Invito a commentare la Platform

( 26 January 2005 )
( posted by Cristina Grasseni )

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Le tesi di Daniel Callahan a proposito del problema della sostenibilità della medicina, intesa come ricerca, pratica medica e sistemi sanitari nazionali, sono esposte nel documento (piattaforma) sopra riportato, ed estesamente argomentate in numerose pubblicazioni tra cui La medicina impossibile, tradotto in italiano per Baldini e Castoldi, 2000. Considerarle seriamente significa apprezzare tutte le implicazioni morali della responsabilità nell’innovazione, e impone di affrontare con chiarezza epistemologica gli impliciti politici della riflessione etica sulla sostenibilità.

La discussione che qui invitiamo dovrebbe contribuire a valutare tutti questi aspetti, come anche la difficile applicabilità di tali tesi in termini di governance e di policy, senza rifuggire da una necessaria riflessione sui loro aspetti più controversi. Si tratta di riflessioni e di temi che non mancano di suscitare ampi e accesi dibattiti nella nostra società, dal ruolo che lo stato dovrebbe ricoprire nel garantire la salute pubblica, all’incidenza della spesa farmacologica, ai diritti dei cittadini alla salute e all’assistenza sanitaria.

A partire da una riflessione sui costi, a suo avviso insostenibili, della forma attuale assunta dalla ricerca, dalla tecnologia e dai sistemi di assistenza sanitaria, Callahan indica le vie della prevenzione, attuata attraverso una "riduzione dei problemi sociali e ambientali, oggi considerati le fonti più significative di infermità, malattia e morte prematura" (p. 39) e della "maggiore responsabilità personale" alla ricerca di un "bene sanitario comune". È un ripensamento antropologico globale che, annuncia Callahan richiede di "cambiare la visione dell’io" (p. 44). È chiedere troppo?
      Con quali strumenti di consultazione e di informazione si possono prendere decisioni di policy sui limiti dell’intervento medico e sanitario?
      Quali sono i criteri, oltre a quello dell’età, che potrebbero informare decisioni al limite dell’eticità, come quello di sospendere trattamenti o sostituirli con misure palliative come policy corrente?
      Dove si colloca rispetto a ciò l’idea di consenso informato e di volontà del paziente?
      Come evitare fattori di discriminazione e di coercizione?
      Come preservare un’ideale di contratto morale della società con il cittadino, per cui quella non dovrebbe disertare questo nel momento del maggior bisogno?
      E chi dovrebbe decidere le linee guida del comportamento dei medici, che sono e rimangono centrali nella loro capacità di mediare tra paziente e farmaco, tra cittadino e sistema sanitario?

Per esempio, tra le molte misure e strategie proposte per tracciare i limiti e gli obiettivi di quella che dovrebbe essere una "medicina sostenibile", Callahan raccomanda di riconoscere una priorità modesta all’assistenza medica contro l’infertilità e di intervenire piuttosto con misure di sanità pubblica e di informazione: "le donne devono sapere che la diminuzione della fertilità può essere causata dalla procreazione ritardata" (p. 282). Ma come collocare l’erogazione di pura "informazione" in una realtà sociale in cui la realizzazione professionale è un valore riconosciuto, che richiede però un alto tasso di scolarizzazione e lunghi periodi di precariato, mentre si accompagna a poche garanzie sociali di promozione professionale e di assistenza alle giovani madri? In questo caso come in altri, allo stato attuale delle cose la medicina è chiamata a provvedere un technological fix a problemi che non nascono dalla semplice fisiologia biologica del corpo, ma dalla sua gestione sociale e politica.

In questo come in altri aspetti dell’assistenza medica che toccano aspetti così fondamentali del senso e della qualità della vita umana, quali la fertilità, l’aspettativa di vita, l’equità del trattamento sanitario, negare la "soluzione tecnologica" a chi la chiede - e soprattutto quando essa è percepita come "a portata di mano" - senza affrontare il problema di come migliorare le politiche del corpo, significherebbe seminare ragioni di discordia sociale e di effettiva discriminazione. Una riflessione seria sulla sostenibilità della medicina ci impone quindi un’altrettanto impegnativa riflessione su quale ideale di convivenza sociale, quale modello antropologico del paziente e quale modello politico del cittadino si designa come obiettivo di tale riforma. Quale ideale di "naturalità" del ciclo vitale è compatibile con la riflessione di Callahan, e quali mutamenti profondi delle pratiche quotidiane della nostra società essa ci richiede?

E ancora: la riflessione sulla sostenibilità, che nel pensiero ambientalista si riferisce alla gestione sociale di risorse comuni e finite, quali acqua, aria, biodiversità, può essere estesa alla gestione politica di merci (farmaci, tecnologia) prodotte da noi stessi, all’interno di precisi sistemi di produzione retti dalle leggi del mercato?
      Può essere estesa all’idea stessa di innovazione?
      Siamo davvero di fronte a un esempio di innovazione non sostenibile, perciò irresponsabile?

Infine, come si può accompagnare a una riflessione etica, politologica e culturale sulla sostenibilità anche una valutazione della razionalità economica che implicitamente la sottende?
      Questi aspetti sono svincolabili l’uno dall’altro, oppure sviscerarli entrambi potrebbe contribuire a mettere a fuoco quali sono i nodi da sciogliere, in termini di partecipazione democratica alla governance, di solidarietà sociale, e di implementabilità delle policies?

In questa direzione, i rapporti tra industria farmaceutica, sistemi assicurativi e spesa pubblica si impongono all’attenzione: per esempio nei meccanismi attraverso i quali i costi (e i profitti relativi) dei farmaci, delle tecnologie e delle prestazioni vengono stabiliti, ricadendo quindi sulla spesa sociale, oppure nelle modalità e le motivazioni con cui si decide la ripartizione globale della spesa pubblica in funzione di obiettivi sociali.

L’ambito di discussione è vasto e complesso. Qui propongo solo alcuni degli spunti di riflessione possibili, invitando non solo a rispondere a questi, ma anche a sollevarne di ulteriori.

 

COMMENTS

Comment from Magda Nirenstein, posted on Wednesday 2 February 2005 at 08:45 PM

E' per me estremamente difficile commentare Callahan riferendomi alle sue parole riportate nel documento di estratti e ai testi di presentazione di questo forum. Provo infatti un certo senso di disagio in quanto le questioni sottoposte a dibattito mi appaiono troppe e confuse tra loro; e ciò mi obbliga a ridurle all'essenziale. Questa riduzione non credo sia un'operazione felice, perché deve riferirsi a opinioni non mie ed è frutto di una lettura di Callahan indubbiamente parziale e insufficiente. Così come vengono poste, le questioni sono già state oggetto di anche lunga riflessione, ma io vorrei cercare di capire quali siano gli 'ingredienti' di tale riflessione. Quella di Callahan mi sembra una visione generata da una miscela di politica economica, politica della sanità, visioni filosofiche e culturali... il che è più che naturale e logico, ma forse va a discapito della perspicuità dell'impostazione del dibattito.
A parer mio, al cospetto di ciò che ho letto e dell'operazione mentale riduzionistica che ne ho fatto, mi sento d'accordo con le tesi di Callahan, ma non ne riesco ad apprezzare - voglio essere chiara: non ci riesco in relazione ai testi che ho letto - il metodo argomentativo.
Per esempio, faccio ora una considerazione molto semplice e che mi è sorta fin da subito: ma quello che gli statuti deontologici della medicina affermano da sempre non è forse proprio ciò che Callahan sostiene riguardo agli scopi della medicina?
Certo, so bene che Callahan fa una riflessione basata sui fatti, ma - per quello che ho letto - sul modo con cui egli sostiene le sue proposte faccio fatica a seguirlo: mi pare che i salti da un piano di riflessione all'altro - filosofico, sociale... - siano repentini e frequenti. E' chiaro che una tesi filosofica può trovare contemperamenti in ragioni di politica economica, così come può anche apparire insostenibile per le medesime ragioni. Ma ciò comporta che la tesi venga inficiata? Sì, sotto un certo profilo; no sotto un altro: il punto delicato è distinguere. Distinguere quando il piano del discorso è quello filosofico, o religioso, o dei princìpi e quando, invece, è quello della politica, della prassi.
La deontologia della scienza medica pone dei princìpi che il medico interiorizza e ai quali, a seguito del giuramento di Ippocrate, dovrà conformare la propria condotta. Il politico, come idealtipo, ha altre misure di comportamento e quindi ha altre risposte. E' del resto naturale che il medico possa essere anche un politico: i piani si intersecano. Per fare un parallelo dei più evidenti, ogni giorno molti religiosi si confrontano con l'applicazione pratica dei princìpi di fede - ci sono preti che si immergono fino allo strazio nella realtà del disagio sociale e che, per dare delle risposte, devono per forza scendere a compromessi. Ma questo che cosa significa? Significa forse che i princìpi di fede cambiano? che devono cambiare? che sono diversi da persona a persona? La religione cattolica dà - mi pare - una risposta a questo genere di interrogativi che fa riferimento alla coscienza individuale. Ma non voglio andare oltre su questo: il parallelo serve solo per evidenziare che la nostra vita è costantemente frutto di compromessi fra tensioni ideali e realtà dei fatti. E allora c'è chi smette - per esempio da laico - di averle le tensioni ideali, o di credere in qualcosa. Ma sono scelte individuali, non sono scelte collettive, e traslare una convinzione dal piano individuale a quello collettivo è molto questionabile, perché dà spazio all'imposizione.
Questa tensione la si avverte anche in alcune frasi di Callahan riportate nei testi che ho qui letto, ma poi lui giunge a delle conclusioni sul piano della proposta politica. Ed è proprio qui il mio problema: per ragionare seriamente su una materia tanto delicata, mi è difficile partire dalla sua tesi finale, che è, chiaramente, frutto di anni e anni di meditazione.
Se devo confrontarmi con la visione che Callahan propone, mi sento di dire che sono d'accordo, ma aggiungerei che se la medicina ha dei limiti anche la politica ha i suoi. Il punto critico è nell'imposizione: porre dei limiti alla medicina? Porre dei limiti alla politica? Perché, invece, non ricordare piuttosto che non tutto è 'collettivo', non tutto è 'politico', come non tutto è 'medico' e che le scelte della politica vivono, nel quotidiano, accanto alle scelte degli individui: i grandi ospedali a fianco delle iniziative dei gruppi di aiuto e di assistenza, laici e religiosi; le decisioni di pubblica amministrazione accanto a quelle di spontaneismo sociale. E tutto ciò si compone e si ricompone in un multiforme panorama che, alla fine, è la società in cui viviamo.
La mia visione delle cose, in ultimo, è molto fiduciosa nell'individuo e nella sua iniziativa. La politica riguarda scelte pubbliche, ma la medicina riguarda scelte private. Più che sul porre dei limiti agli scopi della medicina, allora, preferirei soffermarmi - forse più prosasticamente - su quale sia l'origine dei vincoli di tipo economico. E se il problema è economico, allora sarei cauta nell'affidarmi a visioni di ampio respiro sulla medicina o sulla politica. Mi porrei, cioè, io per prima un limite, ma col significato di provare a circoscrivere il problema 'medico' entro una questione di allocazione delle risorse. E' riduttivo? Lo so, ma se le risorse sono male allocate - e mal gestite - perché trarre la conclusione che il problema concerne scelte di fondo, di principio, scelte valoriali? Io preferirei chiedermi, prima di tutto, che cosa non va nell'etica dell'amministrazione pubblica - visto che parlare di un'etica del genere pare oggi un assurdo. Se, in effetti, negli USA il welfare sanitario è stato a tal punto condizionato dalle scelte di fondo ispirate a una certa concezione dell'uomo e della vita, di cui Callahan ci parla, allora mi chiedo se ciò significhi che dobbiamo discutere della concezione in sè, o se invece dovremmo discutere di ciò che sta in termini strutturali - intendo di struttura sociale - a monte di essa. In questo senso è molto istruttivo l'ultimo bellissimo film di Wim Wenders su un'America "terra dell'abbondanza" che è malata, malata di sè stessa, perché si è persa narcisisticamente nella visione di sè e delle sue conquiste. C'entra la medicina, coi suoi valori e i suoi princìpi? Certo, ma a quale livello di analisi? Non certo al primo.

Comment from Giorgio Buzzi, posted on Monday 7 February 2005 at 12:31 AM

Come neurologo, posso fare riferimento ad un dibattito che si è svolto nei mesi scorsi a proposito della "neurologia cosmetica". In sintesi: se uno degli scopi della medicina è migliorare la qualità della vita, cosa impedisce di pensare che i progressi della neurofarmacologia possano essere utilizzati per migliorare il benessere di tutti, indipendentemente dal fatto che siano o non siano affetti da determinate malattie ? per esempio, sono attualmente disponibili farmaci ("inibitori delle colinesterasi") che possono migliorare le prestazioni mentali (memoria, attenzione) di pazienti con forme iniziali di demenza senile. Ebbene, uno studio recente suggerisce che questi farmaci possano migliorare le prestazioni dei piloti d'aereo in prove di simulazione di volo, in particolare in risposta a situazioni di emergenza. Discorso analogo potrebbe essere fatto per farmaci che migliorano le prestazioni motorie di pazienti con malattie muscolari (perché non potrebbero utilizzarli soggetti sani per migliorare le proprie prestazioni motorie ?), o per farmaci che modulano il tono dell'umore. In altre parole, persone sane potrebbero utilizzare farmaci nati per migliorare i disturbi mentali, neuromuscolari o dell'umore causati da determinate malattie, allo scopo di potenziare le proprie facoltà psico-fisiche. A. Chatterjee (Department of Neurology and Center for Cognitive Neuroscience, University of Pennsylvania, Philadelphia) afferma che nonostante le inevitabili perplessità di carattere etico lo sviluppo in questa direzione sarà inevitabile, sotto la spinta del mercato e la richiesta dei consumatori che tenderanno a vedere i medici come i depositari delle chiavi "per il raggiungimento della felicità". Sulla stessa linea S.L. Hauser (Department of Neurology, University of California, San Francisco) allarga il discorso alle tecniche di ingegneria genetica (ci sono differenze etiche tra la terapia genica diretta a correggere la distrofia muscolare dovuta a carenza di distrofina, e quella diretta a correggere uno svantaggio ereditario nelle prestazioni atletiche dovuto ad eccesso di miostatina ?) e sostiene che i neurologi dovranno assumere un ruolo centrale nel dibattito sul confine tra interventi medici usati per promuovere o reintegrare lo stato di salute, e quelli eventualmente utilizzati per manipolare la forza, la memoria, la capacità di concentrazione e di apprendimento delle persone sane. Suggerisce inoltre modifiche e aggiunte ai corsi di formazione dei neurologi, per preparare le nuove generazioni di neurologi a questo nuovo ruolo. Finalmente R.H. Dees (Department of Philosophy, Neurology, and Division of Medical Humanities, University of Rochester, NY) osserva che considerazioni come quelle di A. Chatterjee significano semplicemente la resa dell'etica al potere del mercato. In realtà non vi è nulla di inevitabile nel destino della società e della neurologia come professione: dal momento che abbiamo facoltà di scelta, possiamo controllare collettivamente i nostri destini affrontando una ad una le profonde questioni morali che abbiamo di fronte.
La posizione di Dees, che forse è ingenua ma che io condivido, si può ovviamente estendere dalla neurologia alla medicina in generale, e mi sembra corrispondere pienamente a quanto sostenuto da
Callahan: "Una medicina che promettesse continuamente nuovi miracoli, nuovi corpi e nuovi "io" per veder finanziata la propria ricerca e per giustificare i propri colossali investimenti mi sembrerebbe una medicina che ha perduto la retta via, dimenticando di non essere affatto la via di accesso alla vita felice". E, aggiungo, una siffatta medicina diverrebbe inevitabilmente fonte di ulteriori diseguaglianze tra ricchi e poveri.

Comment from Giuseppe Lanzavecchia, posted on Thursday 10 February 2005 at 05:52 PM

L'argomento affrontato da Callahan m'ha interessato da almeno mezzo secolo, anche se sono arrivato a una convinzione diametralmente opposta o, piuttosto, ortogonale, ossia che non ha nulla a che vedere con quella di Callahan, neppure la ignora perché non può neppure incontrarla.
Callahan - come è avvenuto per molti fenomeni, aspetti della vita, avanzamenti del pensiero in passato - è giunto alla conclusione che bisogna fermarsi, dire basta. A prescindere dal fatto che non è possibile fare questa scelta perché c'è sempre qualcuno che, vivaddio, pensa e perché non ci sono limiti al pensiero e all'azione, di fatto esistono prospettive per ognuno dei fenomeni che interessano le tesi di Callahan (durata della vita, cura di malattie, eradicazione di disfunzioni, possibilità di accrescere l'efficienza degli interventi) che saranno inevitabilmente perseguiti.
Un inciso: sul problema dei limiti - fisici o intellettuali - ho scritto abbondantemente in più occasioni e se qualcuno fosse interessato posso mandare la documentazione. Qui mi limito a un solo marginale aspetto. Callahan dice che tutto il nostro mondo ha il torto di cercare la perfezione con costi che diventano vieppiù inaccettabili. Io sono convinto che la perfezione non abbia senso (e ho fatto diversi interventi sull'argomento) perché non esistono strutture e soluzioni ideali, ma la natura ha scelto per ogni evento una miriade di soluzioni diversificate che lo rendono adattivo e capace di reagire a eventuali minacce.
ILa prima occasione che mi ha fatto pensare alla medicina è stato il film "Knock ou le triomphe de la medicine" magistralmente interpretato da Louis Jouvet, dal romanzo di Jules Romains. Poi, negli anni '60, sono diventato amico di Ivan Illich e ho collaborato al CIDOC (Center for Intercultural Documentation). Nel settembre del 1973, partecipando a un meeting di esperti di previsione riuniti in un castello di Salisburgo - un medico norvegese ci fece vedere dei diagrammi che mostravano la crescita del costo delle spese sanitarie e come queste, se l'andamento in atto fosse continuato, fossero destinate a superare il PIL. Nella seconda metà degli anni '70 conducemmo con lo SPRU inglese delle analisi costi / benefici per vedere come e se convenisse una medicina preventiva rispetto a una curativa, se affrontare e guarire certi malanni, adottando parametri - allora tabù - come dollari per vita salvata, costo della cura verso valore del lavoro futuro recuperato dei pazienti guariti
Sono un acerrimo avversario di ogni medicina alternativa non rigorosamente scientifica; trovo che la medicina sia ancora in troppi casi troppo poco scientifica; capisco gli attacchi contro la medicina "matematizzata" e contro la "frammentazione" del corpo che dovrebbe essere visto subito come un unico ente, ma penso che solo un approccio riduzionista consenta di capire i fenomeni, mentre l'approccio olistico è solo "bla-bla". L'avvento di una medicina veramente scientifica è, secondo me, in grado di risolvere buona parte dei problemi che turbano Callahan.
Io intendo vivere bene, sano, il più a lungo possibile. Alcuni anni fa fui considerato spacciato per due tumori, ma sono guarito e continuo a lavorare: il merito va alle cure che oggi si possono condurre come conseguenza di conoscenze migliori. In giro per il mondo si sta studiando come prolungare la durata della vita umana mantenendo condizioni buone se non ottime e i "transhumanists" (tra essi c'è Minski) - ed altri - pensano addirittura alla vita eterna.
I problemi sollevati da Callahan sono seri e tanti. E' chiaro che occorrono organizzazioni più efficienti ed efficaci. C'è indubbiamente il problema dei paesi poveri, ma l'unica soluzione è che diventino ricchi, cosa che in parte sta avvenendo - si pensi soltanto alla Cina e all'India, che tuttavia rappresentano il 40 percento della popolazione mondiale.
Per concludere: ritengo malposta la problematica di Callahan. Non ci si può fermare e neppure tornare indietro. Si deve andare avanti, ma senza timori, in modo deciso con soluzioni nuove coraggiose che tagliano i ponti con i piccoli preconcetti del passato, ignorando qualsiasi cosiddetto principio precauzionale. Come diceva D'Alembert " En avant et la foi vous viendra".

Comment from MAURIZIO DE FILIPPIS, posted on Friday 11 February 2005 at 02:22 AM

AL DI LÀ DEL VETRO LA SANITÀ BIANCA ED IMMUNE*


Lo straordinario progresso avvenuto nel corso degli ultimi decenni nella tutela e nella cura della salute, la decisa crescita delle aspettative di vita della popolazione dei paesi occidentali, l'evoluzione delle discipline diagnostiche biomediche, inducono a ritenere che si assisterà, in un futuro prossimo, ad un ulteriore ampliamento degli orizzonti terapeutici: "Eppure, il secolo che si è appena aperto non sarà caratterizzato da una riduzione dei bisogni di cura della popolazione. Se il nostro tenore di vita sarà ancora migliore di quello odierno e se potremo attenderci un ulteriore allungamento delle nostre speranze di vita media, a ciò non corrisponderà la liberazione dai problemi dell'invalidità e della convivenza con la malattia. Accadrà invece esattamente l'opposto. La maggiore tutela di cui godrà la nostra salute sarà accompagnata infatti da un costante aumento del bisogno di cura e accudimento. Se la vita si allungherà, infatti, con essa si estenderà anche il periodo in cui, a seguito dell'età o di altre patologie rese curabili grazie ai progressi medici, molte persone dovranno convivere con una condizione di inabilità o di non autosufficienza, di maggiore o minore gravità".**
I mutamenti demografici e sociali in corso, le dinamiche in atto nella sanità pubblica e in quella privata sembrano, in effetti, confermare che nei prossimi anni si verificherà un notevole incremento della domanda sociale di cura. Le modalità attraverso cui si cercherà di dare una risposta a questo bisogno dovranno passare, necessariamente, attraverso l'adozione di logiche di carattere sinergico e multiprofessionale che coinvolgeranno tutti gli "addetti ai lavori". Ad interagire con il paziente saranno chiamati, accanto ai professionisti della sanità (medici, tecnici, infermieri), anche altre figure professionali (ad esempio: assistenti sociali, operatori sanitari) e volontari provenienti dal mondo delle associazioni. La complessità di questi fenomeni coinvolgerà, in misura sempre maggiore, il rapporto medico-paziente, come ha spiegato molto bene Daniel Callahan. L'approccio sempre più specialistico della pratica medica ha determinato il prevalere della tecnica sugli aspetti antropologici della cura provocando, nel contempo, un progressivo aumento degli obblighi burocratici legati ai processi di ospedalizzazione e medicalizzazione della cosiddetta "società del benessere". I progressi tecnologici e scientifici, paradossalmente, hanno infatti contribuito a disumanizzare l'ospedale, per secoli considerato luogo della cura "solidale e partecipe", spostando il fulcro dell'attività medica e delle politiche sanitarie dall'attenzione nei confronti del paziente, alla relazione quasi esclusiva con la malattia di quest'ultimo, finendo così per sostituire il terapeuta tradizionale con il medico "specialista" in una patologia.***
Occorrerà pertanto, in tale ottica, cercare di implementare la rete di gestione extraospedaliera attraverso la creazione di strutture idonee ("hospice" e case alloggio), prevedendo la possibilità di cure mediche domiciliari, assistenza domestica e sostegno psicologico. Per far fronte con efficacia alle nuove ed emergenti esigenze di salute è necessario però compiere una riflessione approfondita sui modelli di "Welfare" sostenibili, al fine di estendere in modo equilibrato le nuove forme di tutela. Armonizzare l'odierno processo di aziendalizzazione ospedaliera monitorando le criticità di un "sistema sanitario" pubblico, ricco di contraddizioni ma anche di energie inespresse, implica, infatti, l'adozione di politiche di tutela della salute che mettano in rilievo, accanto alle irrinunciabili logiche economiche, un'equa distribuzione delle possibilità di cura. Per sostenere e rivitalizzare l'intero sistema è necessario confrontarsi con il moltiplicarsi delle situazioni di dipendenza socio-sanitaria di larghe fasce della cittadinanza, infondendo nuova fiducia nelle qualità del servizio pubblico attraverso il raggiungimento di obiettivi condivisi, investendo risorse sul capitale umano, sulla ricerca scientifica e sulla formazione del personale addetto all'assistenza. Il problema, naturalmente, riguarda non solo gli "operatori del settore", ma tutta la popolazione: la diffusione di una "cultura della salute" che tenga conto sia dei confini della scienza e della tecnica che della comprensione dei limiti del corpo umano, deve preludere al rilancio di un sistema sanitario orientato non in senso assistenziale ma sociale.
*C.E.Gadda, Anastomòsi
**C. Ranci, I mercati sociali della cura: un modello valido per l'Italia?, in "L'Assistenza Sociale", 2003, n. 3-4, p. 315.
***Cfr. G. Cosmacini, Aspetti storici dell'umanizzazione dell'ospedale, in L'umanizzazione dell'ospedale: riflessioni e proposte, a cura di A. Delle Fave e S. Marsicano, Milano, FrancoAngeli, 2004.

Comment from Giuseppe Belleri, posted on Saturday 12 February 2005 at 03:24 PM

Scrive Magda Nirenstein
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La politica riguarda scelte pubbliche, ma la medicina riguarda scelte private. Più che sul porre dei limiti agli scopi della medicina, allora, preferirei soffermarmi - forse più prosasticamente - su quale sia l'origine dei vincoli di tipo economico. E se il problema è economico, allora sarei cauta nell'affidarmi a visioni di ampio respiro sulla medicina o sulla politica. Mi porrei, cioè, io per prima un limite, ma col significato di provare a circoscrivere il problema 'medico' entro una questione di allocazione delle risorse. E' riduttivo? Lo so, ma se le risorse sono male allocate - e mal gestite - perché trarre la conclusione che il problema concerne scelte di fondo, di principio, scelte valoriali? Io preferirei chiedermi, prima di tutto, che cosa non va nell'etica dell'amministrazione pubblica - visto che parlare di un'etica del genere pare oggi un assurdo. Se, in effetti, negli USA il welfare sanitario è stato a tal punto condizionato dalle scelte di fondo ispirate a una certa concezione dell'uomo e della vita, di cui Callahan ci parla, allora mi chiedo se ciò significhi che dobbiamo discutere della concezione in sè, o se invece dovremmo discutere di ciò che sta in termini strutturali - intendo di struttura sociale - a monte di essa.
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Giustamente Magda Nirenstein propone di focalizzare il problema attorno alle tematiche economiche, in una sorta di diagnosi eziologica del male che affligge la medicina moderna.
In effetti nella sua recente analisi del "malessere della medicina" (F. Angeli, 2004) il sociologo sanitario Guido Giarelli pone il nodo economico al primo posto tra le sfide che l'evoluzione pone alla medicina, intese come altrettanti sintomi della malattia o del disagio che affligge il mondo sanitario:
-la sfida inflattiva dei costi crescenti, a fronte dei rendimenti proporzinalmente deludenti in termini di risultati clinici;
-la sfida dell'iper­specificita, che si accompagna al rischio di alienazione relazionale tra medico e paziente e di efffetti iatrogeni, per via di quella sorta di incomunicabilità che caratterizza le punte più avanzate della tecnomedicina;
-la sfida consumerista che si esprime nella proposta mercantile di una sanità "modello supermarket", in cui ogni paziente/consumatore può prenedera a piacimento i prodotti che vengono offerti in bella mostra sugli scaffali dell'ipermergato della salute;
-la sfida epidemiologica, ovvero l'epidemia di malattie croniche che hanno messo in evidenza una crisi di efficacia dei sistemi sanitari, di dimensioni tali da costringere a ripensare l'intero nesso medicina-società-salute.

A questa variegata "sintomatologia", già di per sè abbastanza problematica, andrebbe aggiunto il sintomo che Daniel Callahan ha analizzato lucidamente nel suo fondamentale libro della fine del secolo scorso, vale a dire l'eccesso di aspettative di efficacia, l'ipertrofia di attese quasi miracolistiche verso la medicina, coltivate sia dai singoli cittadini/pazieni/utenti/clienti/esigenti sia dalla società nel suo complesso. La portata di questa sfida è emblematicamente sintetizzata nel titolo originale del libro di Callahan (False Hopes) che l'editore italiano ha deciso pudicamente di non tradurre in modo letterale, preferendogli il più soft "la medicina impossibile". La prima matrice delle aspettative irrealistiche della gente e di una medicina "insostenibile" stà nella definizione di salute dell'OMS, vale a dire quel mitico "stato-di-completo-benessere-psico-fisico-sociale" (e non-solo-assenza-di-malattia) che oltre ad essere un'iperbolica dichiarazione programmatica è diventato nel tempo la pietra di paragone per valutare interventi sanitari, cure, risultati e grado di soddisfazione soggettivo, come insegna il movimento della qualità totale. Come se non bastasse il crudo riferimento alle false promesse implicitamente lanciate dalla tecnomedicina alla società (sconfiggere le malattie, il dolore e, in ultima istanza, la morte) uno dei capitolo più lucidi del libro analizza quella che Callahan definisce la "patologia della speranza", sintomo endemico che affligge il pianeta sanità e che si concretizza nella tecncica del continuo rilancio delle attese per offuscare la percezione/consapevolezza dei limiti immanenti, nonostante innegabili e clamorosi successi conseguiti su molti flagelli, i primis buona parte delle malattie acute.

Prima o poi però le false speranze vengono al pettine, come dimostra la vicenda del progetto genoma: quindici anni or sono era stato lanciato in grande stile a livello planetario con la promessa che le sue ricadute pratiche avrebbero portato alla sconfitta di temibili malattie. Al termine del primo lustro del nuovo millennio purtroppo non si intravvedono ancora le promesse, e tanto sperate, gaurigioni definitive da tumori, demenze e malattie croniche in genere, come avevano assicurato i media di tutto il mondo senza smentite da parte degli addetti ai lavori. Un paio di anni fa' abbiamo saputo, per bocca di un avveduto osservatore come Gilberto Corbellini, che in realtà tutti gli addetti ai lavori erano consapevoli che quelle promesse era solo efficaci slogan pubblicitari, adatti a soddisfare la sete inesaurubile di aspettative e tutt'al più a convincere i riottosi finanziatori pubblici ad abbracciare l'intrapresa.

Ora che gli attesi effetti pratici del progetto genoma, a suo tempo denunciati come autentiche "illusioni della scienza" dal bastian contrario Richard Lewontin, sono venuti al pettine è ripartito in grande stile il rilancio delle speranze: sulle ceneri delle promesse non mantenute della ricerca genomica rinascono nuove e vigorose aspettative sociali, che questa volta convergono sulle cellule staminali. Basta osservare l'avvio della campagna referendaria per le prossime consultazioni popolari sulla legge per la fecondazione assistita: uno degli argomenti forti dei detrattori della legge vigente fa leva proprio sulla prossima soluzione terapeutica per i tanti mali cronici che affliggono la gente, grazie all'utilizzo degli embrioni soprannumerari per la ricerca sulle cellule staminali. L'argomento è agitato con tale insistenza e forza persuasiva (apparente: chi mai ha il coraggio di ricusare una ricerca che porterà a guarire terribili malattie?) dai promotori del referendum da indurre il professor Vescovi, massimo esperto italiano del settore, ad intervenire ripetutamente sui media per raffreddare gli entusiasmi, per consigliare prudenza negli annunci di prossime applicazioni terapeutiche della ricerca di base sulle staminali.

Ecco quindi un nodo problematico e nel contempo un'imperativo etico, che dovrebbe interessare quanti sono coinvolti a vario titolo nelle innovazioni tecnologiche, potenzialmente destinate a toccare la vita, le sofferenze e le speranze della gente: guai ad alimentare con leggerezza le aspettative delle schiere di malati, attenzione a non illudere con annunci eclatanti tutti coloro che vivono ormai solo di speranza!

Osserva Magda Nirenstein
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Se devo confrontarmi con la visione che Callahan propone, mi sento di dire che sono d'accordo, ma aggiungerei che se la medicina ha dei limiti anche la politica ha i suoi. Il punto critico è nell'imposizione: porre dei limiti alla medicina? Porre dei limiti alla politica? Perché, invece, non ricordare piuttosto che non tutto è 'collettivo', non tutto è 'politico', come non tutto è 'medico' e che le scelte della politica vivono, nel quotidiano, accanto alle scelte degli individui: i grandi ospedali a fianco delle iniziative dei gruppi di aiuto e di assistenza, laici e religiosi; le decisioni di pubblica amministrazione accanto a quelle di spontaneismo sociale. E tutto ciò si compone e si ricompone in un multiforme panorama che, alla fine, è la società in cui viviamo.
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La sfida delle attese irrealistiche è ardua perchè coloro che dovrebbero accoglierla sono per diversi motivi restii a considerare i limiti umani, tecnologici, organizzativi, economici e scientifici della medicina, che sono poi la faccia nascosta ed implicita dell'ipertrofia di aspettative sociali. Per analoghe ragioni entrambi gli attori, politici e mondo medico, sono reticenti ad accettare i limiti dell'impresa a fronte delle formidabili speranze che percorrono la società.
Quale politico ha il coraggio di ammettere che i bisogni e le domande di prestazioni sono un pozzo senza fondo a fronte di risorse tragicamente scarse e da razionare per venire incontro almeno al più bisognoso? Chi è disposto a riconoscere che la salute definita dall'OMS è probabilmente un miraggio, se non sinonimo di felicità terrena, verosimilmente negata agli umani?
Qual'è il medico che ammette apertemante la propria impotenza di fronte ad acciacchi e disturbi grandi e piccoli? Come evitare di assecondare il desiderio del paziente di avere un rimedio qualsiasi, anche quando è chiaro che si tratta solo di un palliativo? Come svelare alla gente la diffusa sopravvalutazione dell'efficacia preventiva e curativa delle pratiche mediche, senza minare la propria autorevolezza professionale? Come spiegare che una volta vinta la battaglia contro una malattia ne sorgerà un'altra, probabilmente ancor più ostica e forse invincibile?

Come si vede la sfida delle aspettative è davvero un compito impossibile, tanto urgente quanto inevasa da coloro che dovrebbero raccoglierla e farsene carico.

Cordiali saluti

Giuseppe Belleri
Flero (Brescia)

Comment from Giuseppe Belleri, posted on Monday 14 February 2005 at 11:27 AM

Vi segnalo che proprio nello stesso giorno in cui qui scrivevo le considerazioni sulla "sfida delle attese" verso la medicina e' comparsa sulle pagine culturali de La Repubblica un'intervista, su un argomento analogo, al filosofo Remo Bodei, che individua nel venir meno dei dispositivi culturali e sociali di "inibizione delle aspettative" la radice di un malessere a sfondo depressivo diffuso tra i giovani, spesso indifferenti, delusi e rinunciatari per le frustrazioni subite a causa di svantaggi esistenziali ineliminabili ed eccessive attese di "successo" e soddisfazioni.
Si potrebbe forse approfondire il tema in relazione alla innovazioni tecniche e, soprattutto, all'ipertrofia della aspettative di efficacia della medicina.

Dott. Giuseppe BELLERI
Medicina Generale
Via Canossi 17
25020 FLERO (BS)

Comment from marlene di costanzo, posted on Tuesday 15 February 2005 at 11:02 AM

Non molto tempo fa è apparsa sui giornali la notizia che un giovane, affetto da una grave malattia invalidante non poteva essere curato, non perché non esistevano le cure adeguate, ma solo perché la casa produttrice del farmaco adatto ne aveva cessato la produzione in quanto, trattandosi di una malattia molto rara, risultava improduttivo. Credo che poi la questione si sia risolta attraverso l'intervento dello Stabilimento farmaceutico militare. Si tratta, a mio parere, di un caso emblematico di medicina impossibile. Se fino a qualche decennio fa, molte patologie risultavano impossibili da curare a causa di un deficit tecnico-scientifico, oggi ci troviamo di fronte a un surplus di offerta tacnico-scientifica che in alcuni casi risulta insostenibile alle risorse economiche disponibili, siano esse quelle della mutualità collettiva, come nei sistemi sanitari europei, siano quelle delle assicurazioni private come nel sistema americano. A controprova si veda come attraverso iniziative come telethon o la vendita di arance si cerca di supplire alla carenza di fondi per la ricerca. Oltre a ciò occorre, inoltre, considerare che lo sviluppo delle applicazioni della ricerca tecnico-scientifica ha creato un sistema di aspettative crescenti incompatibili con le regole governano le nostre economie. All'eccesso di consumo sanitario si è cercato di rispondere in vario modo: centralizzazione, decentralizzazione, introduzione ticket e standard, managerializzazione ecc. . In Italia la riforma sanitaria della fine anni '80 in realtà ancora in fieri. Ma la sostenibilità della moderna medicina non riguarda solo la politica, almeno per quanto riguarda l'organizzazione delle prestazioni, ma deve toccare anche altri soggetti che in qualche modo si confrontano con le esigenze dei pazienti. Medici, avvocati, magistrati, associazioni del volontariato, sindacati assumono spesso il ruolo di operatori politici impropri, nel senso che poi sono "tecnicamente irresponsabili" di fronte alla copertura della spesa che le loro richieste generano. Esemplare il caso Di Bella, quando per ordine di alcuni magistrati il SSN fu costretto a finanziare una ricerca costosa e inutile, se non controproducente, dal punto di vista scientifico. Può essere fastidioso parlare di compatibililità economiche quando si parla di salute. Ma quando la medicina consente di prolungare lo stato vegetativo permanente o di coma irreversibile o di garantire, non si sa sempre a quale condizioni, di un prematuro di meno di 500 gr. è necessario rapportarsi alla medicina con un approccio etico dove l'astrattezza di un'impostazione etica che guarda al singolo caso si traduce nella difficoltà a preseguire un diritto collettivo. L'aforisma che tutto quello che è tecnicamente possibile non è sempre moralmente lecito può avere tante chiavi di lettura.
Dr.ssa Marlene Di Costanzo
Consulente Legale
Padova

Comment from Alessandra Grazia, posted on Tuesday 15 February 2005 at 03:24 PM

E' davvero impegnativo itervenire sul tema di questo forum, perché la
sostanza dell'argomento è ingente e le diramazioni che presenta
sono tante. Difficile impegnarsi in un ragionamento soddisfacente e che sia
,anche se modestamente , accostabile al livello delle riflessioni svolte da
Callahan.

Allora mi sono letta gli interventi degli altri partecipanti al forum (e
mentre li leggevo altri ne arrivavano ...) e ho preso qualche appunto.
Spero quindi che mi perdonerete se sarò qui approssimativa e imprecisa.


" dal momento che abbiamo facoltà di scelta
possiamo controllare collettivamente i nostri destini affrontando
una ad una le profonde questioni morali che abbiamo di fronte. "

Questo ha scritto il neurologo Giorgio Buzzi. Vorrei aggiungere da
parte mia soltanto che il nocciolo della questione dovrebbe consistere proprio
in quei plurali del verbo... abbiamo facoltà di scelta ....
possiamo controllare collettivamente i nostri destini... mah...
veramente ciò è nella nostra portata? Il potere, "il
potere di" (scegliere, decidere) come, e in che misura , ci appartiene?

"L'avvento di una medicina veramente scientifica è, secondo me, in
grado di risolvere buona parte dei problemi che turbano Callahan. "

A parte questa frase in cui è evidente l'approccio di solido
credo scientifico e fiducioso nel progresso (scientifico), le
parole con cui termina il commento del Professor Giuseppe
Lanzavecchia...

"Non ci si può fermare e neppure tornare indietro. Si deve andare
avanti, ma senza timori, in modo deciso con soluzioni nuove
coraggiose che tagliano i ponti con i piccoli preconcetti del
passato, ignorando qualsiasi cosiddetto principio precauzionale.
Come diceva D'Alembert " En avant et la foi vous viendra".
" ...

mi ricordano tanto la frase (da alcuni attribuita a Lenin
) che parla dell'orlo dell'abisso e del fare un passo avanti. Lo
dico con
humor, ma non troppo. E vorrei aggiungere , in accordo col Prof.
Lanzavecchia, che la fiducia nella scienza non è fideismo e può
avere basi molto concrete ( come egli apertamente ci mostra avendo
(tra l'altro) citato una sua esperienza del tutto personale).

"Il problema, naturalmente, riguarda non solo gli "operatori del
settore", ma tutta la popolazione: la diffusione di una "cultura
della salute" che tenga conto sia dei confini della scienza e della
tecnica che della comprensione dei limiti del corpo umano, deve
preludere al rilancio di un sistema sanitario orientato non in
senso assistenziale ma sociale."

Sono parole del Dottor Maurizio De Filippis il quale
conclude il proprio intervento con un richiamo alla
collettività. Mi sembra una dichiarazione programmatica che trova
il suo limite proprio nel punto in cui si ferma.

"limiti immanenti" sono quelli verso quali Belleri richiama la nostra
attenzione. Il suo commento mi è piaciuto veramente, in particolare perché è
espressione di disincanto prima ancora che di scetticismo.

"Il cuore del problema e' nella individuazione dei meccanismi da
porre in atto per consentire la continua interazione tra stato e
mercato, tra cittadini e scienza."
(Castellaneta)

Anche qui ricorre, nuovamente in termini dichiarativi, il nocciolo del
problema. Bene dirlo, ma... e poi?

Jacucci insiste sul ruolo dell'informatica, il che mi ricorda
tanto una forma di speranza tecnofila.

Spero di non essere stata accessivamente critica e , se questo è ciò
che appare , è perché ho citato prevalentemente i punti che hanno
attirato la mia vena polemica.
Anzi, dovrei scusarmi per non essere entrata io in argomento,
limitandomi a uno sguardo sulle parole altrui.

Comment from Marcello Cini, posted on Saturday 19 February 2005 at 11:28 PM

LA MEDICINA IMPOSSIBILE - Commento al libro di Daniel Callahan

Ringrazio la dott. Grasseni e il dott. Borrello per l’invito a formulare un commento sul libro di Callahan “La medicina impossibile”, anche se non sono né un medico né un economista. Cercherò dunque di esporre le considerazioni, basate su fatti ben noti e su una visione non specialistica dei problemi affrontati dal libro in questione, che mi portano a giudicarlo come un contributo fondamentale alla questione del ruolo della sanità pubblica e del suo rapporto con la ricerca biomedica.
Vorrei partire dai dati che riguardano le disuguaglianze tra ricchi e poveri in tema di diritto alla salute - un diritto che fa certamente parte di quegli “inalienabili diritti alla vita, alla libertà e alla felicità” proclamati dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo dei rivoluzionari americani del 1776 e ribaditi dalla Carta dell’ONU del 1948 - che sta alla base delle finalità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e che tutti gli stati che ne fanno parte si sono impegnati a realizzare. Un editoriale del direttore del British Medical Journal del dicembre 2003 denuncia che nell’ultimo decennio sono stati introdotti sul mercato 1233 nuovi principi attivi per la cura delle malattie comuni nei paesi ricchi e soltanto 13 per le malattie tropicali. Eppure il paludismo, la tubercolosi, la malattia del sonno la febbre nera, sono malattie estremamente distruttive e dolorose. La maggior parte di esse era quasi scomparsa durante gli anni settanta e ottanta, grazie, tra l’altro, alle grandi campagne dell’OMS. Oggi stanno riprendendo piede: la malattia del sonno ha ucciso più di trecentomila persone nel 2001, la tubercolosi otto milioni. Nel 2001 ogni trenta secondi un bambino è morto di paludismo. La malaria ha ripreso in grande stile.
Il caso dell’AIDS è ancora più eclatante. Qui i medicinali ci sono, ma sono troppo cari. Non c’è bisogno di leggere la letteratura medica per sapere che milioni di africani muoiono di AIDS perché non hanno i soldi per comprarsi i farmaci. L’Onlus Medici senza frontiere chiede ai propri sostenitori un contrinuto di 350 euro per il trattamento annuale di un malato di AIDS. Sono farmaci che tecnicamente potrebbero essere prodotti a basso costo nei paesi più colpiti dall’epidemia del terzo e del quarto mondo, ma questo sacrilegio contro la santità dei Brevetti è rigorosamente vietato dai sacerdoti del WTO.
Ma non sono solo gli abitanti del terzo mondo che non riescono a vivere meglio nonostante i progressi della medicina. Le recenti vicende dei farmaci antinfiammatori che si sono rivelati dannosi per il cuore - vicende che hanno messo in crisi la Merck e altre multinazionali del farmaco - hanno chiarito inequivocabilmente, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il profitto è l’unico fine delle imprese (nel 2003 le aziende farmaceutiche hanno realizzato profitti pari, in media, al 15,5% del fatturato), anche a scapito del benessere pubblico. Non c’è da stupirsi dunque se la risposta di Big Pharma alle disavventure alle quali ho appena accennato, non è stata, come sarebbe stato ragionevole immaginare, quella di allungare la durata della sperimentazione al fine di accertare meglio la presenza di eventuali effetti collaterali dannosi, ma al contrario quella di accorciarla da 12 mesi a 6, in modo da poter attribuire alla sfortuna, piuttosto che alla scarsa attenzione per la salute dei consumatori, ogni magagna che successivamente potrebbe manifestarsi. Questo discorso sui farmaci si potrebbe estendere a tutte le tecnologie biomediche, ma non ho le competenze per farlo, né aggiungerebbe granché alle considerazioni che voglio fare.
Le risposte dei sostenitori dell’ideologia neoliberista a queste contestazioni sono note. In primo luogo, si dice, la gente, grazie ai progressi della medicina, vive comunque in media più a lungo. E’ vero, ma non è una consolazione, per chi muore a quarant’anni, sapere che ci sono paesi in cui si vive fino a ottanta, anche perché l’ideologia che l’occidente esporta nel terzo mondo, talvolta anche con le armi, si fonda sulla lusinga, ingannevole, che questo obiettivo sia alla portata di tutti.
Le disuguaglianze - si aggiunge ancora - con il tempo si attenueranno. Questa è una ipocrita bugia. Ce lo spiega con molta chiarezza il noto economista americano Lester Thurow in un libro che è al tempo stesso un’esaltazione del capitalismo, e una lucida descrizione dei suoi meccanismi. “Spesso la disuguaglianza – leggiamo - viene descritta come se fosse una malattia del nostro sistema economico, e se ne deplora la persistenza. Ma non si tratta di una patologia, bensì di una delle caratteristiche basilari del sistema.” Infatti, prosegue, “la disuguaglianza dei redditi è intrinseca alla natura stessa del capitalismo. La massimizzazione dei profitti costituisce già di per sé un forte impulso all’efficienza, ma impone anche di lasciar fuori coloro che al capitalismo non servono (anziani, malati, disoccupati) e di ridurre al minimo i salari della sua forza lavoro.” In particolare, leggiamo ancora, “non esistendo meccanismi per attenuare gli squilibri, non c’è dubbio che l’economia basata sulla conoscenza stia per intensificare ulteriormente le disuguaglianze di capacità e competenze esistenti fra Paesi e fra singoli individui”. In conclusione: “La normale risposta politica alla crescente disuguaglianza e alla maggiore insicurezza economica dovrebbero essere iniziative dei governi volte a ridurre le disuguaglianze e le insicurezze del mercato. Ma proprio quando ci sarebbe bisogno di un rafforzamnto del cosiddetto welfare, gli Stati tendono a ridurre i propri interventi in materia di benessere e di sicurezza sociale.”
La seconda risposta dei neoliberisti alla questione delle disuguaglianze consiste invece nel rivendicare alla ricerca privata, in quanto più efficiente e dinamica di quella pubblica, il merito di rappresentare la punta di diamante delle attività rivolte ad allungare sempre di più la durata della vita umana e a combattere sempre più efficacemente l’insorgere delle malattie. Ma anche questa tesi è esposta alla critica che queste finalità, a causa degli investimenti crescenti necessari per il loro perseguimento, saranno fruibili soltanto da un pubblico sempre più ricco e ristretto. Che questa tendenza sia ineluttabile è dimostrato dal fatto che è proprio questo l’argomento addotto multinazionali della salute per giustificare la necessità di brevettare tutti i risultati ottenuti e di estendere sempre di più la durata dei brevetti.
Da queste premesse segue dunque che in tema di salute lasciare la mano libera ai privati sarebbe irresponsabile e moralmente inaccettabile. Si tratta perciò di affrontare il problema del rapporto fra pubblico e privato, tenendo conto delle finalità del tutto diverse delle due sfere. Per questo il libro di Callahan è meritorio. “Callahan sostiene – scrive Giovanni Azzone nella sua recensione riportata sul sito - che la grande lotta del futuro sarà tra il ruolo della sanità pubblica e della responsabilità personale da una parte e il ruolo del mercato dall'altra.” Ha ragione. Il punto fondamentale è infatti è che se l’assistenza sanitaria accetta supinamente le priorità stabilite dal mercato, non solo andrà in bancarotta, ma favorirà l’aumento delle disuguaglianze tra ricchi e poveri derivante dal crescente impegno di risorse nella cura sempre più costosa delle malattie dei ricchi rispetto a quello della prevenzione e cura delle malattie dei poveri. Sempre per restare sul concreto, Medici senza frontiere garantisce che con 500 euro provvede alla potabilizzazione dell’acqua per diecimila persone per una settimana. Quante vite salverebbe un investimento pubblico di questa entità, tutto sommato modesta rispetto ai bilanci della sanità dei paesi ricchi? Non dovrebbe essere questo il compito di una medicina rivolta ad assicurare a tutti gli abitanti del pianeta il diritto alla salute?
Insomma, se la sanità pubblica ha per obiettivo quello di realizzare il diritto alla salute per tutti – e non c’è dubbio che questo sia il suo compito – essa non può delegarlo a un meccanismo che non solo ha un fine diverso ma che ha anche dimostrato di condurre al risultato opposto. Dovrebbe dunque essere la sanità pubblica a fissare autonomamente i suoi obiettivi coerentemente con il progetto di società democratica che le comunità, nazionali o internazionali, intendono perseguire. Sarà il mercato che deciderà poi i suoi investimenti sulla base di quegli obiettivi.
Non illudiamoci tuttavia che sia una cosa facile. L’ostacolo principale alla realizzazione di questo capovolgimeento è la crescente privatizzazione di tutta la conoscenza in ogni settore delle discipline della vita e della mente ralizzata attraverso un sistema onnicomprensivo di brevetti di durata sempre più lunga (vedi gli accordi TRIPS del WTO). Purtroppo, nessuno obietta che, dopotutto, la riduzione della conoscenza a merce destinata ad essere acquistata e fruita individualmente, è una artificiosa reificazione di un bene che, se da un lato è frutto della creatività individuale di persone particolarmente dotate che vanno indubbiamente ricompensate, dall'altro non nasce dal nulla ma trae ispirazione dal patrimonio culturale comune dell’umanità e a sua volta acquista senso soltanto se va ad accrescere questo patrimonio.
Basterebbe invece una drastica riduzione del periodo di validità dei brevetti per orientare anche il mercato verso consumi socialmente più equi ed eticamente più giustificabili. La durata di un brevetto non è un tabù, né una legge di natura, come sostengono gli ingenui (?) e non disinteressati sostenitori dello slogan “tutto quello che le tecnoscienze sono in grado di realizzare deve essere fatto”. Ad essi diciamo almeno che nascondere dietro la bandiera del progresso della scienza i profitti, più o meno puliti delle multinazionali non è una bella cosa.

Marcello Cini, Università La Sapienza, Roma

Comment from FLaminio Musa, posted on Monday 21 February 2005 at 06:03 PM

La "medicina impossibile" pone il problema del come migliorare l'efficienza e l'efficacia della cura della salute, all'interno però di un sistema di costi compatibili. Non esistono bacchette magiche o toccasana. Purtroppo però siamo abituati a ragionare in termine di pil, e tutto ciò che non tocca in mondo sensibile, almeno lo 0,01%, il pil è trascurato. Eppure esistono piccoli interventi locali e limitati che possono dare risultati ovviamente anch'essi limitati e locali, che però messi insieme possono avere qualche sensibilità sul pil. In questi giorni il ministero della salute sta diffondendo in tutta Italia un opuscolo per limitare il consumo dei farmaci. A parte i dubbi personali su iniziative di questo genere mi chiedo, e chiedo, se iniziative rivolte a modificare il confezionamento non possano dare risultati più efficaci. In questi giorni il mio medico curante mi ha ordinato per i prossimi trenta giorni due pillole al dì di un certo farmaco. Poiché la confezione è di 14 pillole per scatola il servizio sanitario invece di 60 pillole me ne dovrà fornire 70, in pratica un 15% in più.
Fra tutto ciò che è possibile fare per rendere più efficace e meno costosa la moderna medicina tecnologizzata un posto importante è dato dalla prevenzione e in questa ottica vorrei sottolineare il ruolo che nella prevenzione ha e può avere il volontariato. E non solo per la diffusione della cultura della prevenzione, ma anche nel praticarla. E' noto che difficoltà, oltre che di ordine economico, anche di tipo organizzativo e logistico, rappresentano un freno alle strutture pubbliche ad effettuare scrreeneng di massa; difficoltà che invece il volontariato organizzato può risolvere.Per esempio la sezione della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori da me presieduta già da anni attraverso ambulatori per visite senologiche effettua un monitoraggio su più di 10000 donne/anno creando un filtro di fronte alle mammografie. D'altra parte da un po' di tempo abbaimo effettuato indagini di masse per la diagnosi precoce dei tumori al colon-retto. Questo da un lato ha consentito di salvare numerose vite umane ma anche di intervenire all'inizio della malattia con il conseguente abbattimento di terapie dolorose e onerose.
Dr. Flaminio Musa
Presidente Sezione di Parma LILT

Comment from Roberto Panzarani, posted on Tuesday 22 February 2005 at 05:09 PM

Su sollecitazione di vari colleghi che curano il sito della Fondazione Bassetti provo anch'io ad intervenire su un tema che non mi vede particolarmente esperto, ma che al tempo stesso è di importanza cruciale per noi e la nostra società . Non conosco l'opera di Daniel Callahan ma quello che ho appreso leggendo tutte le informazioni riportate nel sito e leggendo alcuni autorevoli commenti mi ha molto colpito. Quello che farò sarà dunque una veloce riflessione che spero possa comunque alimentare il dibattito.
Due cose mi sembra importante ricordare .
Primo tutta l'opera di Michel Foucault ed in particolare il concetto di "biopolitica" da lui praticamente coniato . Ho letto commenti sul rapporto tra medicina e politica e penso sia importante riprendere il concetto di Foucault che vede l'immanenza della " vita" nella politica e le ritiene inscindibili. Ecco perchè ha ragione Callahan quanfdo parla di medicina sostenibile.
L'altra cosa è la praticabilità di questo concetto e qui vorrei ricordare il libro di Jared Diamond "Germi acciaio e malattie" ed Einaudi. Oltre ad analizzare il concetto di malattia come uno dei fattori fondamentali nella conquista del pianeta da parte di alcune popolazioni nei confronti di altre ricorda una cosa importante :che ci sono voluti alcuni millenni prima che due estranei per il solo fatto di incontrarsi lungo una strada e di non conoscersi si ammazzassero tra loro.
Questa è la nostra epoca : aver normalizzato il concetto di guerra da parte della politica riporta l'uomo al tempo della clava ( v. Eistein sulla quarta guerra mondiale ) parlare di medicina, di salute , di benessere diventa "im- possibile." rendendo "non sostenibile" persino il concetto stesso di vita.
Ci vuole quindi molto coraggio ad affrontare questo tema in questo momento e apprezzo molto l'illuminismo della Fondazione nell'aver invitato Callahan a Milano.

Comment from Giuseppe Lanzavecchia, posted on Friday 25 February 2005 at 04:18 PM

Il dibattito che s'è instaurato tra i partecipanti é stato assai interessante in virtù dell'ampio ventaglio di angolature e opinioni.
Nel mio intervento, come è stato notato, ho fatto rtiferimento alla posizione estremista del "transhumanism" e, alla sera dello stesso giorno nel quale l'ho scritto e mandato, ho avuto modo di leggere l'articolo di Francis Fukuyama sul Corriere; volevo scrivere al riguardo, ma poi ho lasciato perdere. Debbo innanzitutto precisare che non condivido, in generale, nessuna delle idee di Fukuyama; nel caso specifico so che c'è il rischio di giungere a diseguaglianze, come ho fatto rilevare già alcuni anni fa e anche in una lezione che ho tenuto nel 2004 all'Università di Urbino. Riporto da IMES News 8, 2004:
Lezione: Uomo ed evoluzione, G. Lanzavecchia. "L'homo sapiens non è evoluto geneticamente (individuo), ma solo culturalmente (gruppo). La scienza può modificare la struttura genetica dell'uomo, alterare umore e comportamenti, accrescere la massa muscolare, cancellare e modificare in modo selettivo la memoria, fare terapie geniche e screening prenatali, ossia "perfezionare" la specie. Un solo secolo e si giungerà a conseguenze inimaginabili. Bioetici, politici, gente comune si preoccupano di aspetti marginali (clonazione, cellule staminali, procreazione assistita). La prima vittima dell'avvento di esseri "superiori" potrebbe essere l'uguaglianza."
In altra sede ho anche specificato che la scelta di non approfittare delle nuove possibilità d'evoluzione genetica è comunque libera, almeno nei paesi cosiddetti sviluppati. Si tratta di scegliere lo sviluppo coi suoi rischi o la precauzione o lo stop di Callahan.
Potrei fare tanti altri commenti, ma mi limito a rammentare un articolo di Massimo Gaggi apparso oggi sul Corriere (25 febbraio) "Medici in prima linea? Sei ore per quattro punti" che spiega chiaramente come il costo della salute possa essere astronomico: si può ridurlo o riducendo lo sforzo per curare oppure ricorrendo a sistemi di cura enormemente più efficaci. Conosco abbastanza di storia per sapere che io e non Callahan avrò ragione, non in termini di logica, sensatezza o addirittura di verità, ma di previsione, ancorché grossolana, di come andrà a finire questa vicenda. Con un caro saluto
Giuseppe Lanzavecchia, Roma

Comment from Mario Castellaneta, posted on Saturday 26 February 2005 at 11:48 AM

Anche se non sono convinto che tutte le speranze create dalle nuove tecnologie mediche siano delle "false hopes", ritengo che la conferenza di Callahan ponga quesiti di rilevante importanza:

1) la spesa medica cresce a ritmi insostenibili nel lungo periodo. Questo non deve necessariamente portarci a criticare le medicine e le spese sostenute per trovarle; quale è la percentuale di spesa sanitaria dovuta alle medicine? Credo che la parte di gran lunga più rilevante non sia questa e pertanto ci siano spazi di inefficienza su cui intervenire prima di attaccare le medicine.

2) fino ad oggi la spesa in ricerca farmaceutica sostenuta dalle multinazionali ha portato indubbi benefici che, con il miglioramento delle condizioni di vita e ambientali, ha comportato un allungamento impressionante della speranza di vita.

3) certamente casi come quello recentissimo degli antidolorifici (Vioxx) devono indurci a guardare con maggiore attenzione ai meccanismi di interazione tra pubblico e privato: se la famosa FDA (l'ente pubblico che negli USA presiede all'approvazione dei farmaci) non "intercetta" preventivamente un farmaco del genere è chiaro che qualcosa nei meccanismi va migliorato.

Certo va controllato il dispiegarsi di quella che John K. Galbraith aveva definito la "sequenza capovolta" cioè un'azione di vendita aggressiva gestita dai produttori farmaceutici: in parole povere la creazione di bisogni indotti che in questo settore si presenta particolarmente delicata; non dimentichiamo che le spese per le azioni di marketing sostenute dalle aziende si ritrovano nel prezzo dei prodotti. D'altra parte anche il mercato sembra percepire che è necessario introdurre dei cambiamenti se è vero, come si deduce dalla lettura dell'Economist di questa settimana, che alcune delle principali società farmaceutiche si stanno orientando maggiormente verso i prodotti generici e meno verso i cosiddetti blockbusters (prodotti rivoluzionari) la cui scoperta diviene sempre più difficile: non sono un esperto, ma ho sentito dire da gente del mestiere che la scoperta di un nuovo prodotto costa circa un miliardo di euro.

Le persone, soprattutto i malati, hanno bisogno di speranze che la scienza medica in passato ha frequentemente trasformato in certezze. La vera novità attuale è che per la prima volta la tecnologia sta "maneggiando" le basi stesse della vita e questo ne ha cambiato la natura rendendo sempre più indispensabile l'interazione tra scienza e politica senza auspicare la prevalenza di nessuna delle due: nessuno ci può assicurare, infatti, che la politica, il cui primo interesse è la conquista del consenso, curi gli interessi dei cittadini meglio degli altri attori del sistema, aziende incluse?

Mario Castellaneta