Interventi al Forum nel mese di Febbraio 2001

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Anno 2001 : Gennaio | Febbraio | Marzo | Aprile| Maggio | Giugno | Luglio | AgostoSettembre | Ottobre | Novembre | Dicembre |

From: Andrea  <antatafi@t...>
Date: Thu Feb 1, 2001 4:28pm
Subject: Mercato e diritto

Pongo all' illustre attenzione del Forum alcune riflessioni suscitatemi dall'intervento di Giuseppe Cattaneo circa la tematica dei rapporti tra "Mercato e Diritto". Premetto che il sottoscritto reputa l'"inadeguatezza" delle istituzioni, nei confronti dei ritmi del mercato, genetica. Per "inadeguatezza genetica" intendo che la presenza di un ordinamento giuridico, anche se pensato e costruito secondo il modello illuminista, si presenta comunque "inadeguato" di fronte alla convivenza con un altro ordinamento, a volte parallelo, quello della Businnes community. Se si condivide la presenza, di fatto, di una comunità normativamente semiautonoma non deve destare sorpresa la presenza di un' inadeguatezza, essa è genetica,insita nell'esistere di due entità in un unico campo.

Il modello illuminista richiamato nelle opinioni di Giuseppe Cattaneo presenta già nel suo nascere la consapevolezza di una entità regolata dalla "lex mercatoria". La Business community nel 1700 era molto forte dietro la spinta dei consolidati equilibri economici raggiunti dai frutti di due secoli d' investimenti nelle colonie americane. La grande fiducia nei lumi della ragione dell'illuminismo portò ad un modello condiviso da due ordinamenti quello delle istituzioni e quello delle imprese.

I problemi di questo particolare rapporto (Mercato e Diritto) scaturiscono  dalla mancanza di sufficiente parallelismo in scelte o posizioni. Qualsiasi modello storico e teorico che ponga il cittadino, lo Stato o un tiranno al centro di una comunità, se oggi vuole esistere, deve agire parallelamente agli interessi del mercato.

Il mercato è la comunità.

A questo punto mi chiedo "chi viene prima", chi si colloca prima...viene prima il mercato o il diritto?Penso che il mercato non può essere "regolato" dal diritto ma solo "uniformato" al diritto come il diritto si "uniforma" al mercato.Il diritto ed il mercato si regolano a vicenda senza riuscire l'uno a sopraffare l'altro. Rappresentano  due facce di una stessa medaglia.La medaglia della comunità.

Una comunità con le proprie regole che può scontare gli errori e le conseguenze del progresso apportato dai ritmi del mercato ma che, sulla base di queste, farà esperienza dei problemi che possono portare, oggi più di ieri, gli interessi e gli investimenti.

Spero che questa comunità arrivi a garantire una vita migliore alle future generazioni ma non è nella vittoria del diritto sul mercato che la nostra società potrà trovare giovamento.

 

 

Andrea Tatafiore

From: vittoriome@l...  <vittoriome@l...>
Date: Fri Feb 2, 2001 9:25am
Subject: Re: Mercato e diritto

 

Vorrei fare osservare a Tatafiore che mercato e diritto non sono né
possono essere due aspetti della stessa medaglia.... il mercato è una
creazione del diritto, poichè lo scambio sistematico di diritti su
beni è una nozione giuridica.... i beni sono tali perchè li
considera l'ordinamento, i diritti pure, per non parlare dello scambio,
che è costituito da contratti... che nascono solo dal
diritto... Quest'ultimo, poi, non è detto che debba essere figlio dello
Stato, creatura istituzionale nata da qualche secolo e in via di
estinzione nel mercato globale... che stenta ad essere mercato in senso
stretto proprio perchè gli mancano alcune regole... fra cui l'antitrust
a livello planetario.
Il diritto può nascere anche dalle corporazioni, o dall'arroganza delle
multinanzionali che impongono le proprie regole: basta che sia
coercibile, in qualunque forma, che diviene regola giuridica...
Quindi, per finire, non confondiamo le carte in tavola, perché
altrimenti non ci si capisce più nulla: il mercato è tale perchè
giuridico, il diritto lo deve regolare, il problema è la legittimazione
delle fonti che producono il diritto, e di quali regole giuridiche vi
sia bisogno nello scambio globale.
grazie
vittorio menesini


----- Original Message -----
Pongo all' illustre attenzione del Forum alcune riflessioni
suscitatemi dall'intervento di Giuseppe Cattaneo circa la tematica dei
rapporti tra "Mercato e Diritto".
(...)

From: ilpolitecnico  <ilpolitecnico@t...>
Date: Fri Feb 2, 2001 4:24pm
Subject: R: Mercato e diritto

 

Probabilmente il mercato ha sue regole di comportamento e sue leggi, le
istituzioni hanno regole di comportamento e leggi proprie e l'esigenza etica
(la tutela del terzo) ha probabilmente regole di comportamento e leggi
ancora diverse. C'è poi una esigenza della logica umana che vorrebbe che
queste regole e queste leggi fossero coordinate fra loro. la legge dello
scambio mercantile, la legge dello scambio sociale e la legge dell'anima
dovrebbero essere uniformate ad un unico principio logico.
probabilmente non è così. probabilmente occorre che l'uomo accetti che la
legge dell'anima non si sovrapponga e non determini le leggi del diritto.
come ci è stato insegnato dalla storia la conoscenza è stata spesso per
l'essere umano niente altro che l'accettazione di un limite. come
contropartita alla disillusione è stato dato all'uomo accesso ad una forma
di conoscenza pratica.
la scienza galileiana segna il limite del sapere teologico sul mondo,l'uomo
dopo Galileo non è più al centro dell'universo e non può più con
l'intercessione di Dio influire sul mondo. non ha più poteri magici ma ha
una teoria della tecnica.
il sapere freudiano segna il limite del sapere scientifico. l'uomo dopo
Freud sa che non è il solo autore di quello che pensa ma questa rinuncia
all'onnipotenza dell'io sul pensiero gli consente di formulare un sapere
pratico sui motivi del suo comportamento.
forse esiste ancora un sapere mitologico di cui occorre liberarsi: è quello
che dà all'uomo l'illusione di determinarsi socialmente in modo libero.
occorre forse rinunciare all'idea che i rapporti economici e le leggi del
diritto siano determinati dagli uomini.
In questo senso sono d'accordo con Andrea Tatafiore: c'è una "inadeguatezza
genetica" delle istituzioni e del diritto in generale a rappresentare i
rapporti fra gli uomini. si tende a chiedere alle istituzioni ed al diritto
cose che non sono in grado di dare. si attribuisce alle istituzioni
quell'onnipotenza che un tempo era stata attribuita a dio
questo ha la sua origine nel modo in cui l'illuminismo ha concepito le
istituzioni e lo Stato moderno. quello che prima aveva una fondazione
trascendente con l'illuminismo ha ora una fondazione immanente ma la natura
dell'istituzione e del diritto non si sono trasformati di conseguenza ma
hanno mantenuto gli attributi della trascendenza.
come nella metapsicologia freudiana la dove c'era l'ES deve esserci l'IO non
significa che l'IO sostituisce l'ES e le sue pulsioni ma che l'IO deve
essere compenetrato dal desiderio di cui l'ES è portatore. così in una
concezione illuminista del diritto la dove c'era la legge dell'anima deve
esserci il diritto positivo non significa semplicemente che il diritto
positivo si sostituisce alla legge dell'anima.
se io compio una azione per ottenere un certo risultato e questa azione muta
il risultato che mi ero proposto di ottenere perchè l'altro a cui la mia
azione era rivolta risponde con una sua azione. se l'azione che io compio
non solo trova risposta nell'altro ma anche in un terzo, l'istituzione, che
si comporta come una parte ecco che l'azione che io compio avra un effetto
ancora diverso da quello che io mi ero proposto e da quello che avrebbe
dalla semplice interazione con l'altro che mi risponde. questo tende a far
si che sia impossibile determinare i risultati dell'azione sociale. se io
sono l'istituzione cercherò di conseguenza di annullare le variabili
introdotte nel risultato delle mie azioni dalle altre parti con l'idea di
poter ottenere il risultato desiderato. questa azione di annullamento della
volonta delle altre parti è attuata sostanzialmente attraverso l'imposizione
della legge e del diritto positivo.
si pensa che sia sufficiente imporre una legge per poter prevedere un
risultato. Non è così. La legge del mercato afferma appunto che al desiderio
non possono essere messi limiti, che non c'è maitrise del desiderio. almeno
non attraverso la semplice trasformazione della legge dell'anima in diritto
positivo.
giuseppe cattaneo

From: Fulvio Ferrieri  <fulvio.ferrieri@l...>
Date: Fri Feb 2, 2001 5:20pm
Subject: R: Mercato e diritto

 

Il mercato, a mio avviso, è piuttosto l'ambito definito dagli scambi
e dalle loro leggi economiche che si fondano sul principio di proprietà
e della cedibilità dei titoli di proprietà.
L'unico diritto anteriore nel tempo al mercato è quindi il diritto di
proprietà.
Solo concordando su questo punto possiamo discutere di mercato
e diritto.

Fulvio Ferrieri

----- Original Message -----
From: <vittoriome@l...>
To: <fondazionebassetti@yahoogroups.com>
Sent: Friday, February 02, 2001 10:25 AM
Subject: Re: [fondazionebassetti] Mercato e diritto

Vorrei fare osservare a Tatafiore che mercato e diritto non sono né
possono essere due aspetti della stessa medaglia.... il mercato è una
creazione del diritto, poichè lo scambio sistematico di diritti su
beni è una nozione giuridica
(...)

----- Original Message -----
Pongo all' illustre attenzione del Forum alcune riflessioni
suscitatemi dall'intervento di Giuseppe Cattaneo circa la tematica dei
rapporti tra "Mercato e Diritto".
(...)



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From: Andrea  <antatafi@t...>
Date: Fri Feb 2, 2001 10:32pm
Subject: (fondazione Bassetti) Mercato e diritto

 

Le osservazioni di Vittorio Menesini, il cui intervento circa questa tematica era da me atteso, mi sembrano inconfutabili se si riflette sul rapporto tra "diritto e mercato" come emergente nel dare un' accezione "propria" ed esatta al termine ed al concetto di diritto. Ma il mio precedente intervento del 1 Febbraio 2001 era suscitato e seguiva il filo conduttore delineato da Giuseppe Cattaneo il quale, dietro al rapporto tra mercato e diritto, nel suo intervento del 29 Gennaio 2001, si è soffermato su un' accezione "allargata" e "politica" del concetto di diritto (apprezzabile ed interessante) riferendosi alle istituzioni ed allo Stato fino ad auspicare un ripristino del controllo del cittadino sullo Stato.
So che il concetto di diritto (senza differenziare tra naturale o positivo) è uno e per la mia elasticità, nell'uso fatto del termine nell' ultimo intervento, faccio ammenda anche se, ripeto, ciò è stato fatto solo nel rispetto di un filo conduttore che seguiva una particolare accezione.
Il mercato è una creazione del diritto ma è anche vero che non sono sempre creazione del diritto gli effetti incontrollati del mercato. Intendo dire che il mercato gode di una autonomia che investe campi non ancora regolati in modo specifico dal diritto (basta pensare ad Internet!) e che permettono allo stesso di superare, a volte, gli stessi princìpi di base posti dal diritto che è suo creatore. Si deve prendere atto del fatto che storicamente e giuridicamente il diritto è padre del mercato ma che oggi questo pantagruelliano figlio sembra guidare suo padre fino a costituire un ordinamento giuridico separato, e talvolta in competizione con quelli statuali, come rilevato da Francesco Galgano nel suo "Lex mercatoria" (Il Mulino, 1993).
Il diritto regola il mercato ma quest'ultimo può esistere, in alcuni nuovi campi, prima del diritto ed un insieme d'interessi, consolidatisi nel tempo, penso incidano sulle regole a cui questi spazi verranno sottoposti. Ecco perchè dovrebbe parlarsi a mio avviso di attività di "uniformazione" del mercato al diritto insieme a quella o prima di quella di "regolazione" da parte del diritto.
Per quanto riguarda il mercato penso che il diritto opera su di un substrato che incide sui paletti di confine, che il diritto dovrà piantare, oltre la normale incidenza a cui esso è naturalmente sottoposto.
grazie
Andrea Tatafiore

From: Piero Piazzano (by way of FGB Staff)  <piazzano_f@s...>
Date: Fri Feb 9, 2001 4:09pm
Subject: Biotechnology Food: From the Lab to a Debacle

 

Trasmetto un articolo che mi sembra molto interessante a proposito della
gestione dei rapporti tra imprenditoria innovativa, scienza e pubblico. E
di come errori di gestione possono provocare guai seri.

Piero Piazzano

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The New York Times on the Web

Biotechnology Food: From the Lab to a Debacle
http://www.nytimes.com/2001/01/25/business/25FOOD.html

January 25, 2001

By KURT EICHENWALD, GINA KOLATA and MELODY PETERSEN

The following article was reported by Kurt Eichenwald, Gina Kolata
and Melody Petersen and was written by Mr. Eichenwald.

In late 1986, four executives of the Monsanto Company, the leader
in agricultural biotechnology, paid a visit to Vice President
George Bush at the White House to make an unusual pitch.

Although the Reagan administration had been championing
deregulation across multiple industries, Monsanto had a different
idea: the company wanted its new technology, genetically modified
food, to be governed by rules issued in Washington and wanted the
White House to champion the idea.

"There were no products at the time," Leonard Guarraia, a former
Monsanto executive who attended the Bush meeting, recalled in a
recent interview. "But we bugged him for regulation. We told him
that we have to be regulated."

Government guidelines, the executives reasoned, would reassure a
public that was growing skittish about the safety of this radical
new science. Without such controls, they feared, consumers might
become so wary they could doom the multibillion-dollar gamble that
the industry was taking in its efforts to redesign plants using
genes from other organisms including other species.

In the weeks and months that followed, the White House complied,
working behind the scenes to help Monsanto long a political power
with deep connections in Washington get the regulations that it
wanted.

It was an outcome that would be repeated, again and again, through
three administrations. What Monsanto wished for from Washington,
Monsanto and, by extension, the biotechnology industry got. If
the company's strategy demanded regulations, rules favored by the
industry were adopted. And when the company abruptly decided that
it needed to throw off the regulations and speed its foods to
market, the White House quickly ushered through an unusually
generous policy of self-policing.

Even longtime Washington hands said that the control this nascent
industry exerted over its own regulatory destiny through the
Environmental Protection Agency, the Agriculture Department and
ultimately the Food and Drug Administration was astonishing.

"In this area, the U.S. government agencies have done exactly what
big agribusiness has asked them to do and told them to do," said
Dr. Henry Miller, a senior research fellow at the Hoover
Institution, who was responsible for biotechnology issues at the
Food and Drug Administration from 1979 to 1994.

The outcome, at least according to some fans of the technology?
"Food biotech is dead," Dr. Miller said. "The potential now is an
infinitesimal fraction of what most observers had hoped it would
be."

While the verdict is surely premature, the industry is in crisis.
Genetically modified ingredients may be in more than half of
America's grocery products. But worldwide protest has been
galvanized. The European markets have banned the products and some
American food producers are backing away. A recent discovery that
certain taco shells manufactured by Kraft contained Starlink, a
modified corn classified as unfit for human consumption, prompted a
sweeping recall and did grave harm to the idea that self-regulation
was sufficient. The mighty Monsanto has merged with a
pharmaceutical company.

How could an industry so successful in controlling its own
regulations end up in such disarray?

The answer pieced together from confidential industry records,
court documents and government filings, as well as interviews with
current and former officials of industry, government and
organizations opposing the use of bioengineering in food provides
a stunning example of how management, with a few miscalculations,
can steer an industry headlong into disaster.

For many years, senior executives at Monsanto, the industry's
undisputed leader, believed that they faced enormous obstacles from
environmental and consumer groups opposed to the new technology.
Rather than fight them, the original Monsanto strategy was to bring
in opponents as consultants, hoping their participation would ease
the foods' passage from the laboratory to the shopping cart.

"We thought it was at least a decade-long job, to take our efforts
and present them to environmental groups and the general public,
and gradually win support for this," said Earle Harbison Jr., the
president and chief operating officer at Monsanto during the late
1980's.

But come the early 1990's, the strategy changed. A new management
team took over at Monsanto, one confident that worries about the
new technology had been thoroughly disproved by science. The go-
slow approach was shelved in favor of a strategy to erase
regulatory barriers and shove past the naysayers. The switch
invigorated the opponents of biotechnology and ultimately dismayed
the industry's allies the farmers, agricultural universities and
food companies.

"Somewhere along the line, Monsanto specifically and the industry
in general lost the recipe of how we presented our story," said
Will Carpenter, the head of the company's biotechnology strategy
group until 1991. "When you put together arrogance and
incompetence, you've got an unbeatable combination. You can get
blown up in any direction. And they were."

Biology Debate
New Microbes Bring New Fears

In the summer of 1970, Janet E.
Mertz was working at Cold Spring Harbor Laboratory, picking up tips
on animal viruses from Dr. Robert Pollack, a professor at the
private research center on Long Island and a master in the field.
One day she began to explain to Dr. Pollack the experiment she was
planning when she returned to her graduate studies in the fall at
Stanford University with her adviser, Dr. Paul Berg. They were
preparing to take genes from a monkey virus and put them into a
commonly used strain of bacteria, E. coli, as part of an effort to
figure out the purposes of different parts of a gene.

Dr. Pollack was horrified. The virus she planned to use contained
genes that could cause cancer in rodents, he reminded her. Strains
of E. coli live in human intestines. What if the viral genes
created a cancer- causing microbe that could be spread from person
to person the way unmodified E. coli can. Dr. Pollack wanted Ms.
Mertz's project halted immediately. .

"I said to Janet, `There's a human experiment I don't want to be
part of,' " Dr. Pollack said in a recent interview.

The resulting transcontinental shouting match between Dr. Pollack
and Dr. Berg set off a debate among biologists around the world as
they contemplated questions that seemed lifted from science
fiction. Were genetically modified bacteria superbugs? Would they
be more powerful than naturally occurring bacteria? Would
scientists who wanted to study them have to move their research to
the sort of secure labs used to study diseases like the black
plague?

"The notion of being able to move genes between species was an
alarming thought," said Alexander Capron, a professor of law and
medicine at the University of Southern California in Los Angeles.
"People talked about there being species barriers you're
reorganizing nature in some way."

As researchers joined in the debate, they came to the conclusion
that strict controls were needed on such experiments until
scientists understood the implications. In 1975, the elite of the
field gathered at the Asilomar conference center in Pacific Grove,
Calif. There, they recommended that all molecular biologists
refrain from doing certain research and abide by stringent
regulations for other experiments. To monitor themselves, they set
up a committee at the National Institutes of Health to review and
approve all research projects.

It took just a few years and hundreds of experiments before
the most urgent questions had their answers. Over and over again,
scientists created bacteria with all manner of added or deleted
genes and then mixed them with naturally occurring bacteria.

But rather than creating superbugs, the scientists found
themselves struggling to keep the engineered bacteria from dying as
the more robust naturally occurring bacteria crowded them out.

It turned out that adding almost any gene to bacteria cells only
weakened them. They needed coddling in the laboratory to survive.
And the E. coli that Ms. Mertz had wanted to use were among the
feeblest of all.

By the mid-1980's, the Institutes of Health lifted its
restrictions. Even scientists like Dr. Pollack, who sounded the
initial alarm, were satisfied that the experiments were safe.

"The answer came out very clearly," he said. "Putting new genes
into bacteria did not have the unintended consequence of making the
bacteria dangerous."

That decision echoed through industry like the sound of a
starter's pistol. First out of the gate were the pharmaceutical
companies, with a rapid series of experiments on how the new
science could be used in medicines. Hundreds of drugs went into
development, including human insulin for diabetes, Activase for the
treatment of heart attacks, Epogen for renal disease and the
hepatitis B vaccine.

"It's been huge," said Dr. David Golde, physician in chief at
Memorial Sloan-Kettering Cancer Center in New York. "It has changed
human health."

The success that modifying living organisms would bring the
pharmaceutical industry quickly attracted attention from some of
the nation's largest agricultural companies, eager to extend their
staid businesses into an arena that Wall Street had endowed with
such glamour.

Reaching Out
Monsanto Takes a Soft Approach

In June 1986, Mr. Harbison took control of Monsanto's push into
biotechnology, a project snared in mystery and infighting. A
19-year veteran of Monsanto who had recently become its president
and chief operating officer, he formed a committee to lead the
charge.

"There is little more important than this task in our corporation
at this time," Mr. Harbison wrote to the 13 executives selected for
the assignment.

"We recognized early on," Mr. Harbison said in a recent interview,
"that while developing lifesaving drugs might be greeted with
fanfare, monkeying around with plants and food would be greeted
with skepticism." And so Mr. Harbison drafted a plan to reach out
to affected groups from environmentalists to farmers to win
their support.

That same month, the company's lobbying effort for regulation
began to show its first signs of success. The Environmental
Protection Agency, the Department of Agriculture and the Food and
Drug Administration were given authority over different aspects of
the business, from field testing of new ideas to the review of new
foods.

In an administration committed to deregulation, the heads of some
agencies had been opposed to new rules. At an early meeting,
William Ruckelshaus, then the head of the E.P.A., expressed
skepticism that his agency should play any role in regulating field
testing, according to people who attended. That was overcome only
when Monsanto executives raised the specter of Congressional
hearings about the use of biotechnology to create crops that
contain their own pesticides, these people said.

By fall, Monsanto's strategy committee was developing a plan for
introducing biotechnology to the public. A copy of a working draft,
dated Oct. 13, 1986, listed what the committee considered the major
challenges: organized opposition among environmental groups,
political opportunism by elected officials and lack of knowledge
among reporters about biotechnology.

It also highlighted more complex issues, including ethical
questions about "tinkering with the human gene pool" and the lack
of economic incentives to transfer the technology to the third
world, where it would probably do the most good.

To solve political problems, the document suggested engaging
elected officials and regulators around the world, "creating
support for biotechnology at the highest U.S. policy levels," and
working to gain endorsements for the technology in the presidential
platforms of both the Republican and Democratic Parties in the 1988
election.

To deal with opponents, the document said, "Active outreach will
encourage public interest, consumer and environmental groups to
develop supportive positions on biotechnology, and serve as regular
advisers to Monsanto."

Former Monsanto executives said that while they felt confident of
the new food's overall safety, they also recognized that
bioengineering raised concerns about possible allergens, unknown
toxins or environmental effects. Beyond that, there was a
reasonable philosophical anxiety about human manipulation of
nature.

"If this business was going to work, one of the things we had to
do was engage in a dialogue with all of the stakeholders, including
the consumer groups and the more rational environmental
organizations," said Mr. Carpenter, who headed the biotechnology
strategy group. "It wasn't Nobel Prize thinking."

A Blunder
Decision on Milk Causes a Furor

Even as Monsanto was assembling
its outreach strategy, other documents show that it was making
strides toward what former executives now acknowledge was a major
strategic blunder. The company was preparing to introduce to
farmers the first product from its biotechnology program: a growth
hormone produced in genetically altered bacteria. Some on the
strategy committee pushed for marketing a porcine hormone that
would produce leaner and bigger hogs.

But, simply because the product was further along in development,
the company decided to go forward with a bovine growth hormone,
which improves milk production in cows despite vociferous
objections of executives who feared that tinkering with a product
consumed by children would ignite a national outcry.

"It was not a wise choice to go out with that product first," Mr.
Harbison acknowledged. "It was a mistake."

Scientists who watched the events remain stunned by Monsanto's
decisions.

"I don't think they really thought through the whole darn thing,"
Dr. Virginia Walbot, a professor of biological sciences at Stanford
University, said of Monsanto's decision to market products that
benefited farmers rather than general consumers. "The way Thomas
Edison demonstrated how great electricity was was by providing
lights for the first nighttime baseball game. People were in awe.
What if he had decided to demonstrate the electric chair instead?
And what if his second product had been the electric cattle prod?
Would we have electricity today?"

The decision touched off a furor. Jeremy Rifkin, director of the
Foundation on Economic Trends, an opponent of biotechnology, joined
with family-farm groups worried about price declines and other
organizations in a national campaign to keep the Monsanto hormone
out of the marketplace. Some supermarket chains shunned the idea;
several dairy states moved to ban it. The first step toward the
shopping cart brought only bad news.

One year later, in 1987, the E.P.A. agreed to allow another
company, Advanced Genetic Sciences, to test bioengineered bacteria
meant to make plants resistant to frost. But under the agency's
guidelines, it had to declare the so-called ice-minus bacteria a
new pesticide classifying frost as the pest.

On April 28 and May 28, strawberry and potato plants were sprayed
in two California cities. Photographs of scientists in regulation
protective gear spacesuits with respirators were broadcast
around the world, generating widespread alarm.

"It was surreal," said Dr. Steven Lindow, a professor at the
University of California at Berkeley, who helped develop the
bacteria.

For the executives at Monsanto, these troubling experiences
reinforced their commitment to the strategy of inclusion and
persuasion.

The most complex challenge came in Europe, where there was deep
distrust of the new foods, particularly among politically powerful
farmers. Faced with such resistance, Mr. Harbison said Monsanto
began subtly shifting its attention from the lucrative European
market to Asia and Africa. The hope was that the economic realities
of a global agricultural marketplace would eventually push Europe
toward a more conciliatory attitude.

But by the early 1990's, company executives said, everything would
change. Mr. Harbison retired. Soon, Monsanto's strategy for
biotechnology was being overseen by Robert Shapiro, the former head
of Monsanto's Nutrasweet unit, who in 1990 had been named head of
the agricultural division.

In no time, former executives said, the strategy inside the
company began to change. Mr. Shapiro demonstrated a devout sense of
mission about his new responsibilities, these executives said. He
repeatedly expressed his belief that Monsanto could help change the
world by championing bioengineered agriculture, while
simultaneously turning in stellar financial results.

Eager to get going, he shelved the go-slow strategy of
consultation and review. Monsanto would now use its influence in
Washington to push through a new approach.

Mr. Carpenter, the former head of the company's biotechnology
strategy group, recalled going to a meeting with Mr. Shapiro, and
cautioning that it seemed risky to tamper with a strategic approach
that had worked well for the company in the past. But, he said, Mr.
Shapiro dismissed his concerns.

"Shapiro ignored the stakeholders and almost insulted them and
proceeded to spend all of his political coin trying to deal
directly with the government on a political basis rather than an
open basis," Mr. Carpenter said.

Mr. Shapiro, now the nonexecutive chairman of the Pharmacia
Corporation, which Monsanto merged with last year, declined to
comment. But in an essay published earlier this year by Washington
University in St. Louis, he acknowledged that Monsanto had suffered
from some of the very faults cited now by critics. `We've learned
that there is often a very fine line between scientific confidence
on the one hand and corporate arrogance on the other," he wrote.
"It was natural for us to see this as a scientific issue. We didn't
listen very well to people who insisted that there were relevant
ethical, religious, cultural, social and economic issues as well."

Turning Point
Objections by Scientists

On May 26, 1992, the vice
president, Dan Quayle, proclaimed the Bush administration's new
policy on bioengineered food.

"The reforms we announce today will speed up and simplify the
process of bringing better agricultural products, developed through
biotech, to consumers, food processors and farmers," Mr. Quayle
told a crowd of executives and reporters in the Indian Treaty Room
of the Old Executive Office Building. "We will ensure that biotech
products will receive the same oversight as other products, instead
of being hampered by unnecessary regulation."

With dozens of new grocery products waiting in the wings, the new
policy strictly limited the regulatory reach of the F.D.A, which
had oversight responsibility for foods headed to market.

The announcement a salvo in the Bush administration's
"regulatory relief" program was in lock step with the new
position of industry that science had proved safety concerns to be
baseless.

"We will not compromise safety one bit," Mr. Quayle told his
audience.

In the F.D.A.'s nearby offices, not everyone was so sure.

Among
them was Dr. Louis J. Pribyl, one of 17 government scientists
working on a policy for genetically engineered food. Dr. Pribyl
knew from studies that toxins could be unintentionally created when
new genes were introduced into a plant's cells. But under the new
edict, the government was dismissing that risk and any other
possible risk as no different from those of conventionally derived
food. That meant biotechnology companies would not need government
approval to sell the foods they were developing.

"This is the industry's pet idea, namely that there are no
unintended effects that will raise the F.D.A.'s level of concern,"
Dr. Pribyl wrote in a fiery memo to the F.D.A. scientist overseeing
the policy's development. "But time and time again, there is no
data to back up their contention."

Dr. Pribyl, a microbiologist, was not alone at the agency. Dr.
Gerald Guest, director of the center of veterinary medicine, wrote
that he and other scientists at the center had concluded there was
"ample scientific justification" to require tests and a government
review of each genetically engineered food before it was sold.

Three toxicologists wrote, "The possibility of unexpected,
accidental changes in genetically engineered plants justifies a
limited traditional toxicological study."

The scientists were displaying precisely the concerns that
Monsanto executives from the 1980's had anticipated and indeed
had considered reasonable. But now, rather than trying to address
those concerns, Monsanto, the industry and official Washington were
dismissing them as the insignificant worries of the uninformed.
Under the final F.D.A. policy that the White House helped usher in,
the new foods would be tested only if companies did it. Labeling
was ruled out as potentially misleading to the consumer, since it
might suggest that there was reason for concern.

"Monsanto forgot who their client was," said Thomas N. Urban,
retired chairman and chief executive of Pioneer Hi-Bred
International, a seed company. "If they had realized their client
was the final consumer they should have embraced labeling. They
should have said, `We're for it.' They should have said, `We insist
that food be labeled.' They should have said, `I'm the consumer's
friend here.' There was some risk. But the risk was a hell of a lot
less."

Even some who presumably benefited directly from the new policy
remain surprised that it was adopted. "How could you argue against
labeling?" said Roger Salquist, the former chief executive of
Calgene, whose Flavr Savr tomato, engineered for slower spoilage,
was the first fruit of biotechnology to reach the grocery store.
"The public trust has not been nurtured," he added.

In fact, the F.D.A. policy was just what the small band of
activists opposed to biotechnology needed to rally powerful global
support to their cause.

"That was the turning point," said Jeremy Rifkin, the author and
activist who in 1992 had already spent more than a decade trying to
stop biotechnology experiments. Immediately after Vice President
Quayle announced the F.D.A.'s new policy, Mr. Rifkin began calling
for a global moratorium on biotechnology as part of an effort that
he and others named the "pure food campaign."

He quickly began spreading the word to small activist groups
around the world that the United States had decided to let the
biotechnology industry put the foods on store shelves without tests
or labels. Mr. Rifkin said that he got support from dozens of small
farming, consumer and animal rights groups in more than 30
countries. In Europe, these small groups helped turn the public
against genetically altered foods, tearing up farm fields and
holding protests before television cameras.

If the F.D.A. had required tests and labels, Mr. Rifkin said, "it
would have been more difficult for us to mobilize the opposition."

Today, the handful of nonprofit groups that joined Mr. Rifkin's in
lobbying the F.D.A. for stronger regulation in 1992 have multiplied
to 54. Those groups, including the Sierra Club, Friends of the
Earth, the Natural Resources Defense Council, Public Citizen and
the Humane Society of the United States, signed a petition this
spring demanding that the government take genetically engineered
foods off the market until they are tested and labeled.

"There is absolutely no question that the voluntary nature of the
policy was unacceptable to many," said Andrew Kimbrell, one of the
early activists to oppose biotechnology and now the executive
director of the Center for Food Safety, which filed the petition.

The F.D.A. policy has also helped organizations like Mr.
Kimbrell's raise money. In late 1998 groups opposed to
biotechnology approached the hundreds of foundations that give
regularly to environmental causes and told them about the
government's decision to let the companies regulate themselves.
Since then, the foundations have given the groups several million
dollars out of concern over the policy, said Christina Desser, a
lawyer in San Francisco involved in the fund-raising effort.

There was also an about-face in the approach to dealing with
overseas markets. As the Clinton administration came to Washington,
Monsanto maintained its close ties to policy makers particularly
to trade negotiators. For example, Mr. Shapiro was friends with
Mickey Kantor, the United States trade negotiator who would
eventually be named a Monsanto director.

Confrontation in trade negotiations became the order of the day.
Senior administration officials publicly disparaged the concerns of
European consumers as the products of conservative minds unfamiliar
with the science.

"You can't put a gun to their head," Mr. Harbison said of the
toughened trade strategy with Europe. "It just won't sell."

And it didn't. Protests erupted in Europe, and genetically
modified foods became the rallying point of a vast political
opposition. Exports of the foods slowed to a stop. With a vocal and
powerful opposition growing in both Europe and America, the
perceived promise of biotechnology foods began to slip away.

By the end of the decade, the magnitude of Monsanto's error in
abandoning its slow, velvet-glove strategy of the 1980's was
apparent. Mr. Shapiro himself acknowledged as much. In the fall of
1999, he appeared at a conference sponsored by Greenpeace, the
environmental group and major biotechnology critic.

There, while declaring his faith in biotechnology, Mr. Shapiro
acknowledged that his company was guilty of "condescension or
indeed arrogance" in its efforts to promote the new foods. But it
was too late for a recovery. Soon after that speech, with the
company's stock price in the doldrums because of its struggles with
agricultural biotechnology, Monsanto itself ended its existence as
an independent company. It was taken over by Pharmacia, a New
Jersey drug company.

In recent months, biotechnology has been struggling with the
consequences of its blunders. Leading food companies like Frito-Lay
and Gerber have said they will avoid certain bioengineered food.
And grain companies like Archer Daniels Midland and Cargill have
asked farmers to separate their genetically modified foods from
their traditional ones. That, in turn, creates complex, costly and
as the Starlink fiasco shows at times flawed logistical
requirements for farmers.

Efforts have been made by industry and government to assuage
public concerns although critics of the technology maintain that
the attempts do not go far enough. Last week, the F.D.A. announced
proposed rule changes requiring the submission of certain
information that used to be provided voluntarily. But even
supporters of the rule change say that it will make little
practical difference in the way the business works, since companies
have universally submitted all such information in the past, even
under the voluntary standard.

And the industry itself has started down a new path, with a
multimillion-dollar advertising campaign promoting genetically
engineered foods as safe products that provide enormous benefits to
populations around the world an effort that some food industry
officials say has come 10 years too late.

"For the price of what it would have cost to market a new
breakfast cereal, the biotech industry probably could have saved
itself a lot of the struggle that it is going through today," said
Gene Grabowski, a spokesman with the Grocery Manufacturers of
America, a trade group.

And in recent weeks, Monsanto itself has announced plans to chart
a new course one with striking similarity to the course abandoned
in 1992 reviving its outside consultations with environmental,
consumer and other groups with concerns or interest in the
technology.

For the corporate veterans who set the original strategy, this is
scant solace. A dream they had worked so hard to achieve had, at
the very least, been set back by years.

"You can't imagine how I have bled over this," said Mr. Carpenter,
the former head of biotechnology strategy for Monsanto. "They lost
the battle for the public trust."


The New York Times on the Web
http://www.nytimes.com

From: Gian Maria Borrello  <borrello@f...>
Date: Fri Feb 9, 2001 4:26pm
Subject: Re: Biotechnology Food: From the Lab to a Debacle

 

Credo che la segnalazione di Piero Piazzano (v. intervento precedente)
ricada perfettamente in quell'approccio alla tematica della Fondazione che
prende in esame le strategie di comunicazione e, quindi, i meccanismi di
potere che, in una società capitalistica avanzata, regolano l'attuazione
dell'innovazione.
Oltretutto, le vicende raccontate nell'articolo del NY Times si
attagliano a tale approccio meglio di quelle già prese in esame con la
vicenda che ha coinvolto le multinazionali del tabacco (v., sul Sito, il
Percorso intitolato "Caso 'Tabacco' "). Le sigarette sono sicuramente
dannose, a differenza degli OGM (la casistica di cui all'articolo), per i
quali, semmai, vale una sospensione di giudizio. Nel caso del Tabacco si
trattava di un'innovazione --sempre che tale vogliamo considerare la
modifica dei componenti chimici delle sigarette-- al fine di mere
speculazioni di genere commerciale, che mirava esclusivamente a generare
nei consumatori dipendenza dal prodotto (la sigaretta chimicamente
modificata come veicolo per vendere sempre più tabacco). Il caso della
Monsanto è, invece, molto più articolato, direi anche dal punto di vista
del giudizio etico.
Ma... qual è l'opinione di Piazzano sulla vicenda complessiva raccontata
nell'articolo?Aspettiamo, perché probabilmente ce lo dirà più avanti.

Gian Maria Borrello

P.S.: Tenete d'occhio la sua rubrica ("Risorse in Rete") sul numero di
Marzo di Le Scienze.

____________________________________________

Dott. Giovanni Maria Borrello
(Web Master della Fondazione Bassetti)
<mailto:borrello@f...>
<http://fondazionebassetti.org/borrello.htm>
____________________________________________

From: Dado  <fasolo@u...>
Date: Wed Feb 14, 2001 2:09pm
Subject: Appello della scienza, ma per chi?

 

In questi ultimi giorni c'è stata una vera tempesta di informazioni,
che in modi diversi coinvolgono le questioni dibattute nel forum:
 
- Ennesimo annuncio della mappatura del Genoma (in realtà
non è ancora stato tradotto al 100%, anche se appare chiaro che
i geni sono molti meno del previsto)

- Napster (anche in questo caso Napster è ancora vivo nonostante i tribunali)

- Appello per la ricerca

L'ultimo argomento mi è sembrato il più interessante, Domenica il Domenicale del Sole è uscito con degli articoli interessanti e Lunedì facendo una ricerca nella stampa italiana on line ho notato che La Repubblica e il Corriere della Sera non davano molto spazio alla notizia, mentre la Stampa dedicava una serie di articoli che vi mando in attachment, nel caso possano interessare i lettori del Forum, nell'attach è anche   presente l'appello tratto dal sito del Sole ed un interessante articolo del Domenicale.

Volevo fare un intervento su un tema caro alla Fondazione, il rapporto tra il principe (lo stato) e la scienza e sulla legittimità da parte dell'élite   degli scienziati di pretendere libertà nella ricerca, i fatti però hanno forse dato ragione   ad un mio sospetto iniziale, l'evento rischiava di essere strumentalizzato   politicamente.

Voi cosa ne pensate?

Saluti da Davide Fasolo

Attachment: Appello per la ricerca (articoli)

 

From: Corrado Roversi  <corover@t...>
Date: Thu Feb 15, 2001 2:13am
Subject: Re: Appello della scienza, ma per chi?

 

Rispondo all'interessante messaggio di Davide Fasolo in qualità di
neo-membro della mailing list.
Prima di tutto, mi presento: mi chiamo Corrado Roversi e sono un laureando
in epistemologia all'Università di Bologna. E' da molto che seguo gli
interessanti dibattiti di questa mailing list e trovo soltanto ora
l'occasione di intervenire.

Il caso recente della "rivolta scientifica" in merito alla sperimentazione
su OGM mi ha colpito, lo riconosco. L'impressione che ne ho tratto è stata,
in generale, negativa. Non entro nel merito della ricerca in sè, mancando di
conoscenze specifiche nel campo, e non volendo nemmeno apparire come un
presuntuso studentello.
Io credo di poter esprimere il mio disappunto riportando e criticando un
passo dall'articolo di Riccardo Viale allegato alla mail precedente.

La deduzione di Viale procede come segue:

"Il legislatore aveva davanti due scelte: o seguire le raccomandazioni dell'
Istituto Superiore della Sanità (Iss) e delle maggiori agenzie sanitarie
internazionali che ritenevano non esserci alcuna evidenza scientifica tale
da porre un limite così restrittivo o conformarsi a quanto proposto dall'
Istituto Superiore sulla Prevenzione e Sicurezza del Lavoro (Ispesl) il
quale, trincerandosi dietro il principio di precauzione, riteneva
preferibile eliminare ogni rischio potenziale. Da una parte abbiamo una
istituzione scientifica l'Iss, relativamente impermeabile alle pressioni di
carattere sociale e politico che decide di attenersi ai principi propri
della comunità scientifica e in particolare a quello dell'evidenza empirica
controllabile e replicabile a livello intersoggettivo. Dall'altra un
istituto, l'Ispesl più permeabile a variabili esogene di tipo sociale, come
quelle sindacali e ambientaliste, che non accetta il sapere scientifico
"certificato" come unico punto di riferimento conoscitivo. Il primo propone
una politica del rischio scientifico basato sul "principio di certezza",
cioè accettazione solo dell'evidenza scientifica riconosciuta come stabile
nella comunità; il secondo opta, invece, per il "principio di precauzione",
cioè utilizzo di qualsiasi informazione, anche se prodotta in modo non
standard o che non configuri un fenomeno empirico stabile, come spunto per
definire nuove soglie di rischio. Il legislatore optando per la seconda
opzione fa una chiara scelta epistemologica. Rifiuta di considerare la
scienza istituzionale, cioè quella espressa nelle principali riviste
scientifiche internazionali, come unica sorgente di sapere sui fenomeni del
mondo fisico e biologico. Accetta quindi, implicitamente, che la scelta
delle sorgenti di conoscenza e le modalità di produzione della stessa siano
guidate da ragioni di natura sociale e culturale. Sposa, in definitiva, un
approccio epistemologico che non riconosce il primato della razionalità
scientifica e propende verso le tesi "costruttiviste"."

Principio di certezza contro Principio di precauzione, laddove quest'ultimo
è figlio delle tesi del "programma forte" in sociologia della scienza,
magari aggiungendo qualche critica indiretta al presunto padre di questo
programma, T.S.Kuhn. Non vedo come il principio di precauzione possa essere
davvero figlio di queste tesi: sembra piuttosto che sia figlio di un sano
scetticismo.
Il "principio di certezza", si basa, infatti, mi sembra, sul vaticinio
scientifico, che può impiegare anni ad arrivare, attraverso innumerevoli
questioni di teorie- controteorie; pur assumendo che sia possibile arrivare
a qualcosa come "il parere della comunità" su questo punto, dobbiamo
ammettere che non possiamo sapere quando questo parere arriverà con un grado
adeguato di certezza.
Fino ad allora, siamo ciechi: in che senso dunque possiamo appellarci al
"principio di certezza"? Quale certezza? La risposta della comunità si fa
aspettare. Che facciamo, dunque? Andando alla cieca, siamo ottimisti, ci
diciamo "perchè dovrebbero poi fare male?", e non proibiamo nè
regolamentiamo l'utilizzo di queste tecniche "discusse".
D'altro canto, possiamo assumere una posizione pessimista, assumere che
queste tecniche facciano il massimo del male prevedibile, ammettere che la
ricerca continui, ma proibirne l'utilizzo al di fuori dei canali della pura
sperimentazione (una sperimentazione che, oltretutto, dovrebbe essere in
qualche modo davvero "pura", quanto più possibile intoccata da interessi
economici di grandi gruppi).
Non credo che qui Kuhn c'entri un granchè, nè i cosiddetti "costruttivisti".
Supponiamo che la nostra scelta, qualsiasi essa sia, si riveli poi
sbagliata.
Nel caso "ottimista", noi abbiamo sottoposte masse di consumatori ignari al
cancro, alla leucemia, alla malformazione genetica. Ne siamo responsabili,
perchè, mentre ancora il vaticinio della comunità doveva arrivare, in realtà
non abbiamo atteso. Il dire "non esiste alcuna evidenza scientifica" è una
proposizione esistenziale negativa che non esclude niente. Non si dice
infatti che "esiste una evidenza che mostra che non". In questo piccolo
salto logico, io credo, sia mostra tutta la fallacia del ragionamento di
Viale.
Nel caso "pessimista", abbiamo fatto perdere un sacco di soldi ad un sacco
di gente. Con ogni probabilità, il nostro mercato è restato indietro: il che
è sicuramente grave. Ma devo dire che, personalmente, è l'alternativa che mi
spaventa di meno.

Con questo, concludo. L'impressione che deriva da questa critica alla
deduzione di Viale è un po' l'impressione che ho tratto dall'intera vicenda.
Certamente la ricerca scientifica è il "faro" che getta la luce più
luminosa, o, se volete, la candela più potente che abbiamo, ma questo non
toglie che intorno è sempre tutto buio. Fuor di metafora, l'inesistenza di
una evidenza scientifica sulla presunta nocività di alcune tecniche-prodotti
non è affatto, nè sarà mai, un'evidenza sulla loro NON-nocività. Possiamo
ritenere questo un banale truismo logico, o una chiave per comprendere il
principio di precauzione in modo un poco meno parziale.

Mi scuso per la prolissità.

Corrado Roversi

From:   <aamato@s...>
Date: Thu Feb 15, 2001 10:08am
Subject: Biotecnologie

 

Vorrei riprendere l'ultimo intervento di Davide fasolo sui problemi connessi all'introduzione delle biotecnologie.
Alla domanda se vi era un rischio di strumentalizzazione politica non si può che rispondere affermativamente, Questo sia da parte di chi oggi difende gli scienziati, pur essendo, in realtà, più ostile al documento laborato dalla Commissione istiutuita dal Ministero della Sanità sull'utilizzo delle cellule staminali; sia da parte di chi, pur avendo responsabilità dirette, continua ancora oggi ad eludere il tema comlesso ma decisivo del rapporto tra libertà della scienza e compiti della società.
Ritornando sull'argomento in discussione, in questa sede vorrei soffermarmi non tanto sulle questioni di principio, quanto pormi su un terreno pragmatico, operativo.
Sul primo aspetto dico soltanto che la scienza deve occuparsi sia della "verità" che delle implicazioni sottese alle sue provvisorie verità; anzi, lo studio delle conseguenze delle ricerche scientifiche deve ormai rientrare a pieno tiolo nei compiti fonadementali dlla scienza e nello stesso statuto di "verità" scientifica.
Dal punto di vista operativo, si può impostare il ragionamento nei termini seguenti.
Se, per un attimo, ci limitiamo all'agricoltura, possaimo dsitinguere tre diversi metodi di ricerca e tre diversi conseguenti approcci al tema della precauzione. Gli strumenti e le procedure di controllo si porrebbero in un'ottica diversa a seconda che si tratti: di modifiche della stessa struttura genetica di una specifica pianta; di combinazione genetiche tra vegetali diversi; di introduzione di geni animali nelle piante. Pur non avendo una competenza scientifica specifica, mi sembra, a lume di naso, che i pericli insiti nei tre metodi anzidetti cambino sostanzialmente e progressivamnete in raporto alla profondità dell'alterazione dell'organizzazione genetica predefinita. Ne consegue che, seppure tutte le rierche vadano opportunamente valutate, sarebbe eccessivo un preventivo e pregiudiziale allarmismo generalizzato. Mutatis mutandis, la stessa ottica potrebbe valer anche per le modifiche genetiche su un certo tipo di animale e tra animali diversi.
Inoltre, andrebbero distinte le sperimentazioni con finalità terapewutiche da quelle consumistiche. Per consumistiche intendo quelle ricerche volte soltanto a migliorare l'apetto esteriore dei prodotti da commercializzare (ad es. pomodori più rossi, frutti senza semi, ecc.), oppure destinate ad ad incrementare artificialmente ed artificiosamente le dimensioni (pesche più grandi, polli o vitelli che crescono più in fretta). In quest'ultimo caso, la quantità va spesso a detrimento della qualità, con l'effeto di proprietà nutrizionali non sempre migliori. Inoltre, le dimensioni vengono aumentate anche in quei paesi che non presentano problmi di approviggionamento alimentare e non solo per l'asportazione. Non che la ricerca a fini consumistici vada bloccata, ma, poichè il criterio principe di ogni valutazione deve basarsi ull'analisi del rapporto costi-benefici, ne deriva che, in presenza di incertezze o di dati contrastanti, nella ricerca con tali fini consumistici la maggior cautela dovrebbe essere d'obbligo. Cioè, pur a parità di standard di controllo, le ricerche più effimere partirebbero di per sè svantaggiate da un punto di vista comparativo.
Ho seguito un approccio più operativo perchè credo che così si potrebbe anche svelenire il dibattito nazionale in corso.
Andrea Amato

From: Piero Piazzano (by way of FGB Staff)  <piazzano_f@s...>
Date: Thu Feb 15, 2001 5:30pm
Subject: Re: Biotechnology Food: From the Lab to a Debacle

 

Alcune osservazioni sull’articolo del New York Times, che mi sembra sempre
più attuale col passare dei giorni.
Si tratta, per chi non ha avuto tempo di leggerselo, di una ricostruzione
degli eventi che hanno portato alla rapida ascesa e alla successiva
rovinosa caduta della Monsanto, prima azienda agro-chimica a cavalcare la
tigre delle biotecnologie negli anni 80 e prima anche a subire le
conseguenze del ridimensionamento del settore alla fine del decennio 90:
dall’anno scorso la Monsanto è stata assorbita da un’azienda farmaceutica,
la Pharmacia. L’articolo, che occupa ben 9 cartelle in A4, è stato scritto
a cura di Gina Kolata, potente responsabile delle pagine scientifiche del
NYT, e da altri collaboratori del giornale.
Secondo gli autori, a causare il crollo -il titolo dell’articolo è:
Biotechnology Food: From the Lab to a Debacle- è stata soprattutto una
serie di errori gestionali del management della Monsanto, legata in
particolare a un brusco cambio di direzione nei rapporti con gli organi
federali di controllo su prodotti e alimenti, come la FDA e l’EPA, e con le
organizzazioni di tutela dei consumatori.
Alla metà del decennio 80, gli stessi dirigenti della Monsanto avevano
chiesto agli enti di controllo di emanare regole di comportamento per la
produzione dei cibi geneticamente modificati (OGM), ponendosi addirittura
in opposizione alla linea superliberista dell’Amministrazione Reagan.
Contemporaneamente, la politica dell’azienda sceglieva un comportamento di
trasparenza nelle informazioni scientifiche, e chiedeva la consulenza degli
esponenti più moderati delle organizzazioni verdi e di tutela dei consumatori.
Improvvisamente, all’inizio del decennio 90, questa politica venne
abbandonata, contemporaneamente a un rinnovamento dei vertici aziendali. La
nuova dirigenza cominciò a premere per ottenere una netta deregulation
nella legislazione relativa agli OGM, subito accettata dall’Amministrazione
e riassunta nella frase di Dan Quayle, all’epoca vicepresidente con Bush
senior: "Faremo in modo che i prodotti biotecnologici possano ricevere lo
stesso tipo di controllo degli altri prodotti, invece di essere boicottati
da regole non necessarie".
Un regalo per le frange più dure dell’ambientalismo, come ammette Jeremy
Rifkin, intervistato dagli autori dell’articolo. Le principali
organizzazioni verdi e di tutela, non più frenate dalle aperture
dell’azienda, cominciarono un’azione coordinata in tutto il mondo mettendo
in evidenza le incertezze degli stessi scienziati sulla sicurezza degli
OGM, a partire dall’anello più debole della catena, l’Europa.
Questo, riassunto al volo, il succo dell’articolo, ma a leggerlo si
scoprono molti altri interessanti particolari. Su questa trama mi interessa
fare alcune osservazioni:
1. Secondo la classifica esposta da uno dei più importanti esperti di
"scienza della persuasione", Robert Cialdini (si veda il suo articolo
Scienza della persuasione su Le Scienze, marzo 2001, e la mia appendice
Risorse in Rete), sono sei le "modifiche comportamentali" che possono
essere indotte per ottenere l’acquisizione del consenso da parte dei
consumatori. Tra queste, una delle più efficaci è quella che Cialdini
chiama reciprocation e che i maestri di retorica chiamavano captatio
benevolentiae. Un’altra è definita authority (i retori la chiamavano
auctoritas) e utilizza per l’acquisizione del consenso il supporto e la
testimonianza degli esperti. Secondo quest’ottica, la Monsanto avrebbe
abbandonato un comportamento nei confronti dei consumatori basato sulla
reciprocation ("io ti tengo informato e ti coopto nei miei comitati
scientifici; tu in cambio appoggi le mie iniziative"); per un altro basato
sull’authority ("i miei scienziati hanno detto che i cibi OGM sono identici
ai cibi ‘naturali’; perciò invece di etichettarli e di farti sapere come li
produco, ti sommergo di dichiarazioni di premi Nobel").
2. Ma c’è di più. La storia raccontata dal NYT mette anche il dito nella
piaga di un tema oggi assai dibattuto in Italia, ma universale: l’arroganza
della scienza. O meglio: l’uso arrogante della scienza, che talvolta viene
fatto dagli scienziati, e molte altre volte da altri soggetti della
comunicazione e dell’economia. Qui sta, a mio avviso, il vero nocciolo
della questione. Da almeno quattro secoli lo scienziato non dovrebbe essere
più automaticamente il portatore dell’auctoritas, ma anzi un suscitatore di
dubbi.
Ma sappiamo bene che questo non sempre è vero. Capita così che lo
scienziato venga utilizzato, spesso con la sua adesione e talvolta a sua
insaputa, come testimone di campagne che hanno come tema uno o più aspetti
dello stesso sapere scientifico. Capita anche che altri scienziati, o altre
scoperte scientifiche, mettano in discussione proprio gli stessi risultati
su cui si è impegnata l’auctoritas di alcuni importanti membri della
comunità scientifica.
Il risultato è la cosiddetta "perdita di credibilità" nel sapere
scientifico, che giustificherebbe la cosiddetta "fuga verso l’irrazionale"
e così avanti. Ovviamente, si tratta di assurdità logiche: la scienza vive
proprio di successive perdite di credibilità (falsificazionismo), che non
dovrebbero in alcun modo sfociare nell’irrazionalità, ma caso mai nella
costruzione di paradigmi più avanzati.
La conclusione, per esprimersi "alla Cialdini", è questa: come testimoni
di campagne per l’acquisizione del consenso è meglio utilizzare personaggi
come Pippo Baudo o Pietro Taricone, piuttosto che scienziati. Meglio
riservare agli scienziati il compito di testimoniare per la libertà della
ricerca e per la continua messa in discussione dei suoi risultati.
3. Ultima considerazione tratta dall’articolo: il potere politico delle
multinazionali. Sarò un ingenuo, ma mi ha stupito la tranquillità con cui i
suoi autori danno per scontato che un’azienda come la Monsanto abbia
potuto, nel 1986, andare contro la stessa ideologia dell'Amministrazione
chiedendo di regolamentare il settore e, cinque anni dopo, ottenere
rapidamente la cancellazione delle stesse norme. Su questo aspetto Gina
Kolata e soci non indugiano, dando probabilmente per scontato che questa
sia la regola. A costo di allungare viepiù il già lungo saggio, avrei
preferito approfondire questo aspetto: fino a che punto sono libere di
muoversi le strutture nazionali che si occupano di regolazione e controllo
in campi determinanti per la salute dei cittadini? Che differenze esistono
fra gli USA, l’Europa e i singoli stati europei? Vedi casi "mucca pazza",
integratori agli antibiotici o agli ormoni e, appunto, OGM.
PIERO PIAZZANO

From: Silvano Cacciari (by way of FGB Staff)  <mcsilvan@t...>
Date: Mon Feb 19, 2001 10:15am
Subject: Meccanismi di potere

 

Meccanismi di potere che, in una società capitalistica avanzata, regolano
l'attuazione dell'innovazione:
segnalo in materia -strategie di comunicazione nel capitalismo avanzato ed
insorgenza di nuove tematiche etiche (compresi diversi passaggi sulle
biotecnologie)- il libro di Franco Berardi, La fabbrica dell'infelicita',
Deriveapprodi, 2001.

E' un testo anche semplificatorio e a tratti irritante. Ma credo che,
nonostante questa premessa, come pochi Berardi possa tenere in mano questa
materia occupandosene dagli anni '70. Alla fine del testo c'e' una breve ma
stimolante bibliografia e dei links, tra cui l'interessante www.nettime.org
dello storico e sociologo delle culture digitali Geert Lovink.

Non avendo tempo di farvi una recensione del libro -magari per introdurre
in maniera meno traumatica e piu' sostanziale quest'autore (non
dimentichiamo che e' stato pure un anno latitante tra il '77 e il '78)- vi
incollo parte di un suo ultimo commento sulla list Rekombinant. Questo
commento introduce al tema "etica e felicita' nella societa' della
comunicazione globale" che e' una delle strutture portanti del libro.

Slv

- - - - - -

Davos, gennaio 2001. In un articolo uscito sul New York Times e su La
Repubblica, Thomas Friedman parla del carico di tecnologia che tocca a
ciascun partecipante del superconvegno mondiale degli ultra privilegiati
della classe virtuale.

«Negli anni scorsi al forum internazionale di Davos si parlava soprattutto
di quello che la tecnologia può fare per noi. Quest'anno la questione è
stata soprattutto quel che la tecnologia sta facendo di noi. Se Davos è un
indicatore di qualcosa, dobbiamo notare che è in corso una reazione contro
la proliferazione di tecnologia nelle nostre vite. Quando i partecipanti
arrivano a Davos gli viene dato un Compaq tascabile per comunicare con gli
altri partecipanti. Io cercavo di capire come il mio potesse funzionare e
come si poteva interfacciare con il complesso sistema di email a cui si
poteva avere accesso con un badge. Poi c'è stato il convegno sulla azienda
del ventunesimo secolo durante la quale i partecipanti descrivono il nuovo
secolo come quello del darwinismo digitale in termini agghiaccianti. La
chiave per ottenere la vittoria negli affari oggi è adattarsi o morire,
connettersi o essere eliminati, lavorare 24 ore al giorno oppure essere
lasciati indietro.
Durante il dibattito, Howard Stinger, presidente della Sony America, si è
alzato per dire: "Non vi sembra che tutto questo assomigli molto a una
visione dell'inferno? Mentre noi stiamo tutti in competizione permanente,
quando troveremo più il tempo per il sesso per la musica e per leggere
libri? Fermate il mondo, voglio scendere."
Certamente questo è un problema del mondo sviluppato. In molta parte
dell'Africa non si vedono executives occupati come in Europa a rispondere
ai molti beepers telefoni e pagers infilati in tutte le cinture come
fossero degli operai della azienda telefonica. Ma grazie ai costi
decrescenti della tecnologia probabilmente questa faccenda si diffonderà
dovunque in fretta. Se la realizzazione personale consiste nel potersi
impegnare in rapporti umani o in qualche esperienza che richiede un livello
continuato di attenzione, allora noi stiamo perdendo la capacità di fare
questo semplicemente perché siamo intenti a passare continuamente il mondo
allo scanner per trovare opportunità, e siamo costantemente preoccupati
dall'idea di perdere qualcosa che potrebbe essere meglio.»

Dobbiamo modificare completamente la cartografia del divenire sociale che
abbiamo ereditato dal secolo della lotta di classe. Allora, nel ventesimo
secolo, noi ragionavamo così: da un lato ci sono gli sfruttatori, e
dall'altro le vittime assolute dello sfruttamento. Le vittime si ribellano,
si organizzano, e rovesciano l'edificio dell'oppressione. Così ragionavamo
e questo è accaduto davvero, le vittime si sono davvero ribellate e
organizzate, e il mondo è stato trasformato da questa rivolta, dal
comunismo spontaneo degli sfruttati.
Ma ora la scena è mutata, e deve cambiare la cartografia che descrive il
divenire sociale, e le potenzialità di liberazione. Io avanzo l'ipotesi che
nella nuova scena gli agenti di un divenire liberatorio non saranno più le
vittime assolute dell'oppressione. Le vittime assolute non posseggono più
alcuno strumento di comprensione e di autoorganizzazione, non posseggono
più orizzonte di tipo universalmente umano, e quindi non hanno più la
prospettiva di un qualche internazionalismo. Non possono che raggrupparsi
intorno alle loro appartenenze -famiglie tribù religioni, nazioni- e
vittimizzare altre vittime, in un circuito infernale che si chiama fascismo.
Solo all'interno della classe virtuale ceto privilegiato, costruttore
degli automatismi del dominio, solo là dentro si può cercare un bandolo
della matassa.
Io mi chiedo: sono felici costoro? E' una domanda scema? Può darsi, ma io
dico che da questo dipende la possibilità di rimettere in moto un processo
efficace di autorganizzazione sociale liberatoria. La new economy gioca il
proprio consenso culturale intorno a una promessa di felicità.
Non dobbiamo applicare alla situazione presente lo schema novecentesco
della lotta di classe, di qua ci sono i borghesi di là i proletari. La
classe virtuale non è socialmente omologa alla borghesia. La borghesia
trasferiva di generazione in generazione un bene immobile, materiale,
trasferibile: case, terre, macchinari, conti bancari. La classe virtuale
non ha il potere in virtù di un privilegio di quel genere. La classe
virtuale fonda il proprio potere su un bene non trasferibile, il sapere, la
competenza, il know how. Le fortune economiche si fanno e si disfano nel
giro di pochi anni. Solo correndo come forsennati si può mantenere il
privilegio. Ma allora che privilegio è?
Attenzione, la crisi che striscia nei circuiti cablati della new economy è
una crisi psichica prima ancora che finanziaria.
In ogni crisi economica del passato agivano due fattori: sovraproduzione e
crollo delle attese collettive degli investitori. Anche oggi questi due
fattori sono all'opera. Sovraproduzione di segni, sovraccarico
dell'attenzione. E crollo delle attese degli investitori. Ma questo crollo
ha una qualità nuova. Non è semplicemente sfiducia economica nella
redditività degli investimenti di capitale, ma soprattutto disillusione,
caduta del desiderio, crisi nervosa, astenia.
Per capire il futuro dell'economia del semiocapitale occorre tenere
d'occhio le fluttuazioni della mente planetaria interconnessa. E questa
mente non è solo connessione di sistemi digitalizzati razionalmente
interagenti, ma anche connessione di sistemi psichici, corpi desideranti,
circuiti nervosi sovraccarichi che giungono prima o dopo al limite del
collasso.

From: Gian Maria Borrello  <borrello@f...>
Date: Tue Feb 20, 2001 2:58pm
Subject: Un mercato trasparente della conoscenza

Trovo che esistano notevoli attinenze tra quanto discutevamo in questo
Forum quasi un anno fa e le riflessioni di questi giorni, che si
ricollegano anche alla recente mobilitazione degli scienziati a favore
della libertà della ricerca.

Dal punto di vista tematico individuerei i seguenti nuclei:

- la "scientific governance" (ovvero il ruolo degli esperti scientifici
nella formazione delle decisioni pubbliche in varie materie, dalla salute,
all'ambiente, alla sicurezza tecnologica);

- la politica della scienza (ovvero le policy volte alla produzione e
all'utilizzo della conoscenza scientifica);

- la diffusione di un'innovazione come processo "legitimans" di un potere;

- le strategie per l'ottenimento del consenso da parte dei "consumatori" di
un'innovazione (a riguardo trovo esemplari sia l'analisi degli errori della
Monsanto di cui all'articolo nel New York Times inviatoci da Piero
Piazzano, sia il commento che lo stesso Piazzano ne ha fatto col suo più
recente intervento).

La conclusione dell'articolo di Riccardo Viale, pubblicato sul Sole 24 Ore
di domenica 11 febbraio, mi ha ricordato la nostra "vecchia" discussione
sui server di pre-print e sul loro significato dal punto di vista
scientifico e politico (a riguardo segnalo la disamina svolta da Antonella
De Robbio con l'intervento del 12 marzo 2000, che ripropongo qui in allegato).

Le parole di Viale sono le seguenti:

«Se si vuole garantire la finalità veritistica nel sistema della ricerca
scientifica, si dovrà salvaguardare l'autonomia scientifica dalle influenze
inquinanti di tipo ideologico e politico; si dovrà garantire il massimo
della libertà e competizione conoscitiva tra scienziati, cercando di
neutralizzare eventuali "cartelli" o monopoli; si dovrà, anche con l'aiuto
del Web, sviluppare un vero mercato trasparente della conoscenza in grado
di valutare, senza tante asimmetrie informative, le ipotesi più innovative
e il lavoro dei "new comers".»

Il testo integrale dell'articolo è presente all'interno del documento
allegato da Davide Fasolo al suo ultimo intervento.

La nostra discussione sui server di pre-print (e sui free-server) può
essere ripercorsa leggendo gli interventi che appartengono alla prima fase
del nostro Forum (Marzo 2000), oggi archiviati sul Sito: tutto è
raggiungibile a partire delle News odierne in
<https://www.fondazionebassetti.org> => News

Gian Maria Borrello

= = = = = A T T A C H = = = = =
.
.Date: Sun, 12 Mar 2000 15:03:41 -0800
From: "Antonella De Robbio" (*)
To: fondazionebassetti@e...
Subject: [fondazionebassetti] Re: LE STRATEGIE DELL' INNOVAZIONE

Mi riallaccio a Giovanni Maria

> Ad ogni modo, tornando all'impostazione che vede nelle procedure un insieme
> di protocolli di comunicazione, vorrei aggiungere --e concludo-- che essa
> può aiutare, tra le altre cose, a dare una risposta alla questione del
> controllo del sapere. E, secondo alcuni, un grosso contributo
> nell'affrontare il problema della responsabilità può venire proprio da
> *procedure di comunicazione* che rendano la conoscenza scientifica il più
> possibile trasparente e diffusa. Io rimango scettico sul punto, ma sono
> pronto a ricredermi.

Questo mio intervento, in riposta a Giovanni Maria, non può essere un
intervento veloce, in quanto la materia è assai delicata e richiede una
riflessione che tocca vari aspetti. Poiché si tratta del mio campo di
indagine mi permetto di inviare al Gruppo queste riflessioni, sintesi
di una serie di lavori più articolati frutto di mesi di studio e di
indagini sul campo.
Spero di non essere troppo disarticolata in questo scritto, ma la
materia si presta ad essere poi frantumata e indagata nelle sue varie
diramazioni, e comunque si tratta di uno scritto informale.
Quando si pone l'accento su "procedure strategicamente orientate per
una diffusione dell'innovazione responsabile" è principalmente sui
modelli di *diffusione* delle informazioni che è necessario fermarsi a
riflettere o quanto meno, rendersi conto che i modelli del circuito
comunicativo scientifico stanno mutando, o meglio sono già mutati.
Mutano i palinsesti, muta il tessuto culturale, mutano i modelli
comunicativi.
L'innovazione maggiore a cui bisogna guardare, a mio avviso, sta
appunto nel cambiamento della modalità della diffusione
dell'informazione scientifica, che va a creare una nuova rete, non solo
scientifica, e di utilizzo per la comunità scientifica, ma anche e
soprattutto di impatto sociale, quale fonte primaria di conoscenza.
Quando uso il termine "scientifico" non mi riferisco ai solo campi
delle discipline scientifiche, ma mi riferisco al livello di
specializzazione scientifico e quindi intendo per scientifico anche le
discipline storiche e umanistiche.
L'impatto dell'innovazione di riflesso coinvolge già da oggi i settori
del privato, le aziende, la scuola, il sociale: il sapere collettivo
che cresce e si dilata attraverso il colloquio esteso proposto e
attuato dalla nuova società dello scambio. Anzi già ora siamo immersi
in questa rete, ognuno come attore sociale con le proprie competenze e
responsabilità.
Basta vedere le esperienze confluite nel sociale portate avanti
attraverso strumenti ad alto contenuto scientifico. Cito ad esempio il
progetto di pianificazione sanitaria attuato tra il 1996/1997 da Al
Gore, in ambito National Library of Medicine (NLM) di Bethesda,
progetto ad ampio respiro, che ha visto la messa a disposizione
gratuita della banca dati più prestigiosa del mondo di ambito
biomedico, MEDLINE con 11 milioni di referenze bibliografiche.
Attraverso una massa critica di informazioni di livello scientifico, ad
accesso libero e mediata da interfacce amichevoli, si selezionano
ambiti socio-sanitari virtuali, attraverso il servizio MEDLINEPlus. Il
progetto statunitense mirava ad una crescita culturale della massa e
contemporaneamente voleva attuare un controllo naturale dal basso verso
l'alto per la crescita culturale del corpo medico. In effetti una
crescita vi è stata e notevole, e non solo culturale, ma anche
economica laddove i settori e le aziende che operano nei servizi
dell'informazione, hanno saputo convertirsi al passaggio da industria
culturale a industria di contenuto.
Laddove l'uomo della strada può avere a disposizione le informazioni
contenute nelle banche dati, il professionista deve necessariamente
arrivare ad un'acquisizione dei contenuti stessi degli articoli a testo
pieno, non solo delle relative citazioni bibliografiche. E in questo
modo si innesca un duplice meccanismo di produzione: intellettuale da
una parte, e dall'altra economico laddove si vendono servizi che
ruotano attorno alle banche dati.
Lipman, del NIH, National Institute of Health mise in piedi, all'inizio
del 1998, il servizio MEDLINEPlus, interfaccia guidata all'accesso a
MEDLINE per un utenza non specialistica, dopo che si era reso conto che
ben 1/3 degli accessi proveniva non tanto dalla comunità scientifica,
ma dalla sfera del sociale, dal cittadino comune, e molte delle
interrogazioni provenivano da liberi professionisti, da aziende, ditte
farmaceutiche, ...
Attraverso la messa a disposizione gratuita delle informazioni negli
Stati Uniti, Al Gore ha attuato quindi un grande piano di prevenzione
sociale: banche dati sull'AIDS per esempio sono liberamente
consultabili comprese quelle sui trial clinici e sui protocolli; la
mappa del genoma umano mette in colloquio diretto i laboratori delle
aziende private con la ricerca pubblica, la scienza corre sul filo
della competitività ma anche sul filo dell'alleanza con gli attori del
mercato.

Lasciando per un attimo il discorso delle banche dati quali contenitori
informativi a valore aggiunto, andiamo a vedere bene il movimento
dell'informazione lungo l'asse storico.

La diffusione dell'informazione e quindi il trasferimento di strumenti
e capacità di innovazione, presupposto fondamentale per una crescita
culturale e tecnologica, dal 1600 ad oggi, principalmente si è attuata
attraverso i periodici su supporto a stampa. Prima di essi il circolare
libero delle idee e delle invenzioni, avveniva fuori da forme di
"comunicazione mediata". In particolare la comunicazione "diretta" del
testo monografico, dopo l'invenzione della stampa, portava le idee
"innovative" fuori dagli ambiti circoscritti del pensiero dei singoli.
Ai tempi di Galileo la scienza circolava libera e giungeva a chi era in
grado di utilizzarne i supporti a stampa sui quali essa era incarnata.
In seguito all'avvento del periodico cartaceo, i comitati editoriali e
dei "pari" si preoccuparono di vagliare i contenuti delle scoperte
certificando la qualità e legittimando i lavori di colleghi a loro
"pari" come esperienza. Ma è noto che non tutto poi è sempre andato
come avrebbe dovuto.

Vari sono i motivi fondamentali per uno scardinamento di questo modello
che non regge più culturalmente:

- ritardi notevoli nella pubblicazione delle scoperte innovative
- non pubblicità delle ricerche negative in quanto non tutto può essere
pubblicato, in particolare le ricerche "negative" su farmaci, composti
chimici, ...non trovano ospitalità nei contenitori cartacei
- costi elevati delle riviste e quindi impossibilità di raggiungere il
sapere laddove i mezzi economici scarseggiano
- il 97% degli articoli scientifici è prodotto da autori provenienti
dai sette paesi più industrializzati, e solo il 3% degli articoli
prodotti dagli scienziati dei paesi in via di sviluppo trova spazio
nella stampa internazionale contro una presenza attiva del 25% di
ricercatori di paesi in via di sviluppo
- aumento esponenziale dei prodotti cartacei, titoli di riviste, con
conseguenti problemi di spazi nelle biblioteche (e relative spese
gestionali).
- un aumento del 140% negli ultimi 10 anni per la spesa delle riviste
nelle università a fronte di un minor numero di titoli acquisiti

Far fortuna pubblicando delle riviste scientifiche iperspecializzate
dai titoli che attirano come "Criptogamia e algeologia", può apparire
utopico, ma di fatto questa attività, un tempo artigianale, è
diventata, dopo la seconda guerra mondiale, un "grande affare". Oggi
pochi editori si disputano un mercato di numerosi miliardi di dollari
di cui i margini oltrepassano spesso il 40%.
Il fu Robert Maxwell ha costruito il suo impero sulle spalle dei
giornali scientifici.
Nel 1997 Reed-Elsevier che ha raccolto la maggior parte dei titoli di
Maxwell ha manifestato (reso pubblico) per le sue sole attività
scientifiche un guadagno di 2,155 miliardi di franchi (328 milioni di
euro) per un volume di affari di 5,35 miliardi di franchi (815 milioni
di euro).
Nello stesso periodo, le 121 biblioteche dell'Association Research
Library (ARL), che dispongono di un budget di 13,4 miliardi di franchi
(2,04 milioni di euro) hanno speso 2,9 miliardi di franchi (366 milioni
euro) per abbonamenti scientifici; ossia 68000 franchi (10365 euro) per
ricercatore.

In Italia la situazione è ancora più drammatica, sia dal punto di vista
della produzione editoriale che vede il mercato italiano far da
Cenerentola rispetto ai grossi colossi, sia dal punto di vista del
fronte dei ricercatori. Le Università pagano due volte: i ricercatori
che effettuano le ricerche all'interno dei laboratori, e poi ancora per
avere a disposizione le ricerche dagli stessi comunicate dentro le
riviste di proprietà degli editori.
Oggi biblioteche, organismi di ricerca e ricercatori si ribellano
denunciando i "guadagni eccessivi" e la "folle inflazione" dei prezzi
delle riviste. Certi abbonamenti rasentano gli 83500 franchi (12700
euro) annuali. Conseguenza di questa "crisi delle riviste": sempre meno
titoli sono offerti alla lettura degli utenti. Internet potrebbe
spezzare questa spirale inflazionistica, ma non è solo il mezzo
infrastrutturale, ma è il nuovo modello culturale che si sta
instaurando tra la comunità dei parlanti. Un modello che vede riunite
insieme più visioni etiche: quello del ricercatore e quello anche
dell'imprenditore laddove la celerità dell'informazione comunicata per
tempo fa risparmiare tempo e risorse.

Una biblioteca danese, la Technical Knowledge Center & Library, ha
abbandonato l'edizione cartacea per i giornali elettronici direttamente
accessibili su computer in Rete.
Qualche anno fa era inimmaginabile un modello come quello oggi,
proposto in vari luoghi del sapere collettivo, gli e-server, o i server
di preprint:
Il numero dei giornali elettronici in rete era di poche decine agli
inizi degli anni 90.
Tre anni fa la maggior parte dei titoli il linea non offrivano niente
altro che dei sommari delle loro versioni cartacee. Dal 1995 gli
editori hanno investito massicciamente il Web.
Il numero di titoli in linea oltrepassa oggi i 10.000.
Ben 1200 le riviste dell'anglo-olandese Reed-Elsevier, oltre 400 per la
tedesca Springet Verlag e 174 per l'inglese Academic Press. Un giornale
senza la sua versione in Web è ormai una specie rara, se non in
pericolo.

Ma quando parliamo di attori sociali in questo processo di rinnovamento
della comunicazione delle informazioni biblioteche e scienziati non
intendono restare senza reagire e lottano affinché delle società non a
fine di lucro (no-profit) divengano "editori responsabili" riprendendo
il controllo dell'editore scientifica.
Fino a poco tempo fa, i ricercatori dipendevano dalle grosse case
editrici per diffondere i loro lavori, in quanto solo attraverso una
pubblicazione a stampa si potevano comunicare i risultati di faticose
ricerche.

Aiutare i piccolo editori, creando forme di alleanze all'interno della
rete mondiale di distribuzione salvando al contempo le biblioteche,
centri di diffusione della conoscenza, fu un'operazione che nacque
qualche anno fa Oltreoceano.
Nel 1995, le biblioteche dell'Università di Stanford crearono High Ware
Press per aiutare le università e le società scientifiche di tutto il
mondo a pubblicare, su Internet, dei giornali di qualità a basso
prezzo..
HighWare Press a marzo 2000 ha già nella sua scuderia più di 174
giornali, tra i quali le prestigiose riviste americane "Science" e
"Proceedings of the National Academy of Sciences" e il "British Medical
Journal" ed è in questo contesto che è nata l'idea di un server di
e-print, ma anche di reprint per la circolazione libera dei lavori di
medicina clinica e pianificazione sanitaria.
La nuova zona "libera" si chiama NetPrint ed ha aperto i battenti in
gennaio del 2000.
Michael Keller, redattore capo di HighWare, che ebbi modo di conossce
nel corso della mia esperienza stanfordiana nel settembre scorso, disse
di temere che questa attività editoriale no-profit venisse rapidamente
spazzata via da editori dotati di grossi mezzi: E' quindi necessario
far in modo che ciò non accada e quindi supportare quegli editori
responsabili che sono pronti a tentare l'avventura in alleanza con
Università e istituti scientifici.

La Scholarly Publishing and Academic Resources Coalition (SPARC)
fondata nel 1997 dall'ARL è più aggressiva ancora. Si è associata
recentemente con la Royal Society of Chemistry britannica per lanciare
un giornale elettronico, il Phys Chem Comm, venduto a 2000 franchi (305
euro) quando il Chemical Physics Letters di Elsevier costa 45360
franchi (6915 euro).
E non è tutto. Michael Rosenzweig, dell'università dell'Arizona, ha
lasciato con tutto il suo comitato editoriale accreditato, il giornale
d'ecologia che aveva creato 12 anni fa assieme all'olandese Walter
Kluwer, nauseato dall'inflazione dei prezzi dell'editore. Nel 1998 ha
raggiunto SPARC per creare ad un prezzo tre volte meno elevato
Evolutionary Ecology Researche.

Il successo di tali iniziative è lontano dall'essere garantito. Sebbene
sostenuto da grosse biblioteche, i nuovi e-journals devono, come
qualunque rivista, trovare la loro nicchia e attirare degli autori.
"Fintanto che PhysChemComm non avrà messo fuori campo i suoi
concorrenti continuerò a leggere le pubblicazioni Elsevier se ci trovo
delle buone pagine" diceva solo due anni fa Gregory Fu, chimico al MIT.
"Se i ricercatori integrassero il prezzo dei giornali nel loro budget,
si comporterebbero differentemente"" assicura Mark Mc Cabe economista a
l'Istituto di tecnologia di Atlanta (Georgia).
Consci dei rischi che essi corrono, gli editori commerciali replicano
che le loro strutture costano care e che la qualità delle loro
pubblicazioni, così come l'aumento delle pagine spiegherebbero i loro
rincari di prezzi. Ma, ironizza Mark Mc Cabe, da qui a giustificare il
raddoppio del prezzo tra il 1992 e il 1996 dell'abbonamento a Brain
Research (85000 franchi - 12957 euro) la differenza è notevole.

Ci sono però grossi editori che hanno compreso che la responsabilità
delle loro azioni verso una crescita culturale estesa e progressiva, è
fondamentale e che una mancanza di etica verso i problemi della
scienza, che riguardano l'umanità intera, grava pesantemente sulla loro
stessa immagine.
Sono sorte quindi forme di alleanze tra partner diversi: le biblioteche
e le istituzioni stanno giocando la carta dell'alleanza e si uniscono
per creare dei consorzi, comprano assieme in condivisione e
cooperazione, negoziando negli accordi con gli editori al fine di
ottenere dei "pacchetti" di giornali elettronici a prezzi vantaggiosi
Negli Stati Uniti l'Ohio ha così raggruppato 74 delle sue biblioteche
in seno all'Ohiolink. Il Regno Unito ha creato nel Dicembre 1998, una
struttura simile, la National Electronic Site License Initiative
(NESLI) che tratterà per l'insieme delle università e delle agenzie di
ricerche di tutto il paese.
Differenti consorzi si sono raggruppati nel 1998 nel seno di una
coalizione internazionale International Coalition of Library Consortia
(ICOLC). Conta 79 membri negli USA, un numero crescente in GB, in
Germania, in NL in Australia. Ma sempre niente francesi.

Il movimento si internazionalizza, il movimento dell'informazione
scuote dapprima le menti e poi le coscienze.
Se parliamo di attori sociali, è chiaro che l'asse dell'analisi viene a
fare perno sulle tecniche di comunicazione e quindi non possiamo non
tener conto di quanto è avvenuto in certi settori disciplinari, per far
fronte a questi meccanismi che ostacolano un libero progredire
responsabile dell'innovazione. I primi ad iniziare furono i fisici
delle particelle, subito dopo i matematici, ora i medici, i biologici e
anche gli economisti

A Ginevra presso il CERN è stato inventato in Web, da parte di due
ricercatori e sempre al CERN pulsa ALICE, server di preprint per i
lavori di fisica delle particelle. Da molto tempo i ricercatori del
laboratorio europeo di fisica delle particelle (originari da tutto il
mondo) utilizzano la rete mondiale per scambiarsi i dati.
Molto logicamente, questa comunità cosmopolita è stata una delle prime
a tentare di lanciare i propri giornali elettronici. Il risultato,
contrastato, prefigura forse quello che avverrà di questa tendenza su
un piano più generale, ad ampio raggio, nel giro di pochi anni.

Ma il primo ad avere l'idea, acnora negli anni ottanta, fu Paul
Ginsparg, un fisico del laboratorio nazionale di Los Alamos (USA), che,
per primo, ebbe l'idea di generalizzare il sistema della comunicazione
diretta e distribuita, come ai tempi di Galielo.
Il successo fu folgorante. Lanciato modestamente con un piccolissimo
server informatico, il suo servizio è ormai utilizzato dall'insieme
delle comunità dei fisici di particelle e diffonde 30000 articoli per
anno. Numerosi i siti mirror - ripetitori in legame con Los Alamos - si
sono allestiti a Saclay in Francia e a Trieste presso il server Babbage
del SISSA:
Il sito logico era il lancio delle riviste elettroniche, racconta
Maurice Jacob, fisico teorico al CERN. "Noi ci siamo detti: Perché
pagare degli abbonamenti quando il prodotto cartaceo è controllato da
gente della nostra comunità?"
In Italia l'esperienza di JHP "Journal of High Energy Physics" si sta
rivelando vincente.
Diffuso dal sito mirror di Trieste e affiancato a Babbage, è dotato di
un sistema per l'accettazione dei lavori simile ai peer review
commerciali:
Il sistema di diffusione elettronica dei preprints di Ginsparg e in
seguito delle altre discipline ha cambiato la il modo di pensare in
quanto si fonda sui nuovi processi di apprendimento e su nuovi modelli
cognitivi.

Il New England Journal of Medicine, principale concorrente del British
Medical Journal, rifiuta ancora - come molte altre riviste - di
accettare un articolo che sarebbe già stato "sventolato" sulla Rete.
Ma da tre anni numerosi titoli (tra cui Nature) considerano che
l'affissione di un articolo sulla Rete non costituisce più una
pubblicazione a priori, ma risponde al bisogno legittimo di
comunicazione tra ricercatori, ma non solo.
La sfida dell'era elettronica per le pubblicazioni scientifiche è
perfettamente riassunta da Richard Smith "E l'età della trasparenza che
prende il posto del paternalismo."

L'impostazione di queste aree libere di conoscenza, che si concretizza
in un insieme di protocolli di comunicazione, può aiutare, tra le altre
cose, a dare una risposta alla questione del controllo del sapere. E,
secondo alcuni, un grosso contributo nell'affrontare il problema della
responsabilità può venire proprio da *procedure di comunicazione* che
rendano la conoscenza scientifica il più possibile trasparente e
diffusa.
Nel progetto di Harold Varmus, ex direttore del NIH, PubMed Central
(noto come ex- E-Biomed) i due canali di sconoscenza di intersecano tra
loro e si confrontano, in uno scambio continuo.
Nel canale di serie A confluiscono i lavori passati dalle peer reviews
delle riviste che accettano di aderire al programma, nel canale di
serie B i lavori non accettati o quelli che non passeranno mai la
vaglio di comitati editoriali. Questo canale minore sarà controllato da
associazioni di avvalorata credibilità. Ecco quindi che una rivista che
accetta di immettersi nell'area PubMed Central è una rivista che si
rimette in discussione, che accetta di far giudicare dalla comunità
tutta l'operato dei suo comitato dei pari. Ecco che un lavoro giudicato
di tono minore e confluito nel canale di serie B può rivelarsi più
valido di altri che per varie ragioni (note e meno note) si sono
aggiudicati un posto in prima fila.

Giovanni Maria diceva di essere scettico sulla questione di una
conoscenza costruita laddove il controllo del sapere sembra essere più
allentato. Di fatto in queste zone franche quando giunge un lavoro gli
occhi di tutta la comunità dei parlanti lo scrutano, lo vagliano, lo
analizzano, lo divorano, se è il caso.
Giovanni Maria dice di essere pronto a ricredersi, a lui quindi questa
citazione di Rabindranath Tagore's Gitanjali, che ho tradotto
dall'inglese, in modo poco formale, ma sicuramente dal contenuto forte.
L'ho tratta dall'editoriale di Tony Delamothe su BMJ 1999;319:1515-1516
(11 December) ove annunciava la nascita di Netprint
"Netprints: the next phase in the evolution of biomedical publishing "
< http://www.bmj.com/cgi/content/full/319/7224/1515 >

"Nel luogo in cui, a testa alta, la mente è senza paura
Dove la conoscenza è libera;
Nel posto ove il mondo non è stato spezzato in frammenti da anguste
pareti domestiche
Dove le parole vengono fuori dal profondo della verità;
Dovunque l'instancabile lotta allunga le sue braccia verso la
perfezione;
Dalla fonte in cui il fluire luminoso della ragione non ha perso il suo
corso nel desolato deserto di sabbie inerti dell'abitudine
Laddove tu guidi la mente in avanti dentro il pensiero
sempre in espansione e in un'azione di continua ricerca
In quel cielo di libertà, Padre mio, fa che si svegli il mio Paese"

Antonella De Robbio (*)

______________

(*) Antonella De Robbio è Responsabile della Biblioteca del Seminario Matematico dell'Università degli Studi di Padova: <http://www.math.unipd.it/~derobbio/home/antohp.htm>

From: FGB Staff  <staff@f...>
Date: Thu Feb 22, 2001 3:20pm
Subject: Indirizzi web nei messaggi (comunicazione di servizio)

 

In alcuni messaggi, gli indirizzi web presenti nel testo potrebbero non
funzionare, perché può accadere che il sistema informatico di gestione del
forum includa nel corpo dell'indirizzo alcuni caratteri presenti dopo di
esso, oppure che lo spezzi su più righe.

Nel messaggio precedente, il carattere ">", di delimitazione della stringa,
è entrato a far parte dell'indirizzo web, rendendolo così incapace di
condurre alla corretta destinazione: gli indirizzi corretti delle News sul
Sito della Fondazione e quello della home-page di Antonella De Robbio sono,
pertanto:

https://www.fondazionebassetti.org => News

e

http://www.math.unipd.it/~derobbio/home/antohp.htm

From: Gian Maria Borrello  <borrello@f...>
Date: Sat Feb 24, 2001 2:14pm
Subject: Principio di precauzione

 

Corrado Roversi, commentando l'articolo di Riccardo Viale (il testo
integrale dell'articolo è presente all'interno del documento allegato da
Davide Fasolo al suo ultimo intervento: < vedi >), ha scritto:

.>Principio di certezza contro Principio di precauzione, laddove quest'ultimo
.>è figlio delle tesi del "programma forte" in sociologia della scienza,
.>magari aggiungendo qualche critica indiretta al presunto padre di questo
.>programma, T.S.Kuhn. Non vedo come il principio di precauzione possa essere
.>davvero figlio di queste tesi: sembra piuttosto che sia figlio di un sano
.>scetticismo.
.>...
.> Non credo che qui Kuhn c'entri un granchè, nè i cosiddetti "costruttivisti".

Sono d'accordo con Roversi.

In effetti, non ho ben compreso perché Riccardo Viale abbia accostato il
Principio di Precauzione all'epistemologia sociale e al costruttivismo. Il
suo articolo mi è sembrato estremamente interessante per l'inquadramento
teorico che dà della recente vicenda che ha mobilitato numerosi
rappresentanti del mondo scientifico. Tuttavia mi sfugge perché egli abbia
inserito il Principio di Precauzione in tale inquadramento: mi è sembrato
una specie di "slittamento" teso ad attribuire al Principio origini che non
mi sembra esso possieda.

A quanto mi consta, a partire dai documenti ufficiali che lo definiscono e
circoscrivono nella sua portata (*), il Principio è frutto di un punto di
vista eminentemente pragmatico e andrebbe collocato entro una prospettiva
volta a raggiungere metodi aggiornati di analisi del rischio che risultino
utili a coloro che devono prendere decisioni politiche.

Il ricorso al Principio si inscrive, in definitiva, in un quadro generale
di analisi del rischio, che comprende, oltre alla valutazione del rischio,
la sua gestione e comunicazione.

_ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _

(*) L'origine del Principio di precauzione è nella Convenzione sulla
diversità biologica, firmata a Rio de Janeiro nel giugno 1992 e approvata
dalla Comunità economica europea con la Decisione del Consiglio del 25
ottobre 1993 (la Decisione, che riporta, nell'Allegato A, il testo della
Convenzione, è pubblicata sul sito "Eur-Lex" dell'Unione Europea, al
seguente indirizzo: <
http://europa.eu.int/eur-lex/it/lif/dat/1993/it_393D0626.html >).

Con la Comunicazione COM(2000) 1 final, del 2 febbraio 2000 la Commissione
europea ha posto le fondamenta della futura policy comunitaria per
l'applicazione del Principio. La Comunicazione fa seguito alla
Risoluzione del Consiglio dell'Unione europea del 13 aprile 1999, ove
veniva chiesto alla Commissione «di essere in futuro ancora più determinata
nel seguire il principio di precauzione preparando proposte legislative e
nelle altre attività nel settore della tutela dei consumatori, sviluppando
in via prioritaria orientamenti chiari ed efficaci per l’applicazione di
questo principio».

Sul Sito della Fondazione, al Principio di precauzione è dedicato un
Percorso specifico: < https://www.fondazionebassetti.org > => Percorsi

From: Davide Fasolo (by way of FGB Staff)  <fasolo@u...>
Date: Sat Feb 24, 2001 3:34pm
Subject: Tecnica e verita'

 

Rispondo alle tante suggestioni e interventi che
hanno ispirato questo thread più filosofico rispetto ad altri:

- Concordo pienamente con quanto sostiene Alberto Biuso:
Sia in Heidegger che da un punto di vista diverso in
Horkheimer e Adorno, la critica alla tecnica non è unilaterale e
distruttiva ma di presa di coscienza della necessità della stessa
e della sua necessaria comprensione.

- Concordo con Andrea Amato:
I filosofi (o pensatori che possiedano una visione globale del
problema) devono collaborare con chi è più addentro alle
problematiche specifiche delle scienze e delle tecniche in
un dibattito aperto e non chiuso in una "torre d'avorio
tecnicistica".

E' anche vero che scienza e tecnica si stanno sempre più
avvicinando, nel senso che la vecchia contrapposizione
tra sfera teoretica del pensiero puro e sfera pratica dell'agire
perde nella contemporaneità il suo senso.
Tutta la mia tesi di laurea ("L'eterno ritorno dell'identico
nell'interpretazione heideggeriana di Nietzsche") che
prossimamente potrei mettere on line, è un tentativo di
mostrare come l'interpretazione heideggeriana di Nietzsche
dimostri quanto nel nichilismo compiuto che viene alla luce
appunto in Nietzsche, la metafisica, per secoli dominata
dal teoreticismo che relegava la sfera pratica ad
un ruolo secondario (le tecnica al servizio della speculazione
dello scienziato teoretico), venga rovesciata e che la
speculazione teoretica assuma come suo unico fine
l'agire pratico (la strumentalità della tecnica).
Cio' che importa non è insomma la verità ma il suo
effetto sul mondo.
La tecnica è allora la messa in pratica della verità,
il suo entrare in azione nel mondo, ed una verità vale
tanto quanto si presta ad essere utilizzata tecnicamente.

- E qui si inseriscono le considerazioni di Roberto Vai,
E. Corazza (che riprende Galimberti e Mathieu) e quelle
segnalate da Borrello, di Bocca :
Nel mondo sempre più dominato dalla tecnica l'uomo perde
la felicità, la serenità spirituale, e sopraggiunge la paura
per gli effetti incontrollabili delle innovazioni tecnologiche.
La tecnica da mezzo diventa fine e l'uomo perde quelli che
erano i suoi antichi fini e punti di riferimento.
Lo spazio per la religiosità e i valori dello spirito sono messi
da parte dal pensiero scientifico-tecnologico.
Questo ha prodotto a mio parere la rinascita di un
movimento neoreligioso che ricerca nuove verità
in movimenti religiosi e nuove religioni che irrazionalmente
promettono quello che la visione del mondo fornita dalla
scienza non può dare.
L'innovazione scientifico-tecnologica si trova quindi di fronte
anche alla responsabilità della morte di Dio?
Sono dell'avviso che l' innovazione tecnica anche nel suo attuale
modo di presentarsi, sia risultato di quel processo che ha origine
con la nascita dell'uomo e forse della vita stessa:
il continuo perfezionamento e miglioramento delle condizioni
della vita stessa.
Con la biotecnologie e la manipolazione genetica umana, che sarà
possibile in seguito al completo sequenziamento del Genoma,
entra in azione l'anelito che spinge l'uomo a perfezionare se stesso
e la natura stessa, rendendo il biologico e l'uomo stesso più
resistente a malattie e usura del tempo.

Voglio proporre una provocazione:
Rendere il biologico simile all'eterno non è forse ancora
perseguire dei fini teologici e spirituali?
Dio è veramente morto o si prepara a rinascere?

Saluti da Davide Fasolo

ps: alcuni degli interventi citati sono presenti nel
Forum Bassetti:
http://groups.yahoo.com/group/fondazionebassetti
altri nel Forum swif-discussione:
http://groups.yahoo.com/group/swif-discussione

From: Davide Fasolo (by way of FGB Staff)  <fasolo@u...>
Date: Wed Feb 28, 2001 3:42pm
Subject: Innovazione e paura

 

Le recenti innovazioni, in particolar modo quelle che
hanno coinvolto le biotecnologie (OGM) e le previsioni,
più o meno apocalittiche, che hanno accompagnato
la presunta mappatura del genoma umano, hanno
risvegliato le recondite paure che nelle epoche di
grandi trasformazioni vengono a galla nelle grandi masse.


Una serie di interventi che presento nell'allegato ci aiutano
a districarci e capire se queste angosce o timori sono
giustificati o meno.
Allison Abbott ci mostra, dopo la notizia della decodifica
del genoma, che la genetica nasconde forse meno tesori
di quello che ci si aspettava e che siamo geneticamente molto
più vicini del previsto al moscerino e che quindi la grande
differenza sta nel condizionamento ambientale.
Vani quindi le pretese dell'uomo di affidarsi alla manipolazione
genetiche per giocare a fare Dio.
Le considerazioni di Craig Venter confermano questa
presa di posizione.
Danilo Mainardi nel suo articolo ricostruisce un percorso in cui
cerca di dimostrare che sempre l'uomo ha modificato l'ambiente
e le specie vegetali e animali, non è quindi una novità della
biotecnologia.
L'ultimo articolo di Ignacio Ramonet dimostra come a
volte il processo innovativo sfugga al controllo di scienziati e
politici e che spesso segua invece la logica del profitto poco
attenta alla logica della responsabilità.
La paura non è così infondata e irrazionale forse.


Saluti da Davide Fasolo

Attachment: Innovazione e paura (articoli)

 

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