Estratto dal blog "Tout se tient"

(ovvero: il blog SPERIMENTALE di Gian Maria Borrello & C.)


Questa pagina è collegata all'intervento di Luciano Butti dell'11 settembre 2005 nella sezione "Argomenti" del sito della Fondazione Bassetti.

sabato, agosto 13, 2005

 Scientific Governance... ?
    Dialogo fra Gian Maria Borrello e Daniele Navarra

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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Annotazioni sui contenuti degli articoli...

- The democratic responsibility of scientific power
- On the governance of scientific innovation (part 1)
- On the governance of scientific innovation (part 2)

... pubblicati nel sito della Fondazione Bassetti

e...

dialogo con l'autore, Daniele Navarra
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Oltre ai tre articoli sopra indicati, altri documenti qui citati, o che possono essere collegati a quanto qui scritto, sono:
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In "The democratic responsibility of scientific power", in apertura, usi l'espressione "public governance of science" e prosegui riferendoti al dibattito sulla "scientific governance". A me pare che il significato di "scientific governance" andrebbe tenuto ben distinto da quello di "governance della scienza". La governance della scienza è politica della scienza, riguarda cioè gli indirizzi da dare all'attività scientifica. La "scientific governance" è una forma particolare di politica della scienza, consistendo nel coinvolgere gli scienziati nelle decisioni politiche. Se la governance diventa solo "scientifica", viene a coincidere con una moderna forma di scientismo.

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"In today's knowledge society science is under pressure to open up and include the opinions of a wider and better informed part of the population with the means to control the work of scientists and participate in the political debate on scientific governance."

Osserverei che la scienza è assediata dalla pubblica opinione perché le persone si rendono conto che il loro benessere, la loro salute, persino la loro vita, dipendono da decisioni che vengono prese in ambito scientifico e pertanto chiedono di avere voce in capitolo; chiedono di conseguenza che la politica faccia sentire la loro voce. La politica, in tal senso, rappresenterebbe una via di accesso riguardo a decisioni che determinano il futuro di tutti. La politica, che adotta (o dovrebbe adottare...) criteri e metodi di governance che non appartengono alla scienza, si farebbe carico di dare il giusto peso alle opinioni di chi è altrimenti escluso dal processo decisionale.

Quindi, il problema non sarebbe soltanto quello di rendere i cittadini meglio informati ("... how can scientists inform citizens better and how can they help to bridge the various communication failures in the formation of public decisions"). Il problema consiste anche nell'adottare metodi per prendere decisioni che non si risolvano in un dialogo esclusivo fra scienziati e politici, ma che nel processo decisionale coinvolgano la società intera, in modo più diretto, e cioè meno delegato.

La percezione del rischio che l' "uomo della strada" ('layman') ha è quasi certamente molto diversa da quella dell'esperto, ma può essere frutto di un giudizio di sintesi che racchiude una visione delle cose che attribuisce dignità ad aspetti, fattori, elementi, che la razionalità scientifica trascura, o considera irrilevanti. In una prospettiva che tenta di concentrarsi sul "come" una decisione debba essere presa affinché sia responsabile, può darsi che la visione dell' "uomo qualunque" sia da considerarsi come degna di maggior attenzione rispetto a quella scaturente dalla razionalità scientifica.

A mio modo di vedere, la questione alla base della governance non è arrivare a una verità che possa essere considerata socialmente accettabile ("... determining which truth can be considered socially acceptable"). La questione consiste piuttosto nel domandarsi quali procedure decisionali siano in grado di tenere in debito conto "voci" diverse da quelle degli esperti tecnico-scientifici, di modo che la decisione risulti legittimata proprio dal metodo democratico seguito. Dopodiché, è vero che la decisione presa in questo modo sarà anche accettata da più ampie fasce della società, ma questa è una conseguenza. I rischi, certamente, sono: da un lato, il populismo; dall'altro, lo scientismo.

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"It is possible to delineate two different abstract principles which guide these decisions. On one hand is the principle of responsibility, which is based the ethical foundation of scientific rationality. A call to the universal principle of giving trust to the experts to provide appropriate representations of the world. This is a clear epistemological choice, opposite to the precautionary principle, which instead rejects this view because, as Testart explains, it would only lead to compromise. His argument is that the scientist himself does not 'know' and, for this reason, is not exempt from prejudices of various types."

La posizione di Testart riguardo al Principio di precauzione è legata a un suo punto di vista radicale in merito alle posizioni politiche degli scienziati. Il nocciolo duro della sua critica al principio di precauzione non penso che risieda nella sua considerazione secondo cui il Principio condurrebbe a soluzioni di compromesso: questa è una conseguenza che egli sì rileva, ma non costituisce il fondamento della sua critica al Principio. Infatti, egli spiega, anche in presenza di un'assenza di dubbi riguardo ai rischi di un'innovazione, i termini del problema non si sposterebbero ("Anche quando si arrivasse a supporre che un'innovazione tecnologica sia esente da rischi potenziali secondo il principio di precauzione, un tale verdetto non sarebbe sufficiente a giustificarne l'uso in piena responsabilità", v. "Gli esperti, la scienza e la legge"). Ciò perché, se è importante capire quando una determinata innovazione comporti, o meno, un rischio e, nel caso, in quale misura, è altrettanto importante dare voce a valutazioni (percezioni) del rischio che non siano esclusivamente frutto della razionalità scientifica.
Sulla valutazione di rischio richiesta per decidere sull'introduzione di innovazioni tecnico-scientifiche esiste molta incertezza e tutto lascia pensare che i casi in cui neppure gli esperti sono d'accordo fra loro siano destinati ad aumentare. Questi sono appunto i casi in cui troverebbe applicazione il Principio di precauzione, ma Testart ritiene che esso abbia un vizio d'origine, sia cioè figlio dell'ottica che attribuisce un ruolo egemonico alla razionalità scientifica tanto quanto le tesi che si contrappongono ad esso.
In ultima analisi, l'obiettivo della critica di Testart non è il Principio di precauzione, bensì quel processo politico-decisionale che si svolgerebbe attribuendo importanza esclusiva a una valutazione scientifica del rischio, una valutazione che non darebbe concreto rilievo a fattori differenti da quelli che gli scienziati prendono canonicamente in esame. Per esempio, a parametri di giustizia sociale.
Infine (e pur sfiorando il paradosso), mi pare che sia possibile aggiungere (anche se non posso dire che sia la mia opinione) che il Principio di precauzione rischia di diventare (se non lo è già) un mezzo di controllo sociale al servizio delle lobby tecnocratiche e scientifiche. Un'idea, cioè, messa a punto per far fronte a situazioni in cui la pubblica opinione potrebbe mettere in crisi attività e iniziative dietro le quali ci sono cospicui investimenti finanziari. In altre parole, uno stratagemma che, ammantando di "scientificità" un atteggiamento demagogico, garantirebbe ai politici il pubblico consenso e, al contempo, riuscirebbe ad esorcizzare il conflitto sociale, a tutto vantaggio dei poteri forti dell'Economia, della Scienza e della Tecnica. La prudenza che si ispira al Principio si disvelerebbe come un modo per far passare il tempo sufficiente a preparare l'accettazione sociale attraverso l'assuefazione, giocando sulla solubilità dell'etica nel tempo.

Ciò detto, riferendomi al punto del tuo articolo che ho citato, ho l'impressione che porre su due versanti contrapposti Principio di responsabilità etica e Principio di precauzione sia un'operazione che necessiti di qualche delucidazione. Se per "Principio di responsabilità" si intende riferirsi a quello elaborato dalla riflessione di Hans Jonas [ 1 ], ciò andrebbe detto. Testart, effettivamente, a un certo punto della sua riflessione (v. "Gli esperti, la scienza e la legge") fa un richiamo al principio etico di responsabilità formulato da Jonas, apprezzandone lo slancio dirimente in contrapposizione alle soluzioni del Principio di precauzione, che egli giudica come frutto di compromesso tra interessi di lobby. Però, non dimenticherei che Testart è un intellettuale al quale importa prima di tutto mettere in luce le ragioni ideologiche e la portata politica di un percorso logico-argomentativo. Esistono altri punti di vista secondo cui i due Principi appartengono a dimensioni epistemologiche tanto distanti da essere imparagonabili, o anche secondo i quali il Principio di responsabilità dev'essere considerato come ispiratore proprio del Principio di precauzione.

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Mi chiedo se l'affermazione "Foresight and the capacity to prefigure a possible future are not typical of the rigor of scientific method" non necessiti di precisazioni. A me pare, infatti, che la scienza si nutra di previsioni, e per l'appunto di previsioni che hanno rigore scientifico (ricerca operativa, simulazioni, modelli matematici, ecc.). Il fatto che previsioni ottenute con rigore scientifico non si avverino appartiene a un ordine concettuale diverso: ciò che conta è che esse possano essere considerate attendibili.
E' vero che le previsioni "should be discussed in the political realm", ma questo non perché esse contrastino col rigore scientifico, ma perché il politico applica (o forse sarebbe meglio dire "dovrebbe applicare") criteri di valutazione che possono essere anche molto diversi da quelli di uno scienziato.

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"It is in the process of democratic responsibility that trust can be created to promote innovations which support the well being of society as a whole".

Penso che parlare di un "processo di responsabilità democratica" all'interno del quale possano essere promosse innovazioni per il benessere della società sia, nel migliore dei casi, un po' vago. Mi vengono in mente le critiche, plausibili, di coloro che guardano con sospetto (essi parlano di "disincanto") a forme di coinvolgimento democratico del pubblico ("i giochi sono già fatti e il coinvolgimento del pubblico serve a chi detiene il potere solo per acquisire legittimazione"). E poi mi viene il dubbio che un processo definito come "di responsabilità democratica", e che sia concepito per generare fiducia nella gente al fine di promuovere innovazioni, possa (senza intenzione, a voler pensar bene) edulcorare le problematiche, rendendole fiacche. E possono sorgere dubbi non soltanto sul suo valore democratico, ma anche sulla sua concreta efficacia (sempre che questa non sia soltanto quella della demagogia...).

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Vengo quindi al secondo articolo, "On the governance of scientific innovation (part 1)", dove leggo che "The definition of a space of governance immune from this pressures is what the advocates of the precautionary principle prescribe".
Non capisco da cosa si tragga l'affermazione secondo cui sarebbero i sostenitori del Principio di precauzione ad auspicare che le decisioni venissero prese in una zona franca, immune da lobby e da pressioni di vario genere. A me, infatti, pare quasi il contrario, e cioè che chi è favorevole a decisioni politiche che siano ispirate al Principio di precauzione lo faccia proprio perché prende atto che non esistono valutazioni del rischio immuni da pregiudizi, che quelle degli scienziati non lo sono e che, quindi, prima di procedere con un'innovazione il cui impatto è critico, sia più saggio soppesare opinioni di diversa origine e contrastanti, adottando di conseguenza un atteggiamento attendista.
Semmai è Testart che, come prima ho osservato, riguardo al Principio la pensa diversamente: dato che non ritiene giusto che chi è chiamato a prendere decisioni su innovazioni scientifiche si conformi all'egemonia della razionalità scientifica, egli sottopone a critica proprio il Principio di precauzione; ma non perché questo sia uno strumento improntato al relativismo culturale, bensì perché lo considera un derivato della stessa ottica che, in ossequio alla razionalità scientifica, privilegia l'opinione degli esperti. Direi che, a parere di Testart, la precauzione assurta a Principio è diventata un modo compromissorio con cui gli scienziati darebbero una giustificazione --la prudenza appunto-- alla loro incapacità di fornire indicazioni sugli effetti negativi di un'innovazione. E, in quest'ottica, la precauzione diviene un disvalore quando occulta i problemi invece di farli emergere.
Ad ogni modo, se lo spazio immune da pressioni di lobby è individuato nelle Conferenze di cittadini [ 2 ] tipiche della democrazia deliberativa, le guarentige e le attenzioni di metodo e di procedura, messe a punto per questo genere di iniziative, rappresentano una risposta alle critiche di coloro che, nella riproduzione "in vitro" della dinamica reale delle forze sociali, vedono nient'altro che novelle forme di demagogia e di controllo sociale.

Da ultimo.

In "On the governance of scientific innovation (part 2)" affermi che "an emerging trend sees governments around Europe to give less support for basic research in the public sector, while considering research that lead to faster commercialisation both a way to generate good science as well as strong economic growth." e di conseguenza affermi che "if science becomes involved in the formulation of complex political decisions, even if scientists do not have any responsibility of the impact of their discoveries, the outcome could be more irresponsibility rather than less".
Osserverei che questo è il tema del conflitto d'interesse [ 3 ]. Non ti pare?

Nella conclusione dello stesso articolo riprendi il termine "failures" in relazione al mercato e in un'ottica di sistema. C'è un'analogia col concetto di "asimmetrie informative" tipico degli studi sul mercato?
Potresti rendere più esplicito a che fenomeno, o a quali accadimenti, intendi fare riferimento parlando di "failures"?

---> Continua: il post di Daniele Navarra del 23 agosto
e il
---> post di Gavino Zucca del 26 agosto

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Estratti dall'articolo, di Jacques Testart, "Gli esperti, la scienza e la legge", che trovo presentino attinenze con quanto detto sin qui
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«Gli scienziati valutano i potenziali rischi di una nuova tecnologia soprattutto rispetto alla salute dell'uomo e all'ambiente: i risultati di questa valutazione costituiranno poi la base concreta su cui si fonderà la decisione politica. Tra la scienza e la legge, non c'è quindi nessun elemento intermedio, o quasi. I cittadini, in nome dei quali questa innovazione dovrebbe essere introdotta, ne restano in larga misura esclusi: sono l'anello mancante della catena.»

«La deriva della ragione semplificatrice, che dimentica la complessità dei fenomeni analizzati, comincia nel momento in cui si concede la qualifica di esperti esclusivamente allo scienziato, all'ingegnere, o anche all'economista, trascurando tutti gli altri saperi che pure concorrono alla conoscenza.»

«A meno che non si voglia affermare la competenza del politico anche in ambiti quali sensibilità, emozione, umanità, rapporto con la natura, gioia e dolore - tutte qualità che non hanno concorso alla sua nomina o elezione - , tra valutazione tecnica e decisione di diffondere una tecnologia resta, volutamente vuoto, un vasto campo di valori.»

«Tutto avviene come se la comune devozione all'impresa tecnologica non ammettesse dubbi sui suoi vantaggi, e concedesse solo la fatica di verificarne l'innocuità.»

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Miei schemi mentali e riduzioni
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Scientific governance
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Se per "scientific governance" si intende "governance delegata agli esperti scientifici (o rimessa in buona misura agli esperti)", parlare di "scientific governance" significa discutere del ruolo degli esperti scientifici nella formazione delle decisioni pubbliche.

Olivier Postel-Vinay afferma che il Principio di precauzione non è principio di prudenza. Il primo si applica quando la scienza è incerta sull'esistenza di un rischio. Si veda il suo articolo apparso su La Recherche, n. 341, Aprile 2001 (Francia) e tradotto su Internazionale n. 380 del 6 aprile 2001.

Jacques Testart è refrattario rispetto al considerare la scienza come sorgente di indicazioni decisionali.
Le decisioni frutto di razionalità scientifica non sono da considerarsi per ciò stesso giuste.
Nel raggiungere una decisione che riguarda tutti, una decisione politica, quello che è primariamente importante è il metodo. Scienza, Politica ed Etica seguono metodi profondamente diversi, e dev'essere così.
Il metodo (decisionale) è, per la politica, fonte di legittimazione.
E' importante disvelare i fondamenti di una decisione, a maggior ragione quando questa ricade nel campo della cosiddetta "scientific governance".

I due articoli di Riccardo Viale "L'onorevole non crede alla scienza" e "Scienza e politica, dialogo fra sordi" contengono una definizione di "scientific governance".
Viale afferma che non v'è concordia nelle valutazioni di analisi del rischio. Un motivo di questo sta nel fatto che ci sono istituzioni scientifiche più permeabili rispetto ad altre alle pressioni di carattere sociale e politico. Il Principio di precauzione è figlio delle istituzioni più permeabili.
Le decisioni politiche che danno ascolto alle istituzioni più permeabili propendono per tesi di tipo relativista.

Nell'articolo "L'onorevole non crede alla scienza", Viale fa un riferimento all'Epistemologia sociale mostrando come la "corrente costruttivista" (Fuller) abbia lo scopo di decostruire le tesi, individuandone le componenti prescrittive, mentre Alvin Goldman ritiene che scopo dell'Epistemologia sociale sia guidare le policy di produzione e utilizzo della conoscenza empirica. In ciò si coglie la componente prescrittiva dell'Epistemologia sociale. Ma l'Epistemologia sociale ha anche una componente valutativa, nel senso che essa serve alla scienza per salvaguardare la propria autonomia dalle influenze inquinanti di tipo ideologico e politico. Goldman fa anche delle proposte riconducibili al concetto di "mercato trasparente".

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Note in calce
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[ 1 ]
Hans Jonas, Il principio responsabilità: un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1993 [1979]. Si veda, nel sito della Fondazione Bassetti, la relativa voce nella Bibliografia a cura di Corrado Del Bò
[ 2 ]
Jacques Testart dà un'esauriente spiegazione del loro funzionamento in: "L'intelligenza scientifica e la democrazia partecipativa".
Si vedano anche:
- "Dell'uso improprio del sondaggio, della sua carica deresponsabilizzante e dei possibili correttivi" (Rassegna stampa di Luglio 2002, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
- "Democrazia e sondaggi. Il 'metodo Fishkin' " (Rassegna stampa del 29 maggio 2003, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
- "Democrazia deliberativa: Bosetti, Amato, Enzensberger, Lehmann" (Rassegna stampa del 29 luglio 2003, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
- " Dalla democrazia di Pericle ai 'sondaggi deliberativi' " (Rassegna stampa del 4 dicembre 2003, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
- "Che cos'e' la 'democrazia deliberativa' " (Rassegna stampa del 9 dicembre 2003, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
[ 3 ]
Per "conflitto d'interesse" si intende quando un ricercatore, uno scienziato, ha una qualche forma di interesse finanziario nel campo di studi di cui si occupa. Nel sito della Fondazione Bassetti si veda "Il conflitto di interesse nella scienza".

---> Continua: il post di Daniele Navarra del 23 agosto
e il
---> post di Gavino Zucca del 26 agosto


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martedì, agosto 23, 2005

 posted by Daniele Navarra

--- posted by Daniele Navarra ---

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---> Segue dal post di Gian Maria Borrello del 13 agosto

Sono lieto di affrontare in questo spazio alcuni dei temi degli ultimi articoli pubblicati nel blog 'Innovation, Risk and Governance' che curo all'interno del sito della Fondazione Bassetti. Mi accingo dunque a fare alcune considerazioni, tendendo però presente che queste rappresentano il mio punto di vista personale.

Innanzi tutto, a mio avviso la politica andrebbe intesa come luogo di riconciliazione, un 'topos' dove si sviscerano e ponderano argomentazioni dalle quali scaturiscono decisioni che dovrebbero mirare al raggiungimento del benessere della società nel suo insieme e delle comunità che questa racchiude. In tal senso la razionalità (se si può descrivere in questi termini) politica e quella scientifica corrono su due binari diversi, ma a volte (aggiungerei) per certi versi complementari. Le competenze scientifiche e le opinioni politiche sono entrambe rappresentative delle comunità politiche e scientifiche che fanno parte della società sopra descritta. Ma a mio avviso entrambi i termini sono usati in modo assai vago, senza considerare che anche nella politica vi e' scienza e anche nella scienza vi e' politica. La politica, ed in particolare quella espressa dai rappresentati dei cittadini e che ha il mandato elettorale di governare, dovrebbe essere all'altezza di rappresentare al meglio la volontà di coloro che rappresenta.

La scienza in tal senso e' molto diversa e per questo terrei a precisare che l'utilizzo dei termini 'governance of science' e 'scientific governance' sono spesso usati in modo complementare. In risposta al quesito posto, e con riferimento all'articolo citato, direi che i due termini potrebbero anche essere intesi in maniera esattamente opposta a come vengono esposti nell'introduzione di questo dialogo, ma in realtà non e' cosi. Quindi la 'governance of science' si può sintetizzare nel rapporto che governa le interazioni tra la scienza e la politica, mentre la 'scientific governance' invece si riferisce ad una particolare capacità della scienza di potere fornire di volta in volta degli elementi alla politica, sui quali ponderare scelte cruciali per il benessere della collettività. Di questi esempi ne vengono citati diversi negli articoli, tra cui le modalità deliberative (o 'feedback') che vengono utilizzate in tal senso. Pur condividendo la necessità di distinguere tra i due termini noto come nel loro uso (o comprensione) comune vi sia un'associazione con un qualche tipo di attività politica. Ma in tal senso forse l'Italiano e' meno ricco di termini dell'Inglese (una delle poche circostanze) dal momento che la politica come 'politics' e la politica come 'policy' rappresentano due diversissimi ambiti di attività e necessitano dei distinguo con la D maiuscola.

'Politics' e tutto cio' che in Italiano viene inteso come politica nelle sue innumerevoli sfaccettature che includono la divisione dei poteri dello stato, le modalità di voto ed i partiti, le coalizioni di governo. 'Policy' dall'altro lato e' un termine più ambiguo, ecco alcune definizioni fornite dall'Oxford English Dictionary:

- Government, administration, the conduct of public affairs; political science
- Political sagacity; prudence, skill, or consideration of expediency in the conduct of public affairs; statecraft, diplomacy; in bad sense, political cunning
- A course of action adopted and pursued by a government, party, ruler, statesman, etc.; any course of action adopted as advantageous or expedient.

III. 8. attrib. and Comb., as (sense 5) policy decision, document, -maker, -making, statement; policy-making adj.; policy science (see quot. 1951); hence policy scientist. 1960 I. JEFFERIES Dignity & Purity iv. 66 Their purpose is the application of scientific method to policy decisions. 1964 GOULD & KOLB Dict. Soc. Sci. 510/1 Current interest centres on such questions as the nature of policy decisions... Policy decisions are contrasted, for instance, with judicial decisions by reference to the relatively greater freedom of choice in the former. 1974 S. GULLIVER Vulcan Bulletins 11 A policy decision had meant more careful buying. 1976 Burnham-on-Sea Gaz. 20 Apr., Mr Shore..can hardly have had time to read the policy documents before he was expected to stand up and defend them in the House. 1943 J. S. HUXLEY TVA xix. 137 The Board was always a policy-making body. 1946 Nature 9 Nov. 646/1 Authoritative information which those..at the policy-making or executive level might be expected to need. 1950 N.Y. Times 20 Apr. 1/3 The cataloging of persons eligible for policy-making positions would be..done without regard to their party affiliations. 1968 E. A. POWDRILL Vocab. Land Planning ii. 5 Policy~making and technique are a symbiosis, but it must be supported by wise and sound administration. 1951 H. D. LASSWELL in Lerner & Lasswell Policy Sciences i. 4/1 We may use the term 'policy sciences' for the purpose of designating the content of the policy orientation during any given period. The policy sciences includes (1) the methods by which the policy process is investigated, (2) the results of the study of policy, and (3) the findings of the disciplines making the most important contributions to the intelligence needs of the time. 1964 I. L. HOROWITZ New Sociology 30 Sociology cannot be a ?policy science? 1970 Nature 19 Sept. 1189/2 There will have to be changes in the ways in which ?prime television time? is allocated so that the policy scientists can have their say..when people are most likely to be glued to their television sets. 1979 Bull. Amer. Acad. Arts & Sci. Mar. 28 International consultants and policy scientists serve as the conveyors and preservers of these untested staff papers until their ideas, approaches, and methodologies develop a life of their own.

Questo ci ricollega al principio di precauzione. Devo ammettere che non mi stupisce (al contrario) il fatto che gli esperti non siano d'accordo sui temi fondamentali della scienza e della ricerca, che i risultati degli studi siano a volte contraddittori ed idiosincratici e che non vi sia una fonte 'sicura al 100%' su quale si possa stabilire l'impatto relativo all'introduzione di un innovazione tecnologica sul lungo periodo. A un economista (e statista) come Keynes questo poco sarebbe importato dal momento che 'over the long term we are all dead'. Di conseguenza riterrei che se un giorno si dovesse raggiungere la certezza scientifica 'al 100%' questo rappresenterebbe l'inizio della fine della democrazia come la conosciamo oggi e come avremmo voluto che fosse ieri.

Di conseguenza fare un leitmotiv (che molti hanno gia' fatto e che e' un dibattito continuo sul quale probabilmente non posso intervenire se non nel riconoscere il bisogno di un dibattito costruttivo su questi temi) sulla validità o meno del principio di precauzione mi pare molto vago nei termini discussi finora in questo contesto che ci porta lontano da altri problemi. Il principio di precauzione si basa su una importante verità dei processi di ricerca (ma anche per certi versi dei processi di decisioni politiche), naturalmente con i dovuti distinguo e senza piombare nelle insidie della generalità. In entrambi i casi si possono riscontrare giudizi, ideologie e valori. La ricerca che porta allo sviluppo di una tecnologia e ad i suoi effetti non e' del tutto esente. Nella concezione 'ideale' della scienza che ho esposto questo non dovrebbe accadere, ma non significa chiudere gli occhi e non chiedersi innanzi tutto: chi ha prodotto le informazioni? Chi ha pagato la ricerca? In che modo i valori vengono tradotti nello sviluppo delle innovazioni (sociali e tecnologiche)? Per chi i risultati sono importanti e chi ne beneficia?

L'irresponsabilita' sistemica sulla quale mi sono soffermato in 'On the Governance of Scientific Innovation and the Avoidance of Irresponsibility' prende in esame proprio il fatto che la conoscenza, e tutto cio' che la nutre, risulta da una molteplicità ('the old and the new') che non svilisce e non nega dignità ad alcun punto di vista. Tengo a riscontrare che non e' forse anacronistico discutere di questi principi soltanto in questi termini dal momento che viviamo nella società della conoscenza? Non sarebbe il caso che entrambi vengano aggiornati in luce dei nuovi processi in atto (o meglio dire emergenti) in questo tipo di società. La definizione in atto di nuove procedure di democrazia deliberativa, che coinvolgono la società civile in esperimenti di forum e discussioni 'on-line' e 'off-line' non stanno forse cambiando il panorama decisorio anche da un punto di vista politico? Mi sembra un punto di non poco conto dal momento che da come esponi 'l'anello mancante', cioè il punto di vista dei cittadini, che sono anche state discusse nella prima parte di 'On the Governance of Scientific Innovation and the Avoidance of Irresponsibility':

"Citizens armed with new sources ok knowledge over the internet, civil society groups representative of various public and private sector stakeholders, networked individuals and other 'knowledge agents' are gaining increased recognition as a result of their ability to be more responsive to the challenges posed by the knowledge society".

Le istituzioni ed il governo nella società della conoscenza non sono più basati come un tempo sul 'monologo', ma sul 'dialogo' sulla capacità di capire e aprire il 'fare' policies. Questa nuova apertura riguarda anche il 'design of a new policy mix for the governance of issues of collective concern and to reach a broad based agreement for decisions regarding the emerging opportunities and threats in the field of science and technology'. Di conseguenza dal momento che (almeno da un punto di vista teorico) nella società della conoscenza anche 'l'anello mancante' della catena dei processi decisionali può essere espressa attraverso la partecipazione resa possibile dalle tecnologie della informazione e comunicazione vi e' la possibilità che tale coinvolgimento possa ridurre le 'failures' relative ai processi decisionali della democrazia tradizionale, ma allo stesso tempo non vengono del tutto eliminate durante la fase di transizione.

Infine, non e' nuovo il corollario che il governo (e per certi versi anche la governance) esiste del momento che altrimenti il mercato da solo fallirebbe. Ma prioprio per questo la scienza contribuisce all'identificazione di rischi che altrimenti non verrebbero presi in esame dalla classe politica. In tale processo, che e' in tutto e per tutto una innovazione di grandiosa portata (come d'altronde ci mette in guardia Beck), bisogna stare attenti al ruolo giocato da alcuni 'esperti' (e da coloro che si credono tali) nella fabbricazione di rischi che inducono un bisogno collettivo e radicalizzano gli aspetti che meglio fanno il gioco degli interessi di chi li 'ingaggia'. Ed e' proprio quando non abbiamo piu' bisogno di porre domande, dal momento che conosciamo gia' le risposte, che siamo seriamente a rischio ed in questo sta la miopia di una tecnocrazia che non si confronta con la scienza e con la politica.

"That is precisely where the future of democracy is being decided: are we dependent in all the details of life-and-death issues on the judgment of experts, even dissenting experts, or will we win back the competence to make our own judgment through a culturally created perceptibility of the hazards? Is the only alternative still an authoritarian technocracy or a critical one? Or is there a way to counter the incapacitation and expropriation of daily life in the age of risk?"

(Beck, 'World Risk Society')

La responsabilità democratica e' dunque una responsabilità collettiva che induce a prendere sotto considerazione critica qualunque fonte di informazione prima che questa venga utilizzata come attendibile per basare una policy di grande impatto sociale, e non solo nel campo delle innovazioni tecnologiche. Ne consegue che il 'come' non si può discutere in maniera dissociata dal 'chi', the ultimate question: Chi decide dunque su queste innovazioni? E chi dovrebbe decidere? Su cosa? Gli esperti? Il governo? I politici? Direi che e' la società che dovrebbe decidere, nel suo insieme composta da tutti i gruppi sopra elencati compresi i cittadini e tutti coloro che sono interessati a partecipare in un dialogo costruttivo che possa favorire processi e risultati per il bene della collettività. Ma allo stesso tempo ci sono nuove sfide anche per rendere questi processi a beneficio di tutti coloro che ne sono coinvolti e nella società della conoscenza le decisioni prese in un punto del pianeta hanno un risvolto globale. Esiste dunque un problema di rappresentanza globale che e' tutta da definire alla luce di queste considerazioni. Un problema che si riscontra anche nello studio 'Modern Biotechnology in LDCs: Governing innovation in India's Agricultural Markets'
e che sarei lieto di approfondire con i lettori.

---> Continua: il post di Gavino Zucca del 26 agosto


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venerdì, agosto 26, 2005

 Scientific Governance? Intervento a commento del dialogo fra Gian Maria Borrello e Daniele Navarra

--- posted by Gavino Zucca ---

--- Permalink (da utilizzare per segnalare questo post) ---

---> Segue dal post di Daniele Navarra del 23 agosto
e dal
post di Gian Maria Borrello del 13 agosto

Dopo aver letto i tre articoli di Daniele Navarra e il successivo intervento di Gian Maria Borrello, vorrei esprimere alcuni commenti, con particolare riferimento al Principio di Precauzione (PdP).

Mi sembra che siano sostanzialmente due le osservazioni avanzate da Borrello su questo tema:
1) la contrapposizione, prospettata da Navarra (e desunta dall'articolo di Jacques Testart del 2000), fra una presa di decisione basata sul principio di responsabilità da un lato, e una fondata invece sul principio di precauzione dall'altro
2) l'affermazione di Navarra sulla richiesta, da parte dei fautori del PdP, della definizione di uno spazio di governance immune da pressioni di vario genere

Su entrambi i punti mi trovo in piena sintonia con i commenti avanzati da Borrello, e a quanto già da lui espresso vorrei aggiungere alcune ulteriori considerazioni.

1) Rapporti tra PdP e principio responsabilità.
Se il principio di responsabilità cui si fa riferimento è, come specificato anche da Testart, una diretta derivazione di quanto enunciato da Hans Jonas, credo che la storia e l'evoluzione del PdP testimonino maggiormente a favore di una filiazione più o meno diretta di quest'ultimo dal primo piuttosto che di una loro contrapposizione. Non si deve dimenticare infatti che il PdP nacque nella Germania dell'Ovest degli anni '70 (il Vorsorgeprinzip), in un periodo in cui l'opinione pubblica era scossa a causa della scoperta di alcune grosse minacce all'ambiente naturale, come il fenomeno delle piogge acide. Il Vorsorgeprinzip riconosceva la necessità da parte delle autorità governative di intervenire per la salvaguardia dell'ambiente, in un'ottica di cura e protezione per le generazioni presenti e per quelle future, anche in mancanza di prove scientifiche sufficientemente certe sull'effettiva esistenza di una relazione tra una determinata causa e un effetto ambientale.
Può essere utile osservare che il termine tedesco Vorsorge combina la cautela con il prendersi cura del futuro, ed è composto dal prefisso vor, che indica un anticipo temporale, e Sorge, che significa preoccupazione, pensiero, apprensione, ma anche cura, premura, sollecitudine. Corrispondentemente, il verbo vorsorgen significa sostanzialmente preoccuparsi e prendersi cura di qualcosa in anticipo. C'è qualcosa di più e di diverso rispetto alla semplice azione preventiva: una sorta di cura del futuro, nell'idea che si abbia la responsabilità di gestire bene ciò che abbiamo ricevuto dai nostri antenati per consegnarlo alle generazioni future in condizioni possibilmente non peggiori di come l'abbiamo trovato. Non si può non vedere in tutto ciò, a mio parere, un legame con l'idea di Jonas di una responsabilità etica verso le generazioni future.
Bisogna tuttavia ammettere che successivamente il PdP ha subito un'evoluzione, frutto anche di compromessi fra diverse culture e realtà nazionali, che ne ha modificato l'iniziale slancio, pur senza arrivare a stravolgerne il significato. In particolare, in ambito anglosassone si è sviluppata una differente concezione, basata sulla richiesta di prove scientifiche e razionali forti per giustificare la richiesta di misure precauzionali. In sintesi, semplificando al massimo, a una iniziale concezione tedesca di stampo politico-sociale, se ne affiancò e oppose una seconda fondata su un approccio scientifico-razionale:
· Approccio politico-sociale:
   - intervento diretto delle autorità, anche in mancanza di prove scientifiche
   - definizione relativamente forte del principio
   - attenzione alle preoccupazioni dell'opinione pubblica
· Approccio scientifico-razionale
   - visione debole del principio
   - giustificazione dell'intervento mediante valutazioni scientifiche e razionali costi-benefici delle misure precauzionali e della loro efficacia

La posizione della Commissione Europea, espressa nella famosa Comunicazione del 2-2-2000, può essere considerata una sorta di compromesso fra queste diverse concezioni, resosi necessario anche per far fronte a possibili accuse di protezionismo o di chiusura alle regole del libero scambio imposte dal WTO. Se è forse vero che da un lato l'iniziale slancio, volto alla "cura del futuro", sembra essere in parte perduto a favore di una maggiore attenzione alla giustificazione scientifico-razionale degli interventi precauzionali, è anche vero che resta il richiamo all'enunciato della Dichiarazione di Rio e la comunicazione resta fedele, in generale, all'idea della precauzione come azione preventiva in situazioni in cui le conoscenze scientifiche sono insufficienti o assenti.

Proprio a questo proposito, l'articolo di Jacques Testart, cui fa riferimento Navarra, fa sorgere qualche perplessità, come ad esempio quando imputa alla Commissione Europea la definizione di regole di implementazione del PdP che riconoscono alla valutazione scientifica lo statuto di conoscenza incontestabile, sufficiente per l'elaborazione delle decisioni politiche, ed escludono al processo decisionale qualunque altro tipo di sapere. A questo proposito, ritengo utile richiamare alcuni punti della Comunicazione:

"Giudicare quale sia un livello di rischio 'accettabile' per la società costituisce una responsabilità eminentemente politica. I responsabili, posti di fronte ad un rischio inaccettabile, all'incertezza scientifica e alle preoccupazioni della popolazione, hanno il dovere di trovare risposte. Tutti questi fattori devono quindi essere presi in considerazione.
(...) La procedura di decisione dovrebbe essere trasparente e dovrebbe coinvolgere tutte le parti interessate, quanto più precocemente e quanto più ampiamente possibile."

"I responsabili debbono costantemente affrontare il dilemma di equilibrare le libertà e i diritti degli individui, delle industrie e delle organizzazioni con l'esigenza di ridurre o eliminare il rischio di effetti negativi per l'ambiente o per la salute."

"L'applicazione del principio di precauzione appartiene, invece, alla gestione del rischio, quando l'incertezza scientifica non consente una valutazione completa di tale rischio e i responsabili ritengono che il livello prescelto di protezione dell'ambiente o della salute umana, animale o vegetale possa essere minacciato."

Senza entrare ulteriormente nel merito, si può osservare come la Commissione riconosca la necessità di un coinvolgimento delle parti interessate, e che la decisione di applicare il PdP sia eminentemente politica. L'assegnazione del PdP alla fase di gestione del rischio, e non a quella di analisi del rischio, risponde del resto proprio a questa impostazione.

Certo, nella comunicazione esiste una ambiguità non risolta che riguarda il processo di definizione di un rischio potenziale. Chi riconosce i rischi potenziali? E chi stabilisce che i rischi potenziali siano plausibili? La comunicazione assegna un ruolo importante alla valutazione scientifica, ma soprattutto in relazione alla decisione circa quali misure intraprendere, poiché è nella natura di questi rischi potenziali che le conoscenze scientifiche in merito siano insufficienti o inconcludenti al fine di poterne stabilire la plausibilità. Tuttavia un ricorso ad analisi scientifiche è inevitabile anche da un puro punto di vista politico, non fosse altro che per far fronte alle possibili accuse di protezionismo o di violazione delle regole del WTO. E l'uso di tutta la conoscenza scientifica disponibile, per quanto incompleta, è fondamentale per la definizione di risposte adeguate. L'attivazione del PdP richiede infatti che i rischi cui si vuol far fronte siano plausibili e le misure adottate siano adeguate. Il problema in realtà non è quello di un uso della conoscenza scientifica, ma di integrare nelle decisioni politiche tutti i possibili tipi di conoscenza che possono essere utili per prendere una decisione che sia buona da un punto di vista adattativo. E a questo proposito non si può dimenticare che al di là della comunicazione, è proprio in Europa che sono nate e si stanno sempre più diffondendo iniziative di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini guidate anche dagli stessi governi (si veda, per fare solo un esempio, il dibattito GM Nation? in Gran Bretagna).

2) Anche per ciò che concerne la definizione di uno spazio asettico concordo con il commento di Borrello. Il PdP, se bene inteso, parte proprio dal riconoscimento della incertezza di qualunque conoscenza (non solo scientifica) in merito a una qualche attività. I sistemi in cui dovrebbe trovare applicazione il PdP sono pertanto, a mio parere, gli stessi a cui fa riferimento la cosiddetta "scienza post-normale", secondo la definizione introdotta da Silvio Funtowicz e Jerome Ravetz. In tali sistemi, in cui:
· i fatti sono incerti
· i valori sono in disputa
· le poste sono molto alte
· la decisione è urgente
la soluzione può essere trovata solo in maniera collegiale, utilizzando tutte le forme di conoscenza che siano in grado di apportare qualche contributo utile. Nessuna conoscenza da sola è sufficiente, e le considerazioni di valore diventano fondamentali accanto a quelle fondate sui fatti. In altri termini, i fatti scientifici non sono più sufficienti, sia perché incerti (fatti morbidi), sia perché è necessario anche tener conto dei giudizi di valore su questioni fondamentali (valori duri). In tal modo siamo sempre più spesso di fronte alla necessità di dover prendere delle decisioni urgenti su questioni di fondamentale importanza basandoci su fatti morbidi (incerti, discutibili, non del tutto verificabili) e dovendo fare i conti con valori duri in contrasto fra loro, mentre le poste in gioco sono molto elevate. Questo è l'ambito di applicazione del PdP, ottimamente descritto dalla metafora della favola indiana del "sentire l'elefante" proposta da Funtowicz: cinque uomini ciechi cercano di capire quale oggetto stiano toccando. Ognuno di essi ha una visione parziale e crede di riconoscere da questa un oggetto differente dalla realtà (ad esempio, la zampa è un albero, la proboscide un serpente). Solo un osservatore esterno può formarsi un'idea esatta della situazione, ma quando non vi è alcun osservatore esterno un risultato simile, o almeno paragonabile, può essere conseguito mettendo insieme tutte le osservazioni, con in più la consapevolezza di ciascuno che la propria è una visione parziale e limitata. Questa è una delle idee base della scienza post-normale. La ricerca di soluzioni politiche a problemi tecnologici e scientifici complessi richiede una partecipazione estesa in cui è importante non solo la soluzione trovata, ma anche il processo che ha condotto ad essa. Un'altra delle idee fondamentali è che intorno a ciascun problema vi è una molteplicità di prospettive legittime. Ogni sistema complesso può essere studiato solo a costo di inevitabili approssimazioni e troncamenti, e ogni scelta di questo tipo comporta naturalmente delle differenze nel modo in cui si osserva il sistema, e nella particolare visione che se ne ha. Non vi è nessuna prospettiva particolarmente privilegiata.

Certo, chi richiede un'applicazione forte del PdP non aderente alla Dichiarazione di Rio potrebbe anche essere portato a credere nell'esistenza di uno spazio di decisione "puro", in cui magari basta semplicemente bloccare una attività per risolvere ogni cosa. Uno spazio in cui sia possibile prendere decisioni pienamente razionali, in cui ogni alternativa viene esaminata, e di ognuna è possibile definire le possibile conseguenze di cui possono essere quantificati gli effetti. Il risultato sarebbe una ideale decisione ottimale. Tuttavia, anche solo la considerazione dei limiti della nostra razionalità rende utopistico questo tipo di approccio, per non parlare della complessità del compito richiesto e della incertezza di tutti i dati che sarebbero necessari per prendere una simile decisione.
Però, se la decisione ottimale razionale è impossibile da conseguire, quella che invece si può cercare di conseguire è invece una decisione "buona" in senso adattativo, ovvero una decisione in grado di garantire il successo, o quanto meno di evitare l'insuccesso, del gruppo che la prende. E una buona decisione in queste condizioni può essere solo quella che deriva dall'utilizzo di tutte le conoscenze pertinenti e dall'adattamento dei livelli di aspirazione di tutti coloro che a tale decisione sono interessati. Le procedure partecipative (non solamente consultazione, ma partecipazione vera e propria) rappresentano probabilmente la strada più promettente per ottenere queste buone prese di decisione sociale.
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