dires, que de parfaits mensonges. A quoi l'auteur répond qu'il ne sait rien faire d'autre !
Ce « Point. » surtout est admirable. Il n'y a donc rien avant : la science tombe du ciel comme la manne céleste; il n'y a rien après : une fois qu'elle a parlé, il faut se taire. S'il est vrai que les bons sentiments ne font pas de la bonne littérature, on n'en fait pas non plus avec une si exécrable épistémologie. Le respectueux silence qui suit, d'après notre thuriféraire, l'énoncé de la « vérité scientifique » qui « s'impose » à tous, ne doit pas trop aider à comprendre les difficultés, les errements, les soubresauts, les incertitudes et, surtout, l'intérêt même de la recherche. Ce que jamais les agnostiques n'accepteraient de la religion, de la politique ou du droit, ils l'ingurgitent comme une évidence, quand il s'agit de clonage ! Il est heureux que d'autres écrivains, moins soumis aux dogmes, aient vu dans les sciences une ressource autrement profonde d'innovations littéraires.
Il serait tentant pour les chercheurs scientifiques, les technologues, les innovateurs et les entrepreneurs, de se sentir flattés par une telle infaillibilité. N'est-ce pas au fond à ce « Point. » qu'ils rêvent tous en secret ? « Ah, se disent-ils, si mon innovation, mon programme de recherche, mon logiciel pouvaient s'imposer de façon indiscutable comme une vérité absolue qui feraient s'agenouiller les sceptiques ! ». Ils auraient pourtant bien tort de se bercer de telles illusions. En dehors des quelques « littéraires » du genre de Houellebecq, plus personne n'est prêt à prendre leurs édits et leurs bulles pour des faits indiscutables que rien ne précède et que rien ne suit. Autrement dit, la science n'est plus l'expression d'un pouvoir transcendant car elle n'a plus le pouvoir de « s'imposer » ainsi. Il suffit pour s'en convaincre de jeter un coup d'oil aux journaux : quand la vérité scientifique a parlé, au lieu du grand silence que semble appeler de ces voux le romancier, on assiste à un phénomène des plus étranges : la discussion continue et même reprend de façon encore plus enflammée. Il suffit de se tourner vers l'amiante, les OGM, les cellules souches, le chatelperronien, l'autoroute A-51, les 4x4 en ville, pour remarquer l'impuissance remarquable des experts à obtenir la clôture de la discussion et à « imposer » le silence.
Avant de s'indigner de cette « montée de l'irrationnel » et de cette « perte de confiance dans les experts », il faut bien voir à quel point Houellebecq se méprend quand il affirme ne pas travailler dans un laboratoire. Il se trouve en effet que l'extension même des sciences et des techniques nous a tous transformés en participants, volontaires ou involontaires, à de grandes expériences dont certaines sont à la dimension de la planète entière. Les uns sont à la paillasse comme chercheurs, d'autres comme financeurs, d'autres comme témoins, d'autres enfin comme cobayes. Qu'il s'agisse du réchauffement global, des plans chômages, des téléphones portables, de la tabagie passive, des radars d'autoroute, des réserves de pétrole ou de la constitution européenne, nous sommes tous embarqués dans des expériences dont on chercherait parfois en vain le protocole. La sphère artificielle et fragile à l'intérieur de laquelle nous vivons, comme l'explique Peter Sloterdijk, requiert la participation controversée de tous ses membres. Si la vérité scientifique ne s'impose plus, ce n'est donc pas parce que le bon peuple est devenu irrationnel, mais parce qu'il se trouve dorénavant en situation de co-recherche. S'il est à la paillasse, c'est pour refuser les vérités qui chercheraient à « s'imposer » sans discuter et qui risqueraient de le mettre sur la paille. En un mot, les faits indiscutables sont devenus discutables -et c'est autant de gagné pour la rationalité.
Le problème vient de ce que nous n'avons pas encore les médias, les réflexes, les outils, les habitudes de pensée, qui nous permettent de nous retrouver à l'aise dans les faits dorénavant discutables. Encore imbibés d'épistémologie houellebecquienne, nous nous tournons vers les manuels comme vers un catéchisme. A la manière des fondamentalistes, nous sommes vite choqués quand nous réalisons qu'il va falloir nous habituer, non plus à des dogmes, mais à des controverses. Cette liberté, ce libre examen nous scandalise. Nous y voyons une perte et non pas encore un gain. Un célèbre chirurgien du dos, qui proposait une opération pénible, et à qui je me permettais de dire que, après avoir fait le tour des solutions disponibles à Paris, « il y avait plusieurs versions de cette même maladie », me répondit avec hauteur : « Monsieur, il n'y a pas plusieurs 'versions' : on vous a mal informé. ». Lui aussi pensait que la vérité s'imposait et que les faits indiscutables devaient soumettre à son scalpel un dos qui se tira d'affaire, heureusement fort bien, par une autre « version » entièrement différente de celle qu'il avait assénée.
Une question nouvelle se pose donc à tous, chercheurs, usagers, financeurs, simples citoyens, étudiants ou journalistes : comment déployer les versions concurrentes des mêmes affaires scientifiques et techniques qui, sur tous les sujets intéressants, exigent notre attention et notre délibération ? Comment, autrement dit, retrouver une objectivité qui ne repose plus sur un silence admiratif mais sur la gamme des avis contradictoires portant sur les versions opposées des mêmes enjeux ? Comment parvenir à nouer ces versions pour pouvoir parvenir à se faire un avis ? Telle est l'enjeu de ce que j'appelle la cartographie de controverses scientifiques et techniques. Heureusement, les nouvelles techniques d'information permettent en partie de remédier au chaos d'information, de rumeurs, de nouvelles, dans lequel ces mêmes techniques nous avait d'abord plongés.
Un exemple très simple fera comprendre l'intérêt de ces médias : mère de famille, vous perdez deux fois de suite un enfant en bas âge ; les assistantes sociales, puis la police, puis le juge vous accuse de maltraitance et se prépare à vous emprisonner ; le médecin expert, délégué par les tribunaux, confirme l'accusation. Or, il se trouve, que la cartographie de controverses, révèle un paysage beaucoup plus contrasté. La recherche médicale anglaise déploie, sous le nom de « shaken baby syndrome », non plus un crime mais une maladie dont la base pourrait être génétique. Vérité en France, erreur au delà de la Manche. S'agit-il de deux versions différentes ? Assurément. Faut-il se complaire dans le relativisme en renvoyant ces versions dos à dos ? Pas du tout, car il est maintenant possible de repérer les chercheurs anglo-saxons, trouver leurs articles, retracer leur crédit relatif et comparer cette carte des compétences à la situation française. Il y a bien une « relativisation » du seul expert français dont le pouvoir « d'imposer » son diagnostic se trouve battu en brêche par l'avocat informé des recherches anglaises. Qui osera dire, lorsque la mère de famille est relaxée, qu'il s'agit là d'un affaiblissement des pouvoirs de la science et de la raison ? Qui osera affirmer qu'il aurait mieux valu dissimuler à l'accusée et à ses avocats l'existence d'un champ scientifique aussi contrasté ?
Il faut s'y faire : les exigences de la raison sont plus complexes que le croient le bon monsieur Houellebecq. C'est la grandeur et l'intérêt des sciences d'être justement discutées, et pas seulement par les chercheurs. Puisque les sciences et les techniques se sont étendues à toute l'existence quotidienne, il est impératif que d'autres médias d'information empêchent la clôture prématurée de ce qui est devenu notre bien commun.


by Daniel Callahan on 06.02.06 at 22:01

It seems self-evidently true that those who create innovative technologies bear some moral responsibility for the social results and consequences of them. Yet it is by no means easy to determine how best to assess the likely consequences or how the moral responsibility should be discharged. Even if one has acted responsibly with one's innovation, it may be impossible to control the uses that others make of it without one's permission. Once ideas or innovative technologies are out in society they often, very often, pass beyond the control of their inventor. Moreover, as the history of the automobile, the airplane, the computer, and many medical technologies shows, it is often just about impossible to imagine what their long-term impact will be.
Yet, however hard it is to deal with the problem of responsibility, we can learn a good deal from the history of innovation and, with the use of our imagination, set forth some principles that may help our thinking about innovation.
Here are ways of doing so, and some historically based generalizations:
--Assume that the innovation will have widespread use. If so, then what will be the implications of that? Good or bad?
--Assume that, if a technology turns out to be on the whole harmful, even if also beneficial in part, that it will not be possible to turn back the clock and get rid of it. Assume, that is, that it will be permanent, and then ask: good or bad?
--Assume that technologies introduced as voluntary, a matter of individual's choosing to use them, will probably become socially mandatory at some later date. The automobile was introduced as a choice between it and a horse; but we no longer can make that choice and must now use automobiles to get around
--Reject the idea that, when innovative technologies are socially controversial, it is best to leave their use up to the market, each of us free to use or not use the technology. If the technology has some large-scale and important social implications and consequences, that solution will not lead to a responsible use. Some democratic social debate and judgment will be needed, transcending market solutions
--Make every effort to think through the assumptions listed, and every effort to provide the public with the results of that thought. Such an effort may slow the creation and dissemination of innovative technologies--but we have lived for too long in a world where the technologies have been developed by a handful of people and then dropped on the rest of us without our informed consent. We need better ways of thinking about the technologies before that happens.

Daniel Callahan
Director of International Programs
The Hastings Center
Garrison, N.Y. USA


by Clemente Iannotta on 10.02.06 at 21:11

Risposta alla domanda: «In che modo si può evocare il concetto di responsabilità dell’innovazione nell’opinione pubblica?».

Innanzitutto credo che occorra fare alcune riflessioni preliminari e, come sempre nelle riflessioni importanti, porre delle domande fondamentali. Partiamo dunque col chiederci questo: che cos’è una innovazione? La risposta, apparentemente scontata, è che l’innovazione coincide con la creazione di qualcosa non ancora esistente. Rispondendo in questo modo lasciamo che emergano due aree di indagine distinte: da una parte infatti ci dobbiamo interrogare sul senso dell’oggetto creato, dall’altra sui soggetti che fruiscono di tale creazione.
Ciò che viene creato è, prima di ogni altra cosa, un oggetto fisico (per esempio il prodotto biancheria per la casa). Ora, l’oggetto “biancheria” è forse qualcosa che esiste di per sé, indipendentemente da colui che l’osserva, che l’utilizza e se ne serve, oppure no? Il problema che sto ponendo con questa domanda è di carattere squisitamente ontologico; ed è proprio in ambito ontologico che esso può trovare un chiarimento. In Essere e tempo, il filosofo tedesco Martin Heidegger, nell’analizzare il carattere dell’oggetto, fa una distinzione fondamentale: il senso dell’oggetto può essere inteso come una semplice presenza (questo è il “vizio”, l’errore che egli rintraccia nella storia del pensiero occidentale, colpevole questo di avere sempre reificato la cosa, rendendola una presenza autonoma prescindere da colui che vi si rapporta) oppure come qualcosa che rimanda a colui che lo utilizza. Proprio su questo secondo punto si sofferma Heidegger, e noi con lui: ad una analisi fenomenologia, cioè partendo dall’osservazione degli oggetti così come essi si danno nell’esperienza soggettiva, la “cosa” si rivela essere un “utilizzabile”. Questo vuol dire che il suo senso rimanda a colui che la utilizza; in altre parole il senso di un prodotto ha a che vedere con il suo fruitore. Forse un esempio mi aiuterà a spiegarmi: un martello non è un oggetto che ha valore in sé, ma rimanda a colui che lo usa per poter martellare; la sua stessa forma fisica ha il carattere della “rimandatività”: esso è costituito da un manico che serve da impugnatura, la quale indica il modo in cui il martello deve essere utilizzato; ammesso che non voglia utilizzare il martello in maniera impropria, io devo necessariamente afferrarlo per l’impugnatura e battere con l blocchetto di acciaio. In altre parole il martello mi costringe (se voglio che sia funzionale) ad utilizzarlo in un certo modo.
Quello che mi interessava sottolineare è appunto la forza costrittiva che l’oggetto esercita nei confronti del fruitore; inoltre una tale costrizione (cosa su cui l’attenzione di Heidegger non si posa) possiede una implicazione inevitabilmente etica, che lega tra loro il costruttore dell’oggetto (l’inventore) e colui che l’utilizza (l’acquirente). Facciamo un altro esempio per rendere più evidente questa implicazione. Ipotizziamo che un componente materiale di un prodotto (per esempio la suola gommata di una scarpa) venga acquistato, per ragioni di mercato, da Paesi in cui esso ha un costo decisamente basso; ammettiamo inoltre che la competitività di un tale prezzo sia dovuta allo sfruttamento della forza lavoro. Ora il produttore di scarpe, se vuole immettere sul mercato un prodotto finale con un prezzo concorrenziale, dovrà necessariamente comprare le proprie suole da aziende estere in cui i più basilari diritti del lavoratore sono calpestati: egli potrebbe anche essere una persona molto responsabile e corretta per quanto riguarda il rispetto di tali diritti, tuttavia egli è costretto, suo malgrado, a tollerare il lavoro minorile o sottopagato nel momento stesso in cui acquista le sue suole gommate. Questa indiretta responsabilità aleggia sul suo operato senza che egli possa fare niente; inoltre, ampliando il concetto di costrizione dell’oggetto di cui abbiamo parlato sopra, tale responsabilità ricade anche sull’acquirente: quando acquisto quelle scarpe, malgrado sia coscientemente un convinto sostenitore dei diritti umani, io divengo responsabile del perpetuarsi di quello sfruttamento. Ecco l’implicazione etica della costrizione degli oggetti: quelle scarpe mi costringono ad essere uno sfruttatore inumano.
Tornando a noi, se si vuole parlare di innovazione, bisogna tener presente quanto abbiamo cercato di comprendere sopra: quel che viene creato esercita sempre una costrizione nei confronti dei soggetti sociali, e la responsabilità di chi inventa è sempre una co-responsabilità che egli con-divide con colui che fruisce della sua invenzione.

Adesso riprendiamo in considerazione la domanda iniziale: in che modo si può evocare il concetto di responsabilità dell’innovazione nell’opinione pubblica?
Forse occorre stabilire in che accezione intendere il temine opinione pubblica: se con questa si vuole indicare l’insieme dei messaggi veicolati dai media, allora sarebbe forse più saggio evitare di parlare di responsabilità: l’ansia di commisurare e comparare pervade per intero il giudizio collettivo, e dal vocio indistinto dei dibattiti televisivi o dall’approssimazione giornalistica omnicomprensiva ogni cosa non può che uscire appiattita e banalizzata; la banalizzazione, è bene tenerlo sempre a mente, sottrae agli eventi il loro significato e agli individui la possibilità di assumerlo responsabilmente nel contesto del loro quotidiano: non c’è niente di più avvilente della banalizzazione della responsabilità individuale.
Se si vuole parlare di opinione pubblica in riferimento ad un prodotto, allora credo che essa debba essere intesa come il “giudizio dei singoli acquirenti”. Se accettiamo questa definizione allora potremo riformulare la nostra domanda in questo modo: in che modo si può far comprendere agli acquirenti il senso della responsabilità di un prodotto innovatore? Evidentemente rendendo palese la loro stessa responsabilità (di quella co-responsabilità che li lega al produttore).
Infatti essere responsabili significa innanzitutto avere la possibilità di scegliere. Se io non ho una tale possibilità non posso nemmeno rendermi responsabile di quello che faccio perché, a prescindere dalle mie convinzioni o dai miei desideri, io sono necessariamente costretto ad agire unilateralmente. Tutto questo mi impedisce di commettere errori, non mi lascia prendere coscienza dei miei sbagli: ma se non prendo su di me il peso dei miei errori, come potrei mai responsabilizzarmi? Se invece io ho la possibilità di scegliere tra una azione ed un’altra, allora io mi rendo autore o co-autore di degli effetti inevitabili che la mia azione provoca: è la visione delle conseguenze ciò che mi responsabilizza.
Allora responsabilizzare l’acquirente significa darli la possibilità di scegliere tra un tipo di acquisto ed un altro. Riprendendo l’esempio del prodotto “scarpe”, l’innovazione consisterebbe nel creare un prodotto in grado di garantire il rispetto dei diritti umani basilari in qualsiasi fase della produzione. In questa garanzia risiederebbe la responsabilità del produttore e nella scelta di un tale prodotto quella dell’acquirente; infatti, l’immissione sul mercato di questo nuovo prodotto darebbe a me, acquirente, la possibilità di scegliere tra un oggetto che soddisfa le mie convinzioni etiche ed un altro che invece non mi da questo tipo di garanzie.
L’innovazione in questo caso non farebbe pernio sui criteri tradizionali di qualità o prezzo (che tuttavia andrebbero salvaguardati), ma su quello di responsabilità etica.

Clemente Iannotta


by Martino Doni on 13.02.06 at 14:50

Come è possibile osservare l'innovazione?

I) Il problema dell'osservazione dell'innovazione è il problema del senso.
Come direbbe Wittgenstein, il senso della vita si scorge allo sparire di essa.
Dunque, salvando i paragoni, l'innovazione si osserva quando non è più in atto, quando è "passata".
Il passare dell'innovazione è l'esercizio (l'attuazione) della comunità. Mediante l'esercizio della comunità, si definiscono le coordinate culturali ed etiche entro le quali organizzare le azioni esplicite. Dunque fuori dalla comunità non ci sono né spazi né tempi per l'innovazione. L'innovazione "passa" solo attraverso la comunità.

II) Il passare non è una teoria: non si vede.
Può esistere un'etica di ciò che non si vede? Sì, se si tratta di un'etica "del secondo ordine".
Siamo abituati all'etica fondata sulle cose che si possono vedere, un'etica normativa basata sull'esclusione (le cose che non si possono fare).
Ma l'etica, nei processi innovativi, cioè l'etica che si pone nel passare dell'innovazione attraverso la comunità, non ha un oggetto "quantificabile", è in corso d'opera. È ethos, prima ancora di essere morale.

III) Il problema dell'innovazione è il problema del senso, dunque è il problema etico per eccellenza; non è tanto il problema del bene o del male, ma il problema del: dove andare?
Se si potesse rendere con un simbolo, il processo innovativo potrebbe segnare la traiettoria di un labirinto. L'etica del labirinto non è la sua distruzione, ma è l'assunzione di una direzione. È il filo d'Arianna! Il senso non trascende la pratica, ma si costruisce (e si scopre) in essa.
Dunque il senso non si può rappresentare, non lo si può definire una volta per tutte, ma lo si può solo costruire nelle pratiche. E una volta individuato, subito dilegua, non c'è più

IV) Il senso non è una cosa, è un processo. Così l'osservazione dell'innovazione non è una formula che può garantirci chissà quale futuro, ma è partecipazione a pratiche di comunità.
Tale partecipazione (che mette in atto a sua volta comunità di pratiche), si può forse configurare secondo queste tre generali linee guida:
a) Consapevolezza (cioè: occorre sapere come funzionano i processi per poterli valutare).
b) Negoziazione/decentramento (cioè: nessuno ha la possibilità di assumere un quadro totale delle pratiche, dunque l'etica non può essere posseduta, ma solo condivisa).
c) Riformulazione (cioè: le pratiche si ridefiniscono a seconda della narrazione che se ne dà; certo, anche la narrazione è una pratica, ma è collettiva e performativa per antonomasia, e in quanto tale si presta ad essere la sede privilegiata per un'etica "del secondo livello").


Martino Doni
CeRCo


by Michele Castelli on 13.02.06 at 18:59

Innanzitutto il concetto di innovazione preso in quanto tale rischia di essere generico se non teorico: il punto centrale, secondo me, è che una cosa o una persona o un fatto che accade è innovativo se cambia qualcosa, cioè se incide nella realtà per un miglioramento della stessa. Quindi, una cosa può essere nuova ma non innovativa, nel senso che seppur non esistente precedentemente non aggiunge nulla come cambiamento in bene nella realtà. Inoltre, coerentemente con questo, c'è un livello soggettivo ed uno oggettivo d'innovazione: lo sviluppo di determinate tecniche di controllo e sicurezza sociale sono innovative (a scapito della privacy, ad esempio)? L'e mail penso invece possa essere definito oggettivamente un'innovazione positiva come guadagno di spazio e tempo. Ma il punto centrale secondo me non è sulle cose ma sulle idee, sui cambiamenti culturali che un approccio innovativo può generare: per questo, innovazione e responsabilità sono inscindibili dal punto di vista delle conseguenze che un'innovazione può portare. Infine, la principale innovazione è quella che investe sulle persone, sul capitalòe umano, rendendo ciascuno possibile di innovare se e la realtà: se non è così l'innovazione rischia di essere o non incidente oppure un concetto, un modello, che non cambia l'atteggiamento di una persona, mentre ciò che innova cambia, in meglio.


by Mario Castellaneta on 24.02.06 at 16:12

Anche il concetto di responsabilità nell'innovazione mi sembra possa inquadrarsi in quello più ampio di "governo della complessità". E', infatti, evidente che il sommarsi di turbocapitalismo, globalizzazione e nuove scoperte scientifiche ha accresciuto il livello di complessità con il quale siamo abituati a confrontarci. Questo ha reso necessario il dispiegarsi di tipologie di formazione sempre più specialistiche in cui si finisce con il sapere molto di un argomento e quasi niente del resto: un tale tipo di formazione, per altro indispensabile visto che é praticamente impossibile riuscire a governare le molteplici sfaccettature della complessità, tende a rendere meno consapevoli degli aspetti della conoscenza non strettamente collegati alla propria specializzazione . Questo é vero non solo per chi opera nel campo scientifico, ma anche per chi ha una formazione di matrice umanistica e che spesso ritiene di poter inquadrare la complessità dall'alto di una (spesso saccente) capacità di pensiero filosofico frequentemente lontanissima dal mondo scientifico.

Pertanto é solo nel mondo della politica in senso alto che una sintesi di queste visioni frequentemente contrastanti può trovare un suo sedimento ed elaborare soluzioni che il tempo ed il mutare delle circostanze faranno inevitabilmente cambiare. E' solo in questo ambito che gli aspetti della scienza, dell'innovazione, dell'ambiente, del rischio e delle opportunità possono trovare una mediazione forzatamente temporanea.

Il tema della responsabilità nell'innovazione non può essere disgiunto da quello della sua governance: sono due facce della stessa medaglia. Quanto agli individui, si può da loro pretendere responsabilità, ma non si può dimenticare che la responsabilità può essere molto diversa da persona a persona, anche nel caso di personaggi di alto profilo scientifico: basti pensare al diverso atteggiamento tenuto nei confronti della energia nucleare da due famosi scienziati che fecero parte del progetto: Oppenheimer e Teller.


by Clemente Iannotta on 25.02.06 at 15:40

Rispondendo a Michele Castelli
Anche nel suo intervento mi è sembrato di rintracciare dei punto condivisibili. Anche lei sottolinea un aspetto significativo dell’innovazione: se non c’è incidenza sulla realtà non può esserci niente che si possa definire innovativo. Il termine realtà è però troppo ambiguo: forse sarebbe meglio parlare di mondo collettivo, cioè di quel mondo fatto di norme, di valori, di atteggiamenti accettati, condivisi e per questo consueti. L’innovazione deve mutare qualcosa in questo mondo comune altrimenti che innovazione potrebbe mai essere? Dal mio punto di vista è valida anche la sua distinzione tra “cosa nuova e cosa innovativa”: ci possono essere cose del tutto nuove che però non mutano assolutamente niente. La stessa attività scientifica, stando ad un epistemologo statunitense di nome Thomas Kuhn, si basa, normalmente, sull’articolazione dei suoi presupposti teorici (nell’articolazione del paradigma tutti i risultati sono deducibili dalle premesse della teoria, la quale crea un insieme di aspettative): ciò che ha veramente potere innovativo deve necessariamente saper mutare il paradigma vigente, cioè l’insieme dei presupposti impliciti, e questo vale tanto per la scienza quanto per la società.
Mi soffermo un attimo su quella che credo sia stata una critica al mio precedente intervento: sono anch’io convinto che le innovazioni riguardino innanzitutto la sfera delle idee e che esse hanno un senso se riescono a cambiare l’atteggiamento (qualcuno direbbe la mentalità) delle singole persone che fanno parte di una collettività. Io, da pare mia, volevo semplicemente soffermarmi sul processo innovativo nella sua interezza, e all’interno di questo rientra anche la creazione dell’oggetto (della cosa). Lei a buon diritto parla di e-mail, ma se lei non avesse il computer (l’oggetto fisico, cioè l’hardware) non potrebbe spedire nessun messaggio elettronico: alla base dell’innovazione data dai programmi di posta elettronica sta, come suo presupposto, l’esistenza di un hardware. Tuttavia il problema dell’oggetto fisico è secondario e in questa discussione tutto sommato irrilevante. Ciò che importa è che l’idea innovativa deve saper raggiungere gli altri, deve co-involgere, saper direzionare, essere da guida per un gruppo di persone. Se le idee che mi si presentano spontaneamente rimangono confinate nella mia soggettività, io tradisco la stessa natura del mio essere uomo, e sicuramente fallisco il mio progetto innovativo: come scrive quel poeta portoghese «L'esito è nell'avere esito, e non nell'avere condizioni di esito. Dappertutto, in ogni vasta terra, esistono condizioni palazzesche. Ma dove sarà il palazzo se non viene costruito?».

Nel tentativo di rendere meno eterogenea questa discussione io vorrei proporre (ma è soltanto un suggerimento) di indirizzare la nostra attenzione su questi aspetti dell’innovazione:
Il rapporto tra individuo che innova e collettività ri-nnovata.
Il rapporto che il soggetto innovatore intrattiene con se stesso e con la collettività
Il significato del cambiamento collettivo (le differenze socio-culturali che intercorrono tra le condizioni precedenti e quelle posteriori all’innovazione).
Per fare questo potremo cominciare con l’indagare un esempio che abbiamo sotto gli occhi: la ditta Bassetti e la personalità del suo fondatore.
Infine proporrei di ritornare, come dopo un viaggio, sul concetto di responsabilità, tenendo presente che si parla innanzitutto di responsabilità in ambito aziendale.


by Clemente Iannotta on 25.02.06 at 15:43

Rispondendo a Martino Doni.
Credo che lei abbia focalizzato la nostra attenzione su un punto importante: l’innovazione passa solo attraverso la comunità. L’ innovazione non potrebbe ri-nnovare niente se non coinvolgesse la Persona altrui e non può esserci niente di innovativo se non ci fosse condivisione: io potrei avere inventato una panacea per la guarigione di tutti i mali (ipotesi assurda, tranne che per gli alchimisti), ma essa continuerebbe a non esistere se i risultati che sono stati validi per me non valessero anche per gli altri. Questo ovviamente vale per qualsiasi tipo di comportamento: essendo ogni persona parte di una collettività, ciò che essa fa non riguarda soltanto se stessa, ma anche la comunità in cui è inserita. Interessante anche la sua osservazione sul senso a posteriori dell’ innovazione. C’è un termine tedesco che esprime bene questo concetto: “nachträglich- keit”, che significa “posteriorità”, con il quale Freud indica la possibilità di comprensione del senso degli eventi solamente “a cose fatte”. Si pensi anche al recupero degli avvenimenti passati su cui fa pernio tutta la Recherche di Proust.
Ma c’è un punto su cui non dobbiamo sorvolare: la posteriorità riguarda esclusivamente il soggetto agente: è unicamente il singolo individuo ad andare alla ricerca del senso delle proprie azioni e per farlo non può che distanziarsi dai valori comunemente accettati, cioè dal modo collettivo (e storicamente fondato) di conferire senso agli accadimenti; però, paradossalmente, soltanto la collettività ha il potere di decretare il valore innovativo ricercato singolarmente. Collettività e posteriorità nell’innovazione: non sta a me dire se ciò che sto facendo è davvero innovativo, ma è la collettività a decretare il senso innovativo di quello che io ho fatto.
È vero che il problema dell’innovazione è il problema del senso, ma quest’ultimo riguarda due poli tra loro opposti: quello dell’individuo e quello dalla collettività. L’innovazione è il passaggio di senso dall’individuale al collettivo, è il problema della ri-formulazione del senso compiuta da un individuo in seno ad una collettività. Da questo punto di vista l’innovazione è un processo: mi viene in mente proprio ciò che Jung chiama “processo d’individuazione”. Tale processo si può suddividere (solo per esigenze esplicative) in tre sottoprocessi: un primo stadio che potremo chiamare (Jung usa questo termine) differenziazione del singolo dalle esigenze e dai valori imposti dalla collettività; un secondo stadio caratterizzato dal confronto con i contenuti inconsci (con quei contenuti cioè privi di senso) che rappresenta il nucleo creativo del processo intero: in questa fase per Jung l’esigenza e l’urgenza di dare un senso alle manifestazioni inconsce permette al singolo di creare nuovi significati o nuove associazioni (nuovi perché non appartenenti al patrimonio storico-culturale del collettivo); infine un ultimo stadio, l’integrazione del nuovo, in cui le nuove conoscenze del singolo vengono “consegnate” alla collettività, la quale può rigettarle oppure assimilarle (questa fase risulta interessante per una teoria dei mutamenti storico-culturali).


by Belleri Giuseppe on 26.02.06 at 09:37

Da mesi ormai attorno al tema dell'innovazione si realizzala più completa convergenza di opinioni che si sia mai vista nel dibattito pubblico: politici di ogni parte, sindacalisti, imprenditori, economisti etc.. concordano tutti sulla necessità dell'innovazione come strumento principale e grande occasione per rilanciare l'economia e il sistema Italia. Con quali finalità o senso e per raggiungere quali obiettivi non è chiaro. Il leitmotiv della ricerca per innovazione continua ormai da anni fino a trasformarsi in tormentone e luogo comune giornalistico, buono per tutte occasioni. O meglio una sola motivazione appare chiara ed evidente: la novità è diventata la conditio sine qua no per la crescita economica.

L'innovazione dei prodotti è infatti diventato il principale volano dei consumi privati poichè contribuisce in maniera determinante e quasi magica ad "entropizzare" gli oggetti, soprattutto se ad alta tecnologia e di acquisto non quotidiano. Telefonini, monitor, macchine fotografiche, PC, notebook, programmi informatici etc.. diventano improvvisamente vecchi ed obsoleti non appena esce il nuovo modello, che vanta nuove e accattivanti funzioni per il potenziale acquirente, che probabilmente non verranno mai usate per la nota complessità di interfacciarsi con i sistemi tecnologici. E' ovvio poi che tra mille e mille novità sbandierate dalla pubblicità non si riesca a percepire e valutare l'oggetto o l'artefatto tecnologico che rappresenta davvero un salto di qualità per il suo valore d'uso individuale o collettivo.

Questa appare sempre più la regola che lega scienza e tecnologia alla sfera della produzione e del consumo: ciò che conta e il contenuto di novità di un ritrovato tecnologico, l'innovazione per l'innovazione e chi non si adatta alla regola della nuovo a tutti i costi, poichè si attarda con l'offerta di vecchi prodotti, rischia di sparire dal mercato. Si veda l'esempio della Fiat: per mesi e mesi ha viaggiato sul filo del rasoio della bancarotta fino a quando non ha sfornato le tanto attese novità che ne hanno risollevato le sortii, annunciate con soddisfazione di mese in mese dalle statistiche di vendita. Non conta se le nuove vetture immesse sul mercato aumenteranno i problemi di inquinamento, il congestionamento del traffico, le difficoltà di parcheggio, il rischio di incidenti, i problemi di smaltimento etc.. etc., tutti effetti collaterali dovuti all'assedio delle auto vecchie e nuove. Sembra quasi che la filosofia non detta dell'innovazione per l'innovazione sia diventato il nocciolo autoreferenziale dell'economia, il nuovo ethos che muove il sistema produttivo, così come la conoscenza per la conoscenza era il concetto cardine dell' ethos scientifico descritto a suo tempo da Merton. L'innovazione fine a se stessa rischia di alimentare l'insostenibilità ecologica della crescita, senza la quale tuttavia si rischia l'impoverimento della gente, la disoccupazione e l'aggravarsi dei problemi sociali. Insomma un classico circolo vizioso o meglio una combinazione di vicoli ciechi!

C'e' tuttavia un'esempio di governance dell'innovazione, che può fungere da modello di garanzia per le finalità e la responsabilità pubblica: il mercato farmaceutico. In virtù della presenza del soggetto pubblico, che persegue obiettivi di efficacia, equità ed efficienza nell'allocazione delle risorse scarse destinate alla tutela costituzionale della salute, da un decennio il mercato si è divaricato in due tronconi che, pur tra inevitabili contraddizioni e tensioni tra i vari portatori di interessi, tiene nonostante tutto:
§ da un lato abbiamo il mercato libero e governato unicamente dalla domanda e dall'offerta, che sforna in continuazione nuove molecole - non importa se palliative, "cosmetiche" o effettivamente efficaci - capaci tuttavia di autoindurre la propria domanda e, di riflesso, i budget delle major farmaceutiche, sempre più potenti e in grado di condizionare mercato, consumatori ed apparato tecno-professionale;
§ dall'altro vi è il mercato ristretto e selettivo regolato dal SSN, che è costretto a filtrare con estrema accortezza i farmaci che per effettiva portata innovativa e documentata efficacia clinica possono entrare a far parte della cerchia dei prodotti "prescrivibili" a carico delle casse pubbliche.

Fino ai primi anni novanta non vi era tale distinzione, essendo il mercato "libero" praticamente coincidente con quello coperto dalle casse SSN. La doppia via è sorta proprio per separare le vere e proprie innovazioni dalle (false) novità per la novità, accattivanti per i bisogni dei consumatori virtualmente illimitati, ma insostenibili per la sanità pubblica.
Chiaramente questo modello non e' esportabile in altri ambiti economici dove l'innovazione per l'innovazione e' destinata a restare la ferrea regola del gioco.

Giuseppe Belleri


by Stefano Tomelleri on 26.02.06 at 11:54

L'innovazione tecnologica nel corso di questi ultimi decenni ha conosciuto un'intensa accelerazione in vari ambiti della vita sociale. Uno degli ambiti dove l'impatto delle nuove tecnologie ha avuto delle conseguenze di radicale cambiamento delle pratiche professionali è quello medico. Le innovazioni tecnologiche hanno operato una vera e propria rivoluzione delle pratiche mediche e delle organizzazioni sanitarie. Alcuni medici ospedalieri (chirurghi, anestesisti, rianimatori) in modo specifico e più marcato rispetto ad altri medici (generici o di base) si trovano al centro del cambiamento sociale e culturale che stanno vivendo oggi le pratiche mediche, per l'impatto e l'azione della tecnologia. Durante questi ultimi 15 anni, infatti, il ritmo delle innovazioni tecniche in alcuni reparti è stato vertiginoso. Per esempio, grazie alle tecniche di rianimazione cardio-polmonare, in grado di mantenere in uno stato di vita vegetativa un individuo, la condizione di morte di un paziente è un fenomeno biologico, sociale e culturale più complesso che in passato. Bisogna infatti distinguere tra la morte per scomparsa dell'attività mentale, e la morte per arresto dell'attività polmonare e circolatoria. Questa dissociazione tra le due morti, l'una che mantiene una vita vegetativa, e l'altra definitiva per tutto l'organismo, pone una serie di problemi nuovi, inediti anche rispetto al sapere medico tradizionale. Ormai esiste una disgiunzione tra l'idea di vivere umanamente e quella di sopravvivere biologicamente.
Quando, per esempio, si entra per la prima volta in una terapia intensiva si rimane spaesati dall'immagine di potenza e bellezza della tecnologia. Gli ampi display luminosi, i racks di potenziometri per controllare ogni parametro, i vari apparati strumentali, di cui la maggior parte di noi ignora la funzione tecnica, lasciano immaginare che in quel luogo il sapere medico e tecnoscientifico sia arrivato alla sua frontiera, al limite delle sue enormi possibilità di intervento pronto a spingersi ancora oltre.
Allo stesso tempo, l'immagine di onnipotenza della tecnologia stride con la sproporzione della fragilità umane, esposte alla nudità e alla dipendenza dalle macchine per continuare a sopravvivere. Un tempo l'uomo moriva quando il suo cuore cessava di battere, oggi le frontiere della persona umana sono diventate più incerte e più vulnerabili, strettamente dipendenti dagli sviluppi tecnici e scientifici.
L'emergenza della fragilità umana di fronte ad un'immagine onnipotente della tecnoscienza alimenta da parte dei familiari e dell'opinione pubblica delle aspettative spesso smisurate rispetto alla reale possibilità del medico intensivista o del medico chirurgo di rispondere a una domanda di liberazione dalla sofferenza e dal dolore, che coinvolge anche la dimensione più intima del paziente e dei suoi legami affettivi.
L'investitura del medico come unico artefice e garante della salute, detentore di un potere di conoscenza e controllo del progresso tecnoscientifico, contrasta con l'eterogeneità delle variabili coinvolte, a vario livello, nei processi decisionali medici in situazioni critiche. Anche se sono noti i parametri e gli indicatori di un caso clinico, l'incidenza quantitativa e qualitativa dei vari fattori in gioco non è mai interamente nota, e dunque non è sempre possibile per il medico, soprattutto in casi estremi, determinare con certezza l'esito di un intervento o la probabilità di un evento. L'introduzione di tali innovazioni tecnologiche in ambito medico ha generato situazioni in cui si possono solo quantificare alternative di rischi, se non addirittura situazioni di totale indeterminazione, dove gli effetti terapeutici sono imprevedibili, mettendo in crisi anche i criteri dell'evidence based medicine, fondamento della medicina moderna.
Il circolo vizioso tra fragilità umana, impatto tecnologico e aspettative salvifiche pone i medici nella condizione di compiere delle scelte complesse, in alcuni casi paradossali, che non sempre possono essere comprese nelle rappresentazioni culturali tradizionali di salute e malattia. Ad esempio, l'idea lineare di previsione, controllo e applicazione della tecnologia per la risoluzione della malattia, è messa radicalmente in discussione dalle conseguenze e dagli effetti che l'azione e l'impatto della tecnoscienza hanno sul processo di cura. I casi più emblematici di queste situazioni paradossali sono quelli dei malati nei quali l'intervento estremo della tecnologia strumentale e della farmacologia permette di evitare il decesso ma genera forme di disabilità cronica molto gravi. In questi casi è proprio perché l'apparato tecnoscientifico funziona troppo bene che si creano casi critici: l'azione della tecnoscienza genera il paradosso per cui l'efficacia e l'efficienza dei supporti strumentali e farmaceutici sono esse stesse fonte di problemi.
Esiste ormai una contraddizione tra quantità di vita e qualità di vita, e tra quantità della vita e dignità della morte. Il progetto etico della medicina non coincide con quello della ricerca clinica di lottare contro la morte, perché i mezzi di questa lotta spesso prolungano la vita in condizioni di degrado fisico e mentale.
Gli strumenti tecnologici ridefiniscono il significato e gli orizzonti di senso delle aspettative e delle scelte di interruzione della terapia, come nei casi dei malati terminali e dei pazienti nei quali la guarigione spesso non è più possibile e si tratta di aiutare chi soffre a morire nel modo migliore. Queste nuove sfide della tecnoscienza tendono a mettere in difficoltà il medico, che comunque deve prendere decisioni, nonostante l'intensificarsi della complessità di aspetti tecnici, relazionali, organizzativi e sociali da prendere in considerazione.

Una riflessione sulla responsabilità politica dell'innovazione tecnologica in ambito medico implica allora diversi livelli di criticità.
È noto infatti che ciascun attore sociale si costruisce nel corso delle sua esperienza personale una propria teoria più o meno consapevole dell'azione sociale o, in altre parole, una spiegazione delle proprie scelte. Il senso di un'azione dipende dal significato che un attore sociale riconosce come legittimo in rapporto al proprio contesto locale di azione e in rapporto ai più ampi scenari culturali e sociali di sfondo. Si tratta di costrutti di natura intimamente e costitutivamente sociale e relazionale, perché il senso di un'azione dipende da ciò che il soggetto ritiene legittimo in rapporto alla propria specificità individuale, ma anche al giudizio più o meno espresso degli altri presenti o genericamente immaginati.
A livello relazionale, l'impatto della tecnologia obbliga a una continua negoziazione della relazione di fiducia tra gli operatori sanitari e la rete di familiari. I familiari nutrono aspettative smisurate verso la tecnologia, che devono essere oggetto di un'attenta negoziazione e ridefinizione, tenendo presente che spesso queste aspettative eccessive si accompagnano a un desiderio di rassicurazione che la tecnologia non è in grado di garantire. Anzi, l'azione tecnologica tende con la sua autoreferenzialità ad amplificare ansie e incomprensioni, minacciando le basi della fiducia reciproca.
A livello organizzativo, la frammentazione del processo di cura, dovuta all'iperspecializzazione del sapere medico mette in condizioni antagoniste i medici specialisti, che, come ha scritto Bruno Latour nel suo intervento, difficilmente riescono a condividere versioni contraddittorie dello stesso caso clinico.
A livello sociale, l'impatto della tecnologia genera situazioni di disagio cronico che richiedono competenze territoriali di assistenza che a loro volta implicano una nuova alleanza territoriale tra saperi sanitari e saperi socioeducativi e assistenziali.
In conclusione, vorrei sottolineare che l'impatto dell'innovazione tecnologica può rivelarsi una grande opportunità per costruire insieme ai diversi attori sociali (medici, amministratori, pubblici ministeri, familiari, liberi cittadini) percorsi di riflessione sui grandi temi culturali e sociali di cui sono gli attori protagonisti nella loro pratica quotidiana. Per offrire un quadro più ampio dove collocare il senso delle proprie scelte professionali, abbiamo bisogno di una riflessione partecipata sul rapporto tra aspetti fisiologici, tecnici, organizzativi e i riferimenti agli aspetti comunicativi, valoriali, relazionali e di sensibilità al contesto sociale.

Stefano Tomelleri
Docente di Sociologia
Università degli Studi di Bergamo


by Martino Doni on 03.03.06 at 13:12

Riprendendo le suggestioni di Clemente Iannotta.

Forse potremmo convergere ulteriormente approfondendo l'esempio junghiano da lei proposto.

I La polarizzazione individuale-collettivo, che è in seno alla ricerca di senso (cioè, almeno secondo me, alla base del problema dell'innovazione), ha senza dubbio una connotazione di partenza inconscia. Ma l'inconscio junghiano è collettivo! Dunque l'individuo emerge innovando, producendo distinzione rispetto al continuum non interrogato (inconscio).

II Ciò nondimeno anche la collettività si riconosce solo ex post, dopo l'emersione dell'individuo. Allora si ricostruisce il percorso (lo si ri-formula, come dice lei, lo si ri-racconta), e si riconosce che il punto di partenza era di carattere comunitario.

III Ma questo riconoscimento è costruito, non già dato. E' la distinzione che fa essere la polarizzazione, non viceversa. Pertanto il vero momento innovativo non soggiace all'interno di uno dei due poli, ma è la loro "occasione".

Martino Doni
CeRCo


by Roberto Panzarani on 06.03.06 at 19:38

Proverò ad aggiungere qualche breve osservazione al dibattito molto interessante che si sta svolgendo.
Kant sul suo letto prima di morire pronuncia queste parole "E' sufficiente". Ecco credo sia sufficiente anche per noi . Il nostro paese è allo stremo . L'innovazione è senz'altro un fatto politico nel senso più aristotelico del termine, della politica come partecipazione .
Il politico nell'accezione più comune non ha alcun interesse allinnovazione, sgnifica inatti investire nella ricerca , nella formazione, nella scuola , tutte cose che lo trascendono e quindi il suo interesse per queste tematiche è zero.
Ci vorrebbe appunto una politica diversa che non viene quasi mai attuata a meno che il paese non sia veramente allo stremo. "Fortunatamente " è il nostro caso quindi l'occasione c'è e se non sarà la politica a fare qualcosa lo farà l'economia se vuole andare avanti . Non si tratta di crescere , ma di sopravvivere.

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