Documento allegato a un intervento al Forum del 28 febbraio 2001

Tutti articoli tratti da "Il Sole 24 Ore" a parte l’ultimo tratto da "LE MONDE diplomatique".

 

Coi geni non si può giocare a Dio
di Allison Abbott 

È uno dei racconti più straordinari che gli scienziati abbiano mai consegnato al mondo. Il genoma umano, ai fini pratici completamente sequenziato, è come la scoperta che la Terra gira attorno al Sole, che siamo evoluti dalle scimmie o che nel cervello risiede la mente con la quale rianalizzare noi stessi e i nostri rapporti col mondo, e per chi vi fosse portato, riflettere ancora sul bisogno di un Dio creatore e mentore.
I media hanno accolto con ambivalenza l’annuncio della pubblicazione simultanea della sequenza del genoma umano da parte dei due Ur-rivali, Celera, una società privata, sul settimanale americano «Science», e il Progetto genoma umano, la collaborazione internazionale finanziata con fondi pubblici, sul settimanale inglese «Nature». Ne hanno celebrato le potenzialità per la ricerca medica e insieme hanno evocato lo spettro della clonazione e rinfocolato le paure dell’opinione pubblica. L’uomo bifronte nel bene e nel male, Dio incarnato?
L’atto di produrre la sequenza e la mappa del genoma ha una sua grandeur epica, ci insegna molte cose su chi siamo e da dove veniamo. Sappiamo ora che il numero di geni è sorprendentemente basso nel lungo, lunghissimo filamento di Dna, nelle sue quasi tre miliardi di coppie di basi che costituiscono il genoma. Rispetto a un moscerino della frutta, ci riteniamo di una compiutezza ben più che doppia eppure abbiamo soltanto il doppio dei suoi geni.

Impariamo così che conta la qualità, non la quantità. Anche se del verme, del pesce, della mosca e degli altri organismi inferiori il cui genoma è già noto, condividiamo un insieme di geni fondamentali, i nostri sono regolati in maniere ben più complesse. Negli organismi inferiori, quello che si vede è più o meno quello che c’è. Per noi non è così. I nostri geni possono essere accesi o spenti da numerosi fattori diversi. Ci controllano molto meno di quanto l’ambiente li controlli: addio determinismo.
E impariamo altro ancora. Rispetto alle altre specie, abbiamo più famiglie multigeniche e sono famiglie più numerose, che ci danno un ulteriore livello di complessità, di sintonizzazione fine. Per esempio la famiglia dei geni Hox implicati nello sviluppo, e scoperti nell’essere umano da Eduardo Boncinelli, conta da 30 a 40 membri strettamente imparentati. Queste famiglie risultano una duplicazione che avviene spesso nel corso dell’evoluzione; i geni riprodotti in diverse parti del genoma sono soggetti a mutazioni casuali diverse e finiscono per avere funzioni lievemente diverse. Il maggior numero delle famiglie potrebbe riflettere la nostra età evolutiva.
Centinaia dei nostri circa 30mila geni derivano direttamente da geni batterici: non sono soltanto antichi ma hanno ruoli importanti nel metabolismo. Nei millenni, sono entrati a far parte del nostro genoma e hanno evoluto le proprie funzioni per adattarsi all’ambiente umano. L’ingegneria genetica, insomma, non è stata inventata negli anni 70, è stata scoperta e applicata da noi che già siamo chimere. Poco più dell’uno per cento del nostro genoma codifica per delle proteine anche se solitamente i biologi considerano che la principale raison d'être del genoma sia di orchestrare la sintesi proteica. La maggioranza non codificante del genoma è spesso chiamata junk, spazzatura, ma ora, a sequenza completata, sembra che racchiuda ancora segreti, misteri da risolvere. Che la "spazzatura" abbia una funzione o meno, la sua composizione ci racconta parte della nostra storia evolutiva.

Passando dall’epica al pragmatismo, che cosa abbiamo imparato che giustifichi speranze e timori? Le speranze per la medicina sono giustificate ma a una distanza di tempo che deluderà. Prima di sfondare, la post-genomica ha ancora ricerche da compiere per capire cosa facciano i geni, individualmente e collettivamente. Il lavoro che resta da fare forse supera per diversi ordini di grandezza quello del sequenziamento del genoma. I livelli molteplici — rassicuranti e complessi — di controllo e di regolazione ai quali è soggetto il modesto numero dei nostri geni rendono il compito molto più arduo di quanto si pensasse. Ed è solo l’inizio.
Si possono seguire molte strade per saperne di più su malattie ed eventuali rimedi. Non occorre aspettare che tutto sia chiarito prima di imboccarle, ma ci vorrà almeno un decennio per arrivare alle prime mete, ai primi esiti concreti.
Una strada è la proteomica, l’analisi su grande scala delle proteine per le quali i geni codificano. La sequenza del genoma ha rivelato che le nostre sono progettate per essere soggette a modificazioni più numerose che negli altri organismi, un altro livello di complessità che ci colloca al di sopra del moscerino. Purtroppo, ciò significa che le proteine sono molto di più dei geni, e più difficili da analizzare. La proteomica ha molto da offrire alla medicina, perché contribuirà a rivelare la differenza vera e concreta tra un tessuto sano e uno malato. Ma è un’impresa enorme.
Un’altra strada è l’analisi degli Snp (single nucleotide polymorphisms; polimorfismi di singoli nucleotidi), delle piccole mutazioni innocue del genoma, senza grande portata funzionale, che però possono aiutare a identificare la suscettibilità a una malattia, la reazione positiva o negativa a una terapia. Nel nostro genoma ci sono 1,4 milioni di Snp. Se a questo si aggiunge la complessità di malattie letali come il cancro e le patologie cardiovascolari, è facile intuire che anche in questo caso non ci saranno soluzioni a breve.

La ricerca post-genomica darà alle aziende farmaceutiche nuove idee per nuovi farmaci. Per verificare se un’idea è valida, servono modelli animali e i più usati sono topi con un gene in meno o in più. L’Italia ha la fortuna di aver contribuito da subito alla creazione di un numero sufficiente di modelli e alla loro archiviazione. Tra l’altro la sede principale dell’European Mutant Mouse Archive (Emma) si trova a Monterotondo, vicino a Roma. Ma l’Italia comincia solo ora a partecipare più ampiamente alla rivoluzione post-genomica. Ha fatto il grave errore di non entrare nel Progetto genoma umano, ma sembra decisa a rimediare. Anche la Germania ha perso anni di genomica prima di raggiungere il Progetto nel finale, ora è impegnata in progetti post-genomici su vasta scala e già in corso di attuazione grazie a un finanziamento triennale di 350 miliardi di lire, prelevati sui proventi delle vendite degli Umts. Anche l’Italia utilizzerà per la ricerca post-genomica una parte delle proprie vendite di Umts, forse 135 miliardi di lire in tre anni, e quest’anno dovrebbe finalmente fare sul serio. Conviene, perché non può permettersi ulteriori ritardi.

Veniamo ora al timore che la conoscenza del genoma venga sfruttata per foggiarci ex novo e trarne vantaggi. Non è giustificato: il messaggio del genoma è che siamo in realtà il prodotto sia dei geni che dell’ambiente. Per dirla con Craig Venter, il presidente della Celera, clonate finché vi pare, non sarete mai capaci di riprodurre la stessa persona. O per dirla con Francis Collins, che dirige il Progetto genoma umano, mirerete a ottenere un musicista eccelso e vi ritroverete con un adolescente imbronciato che fuma marijuana e non vi rivolge la parola. «Capire il genoma umano — aggiunge — non ci aiuterà granché a capire l’aspetto spirituale dell’umanità, né a sapere chi sia Dio o che cosa sia l’amore».
Filosofi e teologi discutano pure sulle rivelazioni del genoma. Sottolineino il grande potere di Dio o rendano ridondante il concetto stesso di divinità. Un fatto oggi è però indiscutibile: gli scienziati non possono «giocare a Dio» manipolando semplicemente un gene o due.

18 febbraio 2001

E l'uomo si autoaddomesticò
di Danilo Mainardi 

È la parola cultura che consente di considerare insieme, un unico fenomeno, l’evolversi recente della nostra specie e quello di tante altre, gli animali e i vegetali domestici. È la parola cultura perché la troviamo nella seguente definizione: «L’addomesticamento è un processo di evoluzione biologica determinato dall’evoluzione della cultura umana». Singolari sono infatti le analogie tra il percorso evolutivo compiuto dalle tante specie che furono addomesticate e quello che, nello stesso scorrere dei secoli, ha compiuto la nostra. Il motivo è questo: mentre poneva al suo servizio piante e animali, inconsapevolmente l’uomo addomesticava anche se stesso.
Il fenomeno è più che mai in corso e in accelerazione. Piante, animali ed esseri umani sono coinvolti in un unico processo. Un processo che però attribuisce solo a noi il duplice e antitetico ruolo della causa e dell’effetto, dell’oggetto e del soggetto. Ed è interessante affrontare ora il caso dell’autoaddomesticamento dell’uomo, proprio ora che la nostra specie si trova a fronteggiare la nuova fase evolutiva delle biotecnologie, confusa da una difficile valutazione dei costi e dei benefici e insieme da coinvolgenti problemi etici.
Il tragitto compiuto dagli esseri che sono stati addomesticati è sinteticamente suddivisibile in tre grandi fasi: quella primitiva, quella delle razze pure, infine quella biotecnologica.

Il primo essere che fu addomesticato è stato il lupo, e ciò avvenne qualcosa come quattordicimila anni fa. L’animale era straordinariamente adatto per inserirsi nella semplice socialità degli uomini d’allora, cacciatori-raccoglitori. I segnali infantili dei cuccioli inducevano all’adozione, l’inprinting determinava l’instaurarsi del legame socioaffettivo, l’innata tendenza alla caccia di gruppo e a fare la guardia (il territorialismo) ne facevano già in partenza un ausiliare di grande utilità. E così fu per qualche millennio, perché il lupo divenuto cane non ebbe la forza, essendo allora l’unico essere addomesticato, di cambiare radicalmente la vita del suo padrone. Occorreva l’addomesticamento di erbivori a perché prendesse inizio la pastorizia. Occorreva quello di certi vegetali perché s’originasse l’agricoltura, e con ciò la rivoluzione prodotta dal conseguente incremento delle risorse. A ogni modo, fossero essi animali o vegetali, ciò che caratterizzò la prima, e più primitiva, fase dell’addomesticamento, fu un enorme incremento della biodiversità di queste specie. Ogni essere addomesticato si venne infatti a trovare come sotto una sorta di ombrello che lo proteggeva dall’inevitabilità e dalla durezza della selezione naturale. Se infatti in natura se la cava solo «il modello ottimale per la sopravvivenza», sotto la protezione interessata dell’uomo si crea uno spazio maggiore per l’espressione della diversità tra gli individui. Può sopravvivere una gamma disordinata di modelli ben rappresentata, se si vuole un esempio attuale, dall’infinita diversità dei cani detti "bastardi", dei gatti detti "nostrani" che frequentano ancor oggi le nostre campagne e città.

Così stavano le cose all’inizio. Solo col passaggio alla seconda fase l’uomo, divenuto compiutamente consapevole delle varie utilità che gli esseri addomesticati possono procurargli, mentalmente realizza i "suoi" modelli ottimali, poi codificati negli "standard" delle varie razze. Inizia allora un consapevole lavoro di selezione mirato a fare sempre più aderire i domestici ai modelli. La seconda fase, pertanto, si caratterizza per la sempre minore biodiversità all’interno delle popolazioni, che finalmente diventano "razze pure". Ogni gruppo umano ha posseduto le sue, e ora che queste razze le definiamo "vecchie", possiamo ricordarle con i nomi che ne denunciano l’origine geografica. Esempi di casa nostra sono il cane cirneco dell’Etna, il cavallo bardigiano, l’asino ragusano, la mucca chianina, la gallina padovana, la mela rosa dei Sibillini, la mandorla di Noto, la fragola di Tortona, l’aglio di Vessatico.

Infine, ultima fase, quella dei domestici biotecnologici. È sorprendente pensare che già dalla fine dell’Ottocento il prodotto di una primitiva biotecnologia, l’incubatrice, ebbe la forza di far evolvere la più antica razza biotecnologica. Le galline, prima di questo meccanismo che rende superfluo un loro essenziale comportamento, producevano un congruo numero di uova, una ventina circa, e poi subivano una trasformazione guidata da puntuali cambiamenti ormonali: smettevano di fare le uova, divenivano chiocce e si dedicavano alla cova. Tutto secondo natura. Ebbene, l’avvento dell’incubatrice dette inizio all’evoluzione di razze di galline, le cosiddette ovaiole, che continuano imperterrite a produrre uova per tutta la vita. Ovviamente si tratta di galline diverse da un punto di vista ormonale. Esseri totalmente dipendenti, come razza, dall’incubatrice. Esattamente come il cuculo dipende totalmente dalle specie degli uccelli ospiti.
Ebbene, si può passare dalla primitiva incubatrice alla più sofisticata clonazione — un salto culturale immenso —, ma l’effetto generale non cambia: gli esseri biotecnologici si caratterizzano sempre per la loro estrema specializzazione (razze da uova, da carne, da latte, da trapianto) e soprattutto per la totale dipendenza dalla specie umana. C’è infine un’altra caratteristica che li accomuna: trattandosi di razze ad alto reddito, tendono a far estinguere le razze antiche, che pure erano meglio adattate ciascuna al proprio ambiente, colonizzando tutto il pianeta e vivendo la loro triste vita, isolate e protette, in serre e stalle sempre più simili a laboratori.

Detto delle tappe principali dell’evoluzione delle razze domestiche, ora occupiamoci dell’uomo. Esistono sicuramente analogie e differenze con l’addomesticamento delle altre specie, ma ciò che è fuori dubbio è che anche l’uomo è, a suo modo, specie domestica o, per meglio dire, autoaddomesticata. Basti pensare a come l’evoluzione culturale ha da gran tempo determinato, e determina, le probabilità di sopravvivenza degli individui. Una volta si facevano tanti figli e pochi sopravvivevano, oggi se ne fanno pochi, addirittura pochissimi, ma tutti, o quasi, stanno al mondo. Ebbene, i genetisti possiedono una formula, basata essenzialmente sui sopraddetti parametri (numero di figli in rapporto alla loro sopravvivenza), che rappresenta un ottimo «indice dell’opportunità di selezione». Misura, semplicemente, l’efficacia dell’ombrello protettivo proprio della prima fase dell’addomesticamento: tanto minore è l’opportunità di selezione tanto maggiore è la biodiversità all’interno delle popolazioni. Così anche per gli uomini selvaggi all’antico «modello ottimale per la sopravvivenza» s’è andata sostituendo e ampliando la pluralità di modelli propria della prima fase dell’addomesticamento.

C’è poi dell’altro: la parola razza, che pure in sé non sarebbe né buona né cattiva, a causa della sua parentela col razzismo viene ormai considerata "politicamente scorretta". Eppure nella storia antica della nostra specie le popolazioni (o razze o etnie o come diavolo si vogliano chiamare) erano definibili su base adattativa: quelle di foresta erano piccole e brachischeliche, quelle di savana alte e longilinee. I biondi con gli occhi chiari stavano verso i poli mentre i neri abitavano all’equatore. Poi, e sempre più, con il progredire dell’evoluzione culturale, da un lato questi adattamenti hanno perso almeno parte della loro utilità, dall’altro le popolazioni hanno dato origine a spostamenti e migrazioni sempre più massicci, il più delle volte volontari, in qualche caso coatti come fu per lo schiavismo. Per il mescolamento genetico che ne è derivato, e per altri motivi, oggi è sicuramente accettabile l’asserzione comunemente fatta che non è possibile suddividere la specie in razze perché la biodiversità all’interno delle popolazioni è uguale o addirittura superiore a quella tra le popolazioni stesse.

Così, a questo punto della descrizione, si può affermare che l’autoaddomesticamento dell’uomo ha prodotto risultati analoghi a quelli della prima fase, e cioè un disordinato e variopinto incremento della biodiversità, ma la storia non finisce qui. Occorre osservare, purtroppo, che almeno in qualche occasione c’è stato chi ha lavorato (e ciò significa seconda fase) per «la purezza della razza». Ma questa, fortunatamente, è acqua passata. L’attualità, decisamente, è l’ingresso nella fase tre, quella degli animali biotecnologici. Nella nostra specie ciò sta avvenendo con prudenza, esclusivamente per motivi terapeutici, ma rimane il fatto che, nell’attuale livello dell’evoluzione culturale, l’uomo se occorre agisce su se stesso in modo mirato modificando, sostituendo, scegliendo geni. È quell’azione che Darwin, nella sua opera sull’addomesticamento,nella sua essenza descrisse come selezione artificiale. L’effetto della cultura sulla biologia, pertanto, non è più rappresentabile come un generico, inconsapevole ombrello. E siccome l’evoluzione culturale procede galoppando, che tipo d’animale domestico sarà l’uomo del futuro?

18 febbraio 2001

 

Geni a misura di individuo
di Craig Venter

"Non c'è quasi più nulla da studiare in biologia". Così mi avvertirono quando cominciai il dottorato di ricerca presso l'Università della California a San Diego. Per fortuna la ricerca in questo campo è tutt'altro che terminata. Se quello passato è stato il secolo del gene oggi stiamo chiaramente vivendo l'inizio del secolo del genoma. Con questo intendo che la conoscenza dei genomi degli organismi viventi, tra i quali quello dell'uomo è sicuramente uno dei più complessi e interessanti per le sue ricadute mediche e sociali, ha già aperto la strada a una visione nuova e olistica della biologia. In termini più tecnici il sequenziamento completo di molti organismi e la creazione di grandi banche dati di sequenze permette finalmente di compiere studi di genomica comparata. La metodologia tradizionale di identificazione dei geni a partire da un carattere o da una patologia potrà essere sostituita, o comunque integrata, da una verifica basata sulle sequenze. Nell'uomo l'individuazione di una sequenza di Dna, che potrebbe essere un gene, oggi può essere effettuata anche ricercando la stessa sequenza nel genoma di un organismo meno complesso, in cui la sua funzione è già nota o comunque verificabile attraverso esperimenti impossibili nell'essere umano.

Questo tipo di confronti è stato reso possibile dall'approccio bottom-up al sequenziamento, che abbiamo introdotto nel 1995 insieme a Hamilton O. Smith e altri colleghi e ben presto soprannominato shot-gun sequencing (letteralmente "sequenziamento con fucile da caccia grossa"). Al tempo l'approccio tradizionale utilizzato nel progetto Genoma umano era piuttosto top-down: prima creare mappe di marcatori del genoma con intervalli frequenti lungo i cromosomi e in seguito suddividere ogni cromosoma in segmenti parzialmente sovrapponibili, per sequenziare infine i singoli nucleotidi con la loro sequenza di basi azotate. Noi abbiamo ribaltato completamente la metodologia, cominciando con lo spezzare fisicamente l'intero genoma in segmenti sequenziabili singolarmente, per ricomporlo solo alla fine assemblandone i pezzi in disordine con l'aiuto di computer molto potenti. Il primo organismo sul quale abbiamo sperimentato l'approccio shot-gun è stato l'Haemophilus influenzae, un batterio ubiquitario in tutte le vie aeree dei mammiferi e con un genoma abbastanza ridotto. L'esistenza di centinaia di migliaia di marcatori genetici ha richiesto lo sviluppo di nuovi algoritmi da parte del Tigr (The Institute for Genome Research; si pronuncia "tiger", tigre in inglese, ndr), il centro di ricerca non profit che avevamo fondato all'inizio degli anni Novanta, e ha determinato cambiamenti fondamentali nel campo della genomica. É proprio grazie all'utilizzo di nuovi algoritmi come il Tigr Assembler, che l'istituto è diventato la prima struttura in grado di sequenziare il genoma completo di una specie vivente.

Solo in seguito al riuscito sequenziamento del genoma dell'Haemophilus influenzae (Science 269, 496-512, 1995) è apparso chiaro che il Dna di interi organismi complessi, composti da molte migliaia di basi azotate, poteva essere rapidamente e accuratamente sequenziato utilizzando il metodo shot-gun. Ma prima di cimentarci nel sequenziamento del genoma umano abbiamo utilizzato questo approccio per completare la sequenza di molti altri organismi come il Mycoplasma genithalium, che possiede il genoma più piccolo tra quelli conosciuti, il Methanococcus jannaschii, un organismo completamente autotrofo che vive a temperature tra gli 80 e i 150 gradi centigradi e diversi organismi patogeni tra cui quelli responsabili della sifilide e di ulcere gastriche.
Studiare la genomica dei microrganismi non è stato semplicemente un esercizio volto alla messa a punto dei nostri metodi di sequenziamento perché ci ha insegnato moltissimo anche da un punto di vista scientifico. Questi genomi sono in continuo cambiamento e conferiscono agli organismi grandi capacità evolutive che consentono loro di adattarsi molto rapidamente ai mutamenti dell'ambiente in cui vivono. In questo senso abbiamo potuto verificare che siamo ancora ben lontani dalla vittoria sui microbi, annunciata dalla comunità scientifica negli anni Cinquanta. In realtà questa è una guerra che non vinceremo mai: nella migliore delle ipotesi potremo al massimo mantenerci in pari o leggermente in vantaggio, e solo a costo di grandi sforzi di ricerca.

Un altro aspetto molto interessante, anche da un punto di vista filosofico, è l'impossibilità di dare una definizione molecolare della vita attraverso lo studio del genoma. Per tutti i microrganismi, e in particolare per quelli patogeni, la sopravvivenza stessa è legata alla loro continua evoluzione e quindi alla mancanza di una situazione molecolare definita e immutabile a livello del genoma. In questa prospettiva per definire la vita non si può prescindere dal considerare l'ambiente in cui questa diventa possibile.
Il passo decisivo verso l'applicazione del sistema shot-gun al genoma umano è però avvenuto solo nel 1998 quando Mike Hunkapillar, della Perkin Elmer, mi chiamò per annunciarmi che avevano messo a punto un nuovo sequenziatore automatico di una precisione mai vista prima. La Celera Genomics, costituita nell'agosto del 1998 al fine di sequenziare il genoma umano utilizzando le tecnologie di analisi del Dna sviluppate dalla Perkin-Elmer's Applied Biosystems Division e il metodo shot-gun sviluppato al Tigr, è forse il miglior esempio di come grande precisone e potenza di calcolo siano le vere chiavi del successo quando si ha a che fare con decine di migliaia di basi.

Prima di passare al sequenziamento del genoma umano Celera ha poi annunciato l'intenzione di sequenziare il genoma della mosca della frutta Drosophila (Science 287, 2185-2204, 2000). Questa era un'impresa impensabile solo pochi anni prima, ma lo sviluppo tecnologico è stato impressionante in questo campo. Basti pensare che quando cominciammo a sequenziare la Drosophila, avevamo già dimezzato i tempi di sequenziamento e assemblaggio di un genoma come quello dell'Haemophilus, che solo tre anni prima rappresentava un intero anno di lavoro. Oggi basterebbero addirittura otto ore per sequenziarlo e 15 minuti per assemblarlo. É proprio grazie all'utilizzo di un nuovo algoritmo di assemblaggio continuo che il 26 giugno scorso Celera ha potuto presentare le 3 miliardi e 120 milioni di paia di basi che costituiscono il primo schema del genoma umano. Oggi stiamo ancora raffinando la precisione di questa sequenza modello, che sarà resa pubblica solo tra qualche mese e apparirà molto diversa da quella che è adesso.

Per quanto molto suggestivo il completamento del primo assemblaggio del genoma umano è però solo un inizio nella genomica. Adesso comincia il vero lavoro (e divertimento!): identificare la funzione di tutti i geni, determinarne i promotori e gli altri elementi di controllo e stabilire la correlazione tra le variazioni nel genoma e quelle nel fenotipo. Questo è sicuramente il passaggio cruciale perché per poter misurare il fenotipo, ovvero la parte visibile dell'espressione genica, dobbiamo poter valutare le proteine. Oggi misuriamo l'Rna messaggero per capire l'espressione dei geni, ma quello che vorremmo davvero è conoscere i rapporti quantitativi tra geni e proteine. Lo sforzo da compiere è enorme: si pensi che per i 50mila geni che crediamo costituire il nostro genoma si conoscono già più di un milione di proteine, ma i benefici per la medicina e la società saranno di eguale portata. Con lo sviluppo della genomica, la scoperta della suscettibilità alle malattie è destinata a diventare sempre più precisa e specifica per arrivare a una terapia preventiva mirata ed efficace. Screening genetici di popolazione, magari alla nascita, potrebbero diventare possibili, ma al tempo stesso diagnosi e trattamenti - il terreno di lavoro tradizionale dei clinici - verranno enormemente potenziati.

La genomica investirà non solo lo sviluppo di nuovi farmaci ma anche l'adattamento dei farmaci già esistenti alle particolari caratteristiche del metabolismo del paziente e alle specifiche mutazioni geniche. Le industrie farmaceutiche sono ben consapevoli dell'enorme potenziale dello sviluppo di nuovi farmaci aperto dalla genomica e dalla proteomica e molto probabilmente assisteremo a una massiccia personalizzazione su base genetica dei dosaggi e dei principi attivi dei farmaci. Il piano dei trattamenti per molti tipi di tumori sarà concepito in base ai particolari cambiamenti genomici intervenuti a livello delle cellule tumorali, così come la conoscenza dei promotori dei geni e di altri elementi di controllo potrà essere molto utile per controllarne l'espressione a fini terapeutici.

Condizione indispensabile perché si realizzino le promesse della genomica è però che i cittadini sappiano quello che la genomica può fare e - altrettanto importante - quello che non può fare. Per quanto eccitante possa sembrare lo sviluppo tecnologico in questo settore, una corretta informazione della popolazione e allo stesso tempo l'educazione di chi fornisce assistenza sanitaria di base sarà assolutamente imprescindibile per superare il timore che circonda i temi legati alla ricerca genetica e genomica.

Questo articolo è stato pubblicato su Il Sole 24 Ore Domenica il 17 dicembre 2000

 

LE MONDE diplomatique - Dicembre 2000

Le paure del 2000

di Ignacio Ramonet

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«Nella storia delle collettività, afferma lo storico Jean Delumeau, le paure cambiano, ma la paura resta (1).» Fino al XX secolo, le sciagure umane erano causate per lo più dalle forze della natura - intemperie, devastazioni, carestie - e da flagelli quali la peste, il colera, la tubercolosi, la sifilide. L'umanità era circondata da costanti minacce. Le disgrazie erano in agguato quotidianamente.

La prima metà del XX secolo fu segnata dalle due spaventose guerre del 1914-1918 e del 1939-1945. La morte su scala industriale, le distruzioni di massa, i campi di deportazione e di sterminio. In Europa occidentale, la seconda metà del secolo è stata caratterizzata dal progressivo spegnersi di conflitti armati mentre si affermava una prosperità quasi generale. Le condizioni di esistenza sono migliorate in maniera spettacolare, e la speranza di vita ha raggiunto un livello senza precedenti.

Un giorno gli storici delle mentalità si chiederanno quali fossero le paure del 2000. E scopriranno che al posto di quelle di ordine politico o militare (conflitti, guerre, terrore atomico) sono subentrate paure di carattere ecologico (sconvolgimento della natura e dell'ambiente), personale (salute, alimentazione) o di identità (procreazione artificiale, ingegneria genetica).

Queste nuove paure - e in particolare le ansie suscitate dalla malattia della «mucca pazza» e dagli organismi geneticamente modificati (Ogm), nascono dalla delusione, dal disincanto nei confronti dell'evoluzione tecnica. L'utilità del progresso scientifico, assorbito dal mondo economico e fortemente strumentalizzato dalle imprese essenzialmente avide di profitto, non appare più tanto evidente. Troppe volte la confusione tra interesse pubblico e interessi industriali si è risolta a vantaggio di questi ultimi. E in questi ultimi vent'anni la voga dei neoliberismo, l'idolatria del mercato, il riemergere di situazioni di grave precarietà e di stridenti disuguaglianze sociali hanno contribuito a rafforzare l'idea che il progresso tecnico abbia tradito la promessa di migliorare la sorte di tutti. Ognuno di noi ha potuto constatare che le istituzioni responsabili di garantire la sicurezza (parlamento, governo, esperti), hanno più volte mancato alla loro missione, dando prova di imprudenza e di negligenza. Tra l'altro, i «decisori» si sono abituati a ipotecare le sorti della collettività senza curarsi di chiedere preventivamente il parere degli interessati, cioè dei cittadini. Sono stati così alterati i termini del patto democratico (2).

Conseguenza: un sospetto tenace si è venuto insinuando sistematicamente nelle menti. Con una tendenza crescente a rifiutare di delegare a questi «responsabili» il potere di mettere a repentaglio la sorte collettiva autorizzando pratiche fondate su innovazioni scientifiche rischiose e insufficientemente sperimentate. Una nuova diffidenza investe gli apprendisti stregoni del neo- scientismo.

Di fatto, le clamorose rivelazioni su alcuni «flagelli silenziosi» hanno dimostrato a posteriori la tragica incompetenza delle autorità e degli esperti. Non solo il caso del sangue contaminato, ma anche quello dell'amianto, che in Francia provoca oggi circa 10mila morti l'anno tra gli operai. O le infezioni nosocomiali, cioè contratte durante una degenza in ospedale, responsabili di circa 10mila decessi l'anno (più di quelli dovuti agli incidenti stradali, che nel 1999 sono stati 8.487). Altri dati ci informano che l'inquinamento atmosferico, dovuto per il 60% ai trasporti su gomma, provoca ogni anno in Francia il numero veramente allucinante di 17mila morti premature (3), mentre i decessi dovuti alla diossina, sostanza cancerogena emessa dagli inceneritori di rifiuti solidi urbani, sono annualmente tra 1.800 e 5.200 (4).

Basta leggere il recente rapporto di un'inchiesta svolta in Gran Bretagna, pubblicato il 26 ottobre 2000, sull'epizootia da encefalite spongiforme bovina (Bse), per comprendere l'attuale diffidenza delle società europee nei confronti della carne bovina. Misure aberranti, avallate da «esperti», sono state adottate in spregio alle leggi della natura (5) e dei più elementari principi cautelativi. Poi, quando è apparso evidente che la malattia si estendeva e si propagava agli esseri umani, è stato un succedersi di menzogne e di dissimulazioni.

A fronte dei ritardi, delle smentite, delle mistificazioni e dell'atteggiamento irresponsabile delle autorità, l'opinione pubblica britannica non poteva che sentirsi ingannata. E dato che in tutto il resto dell'Europa il comportamento delle autorità non è stato sostanzialmente diverso, perché mai i cittadini non dovrebbero dar prova di un'identica diffidenza?

Soprattutto quando, come in Francia, possono constatare che in materia di Ogm è già stata autorizzata la commercializzazione di alcune varietà di mais transgenico.

Non parliamo dunque di psicosi della sicurezza assoluta o del rischio zero, ma della legittima preoccupazione dei cittadini per la priorità troppe volte attribuita dai poteri pubblici ai gruppi economici o agli egoismi corporativi, anziché al bene comune e all'interesse generale. La definizione del rischio accettabile, che si pretende di delegare agli «esperti», non riguarda forse noi tutti?

note:

(1) Jean Delumeau, Les Malheurs des temps, Larousse, Parigi, 1987.

(2) Leggere Olivier Godard, «De la nature du principe de précaution», in Le principe de précaution. Significations et conséquences, sotto la direzione di Edwin Zaccai e Jean-Noël Missa, Editions de l'Université de Bruxelles, Bruxelles, 2000.

(3) Due droghe lecite, veri flagelli sociali, provocano in Francia un numero di vittime ancora maggiore: l'alcool e il tabacco, responsabili rispettivamente di 42.963 e 41.777 decessi (cifre del 1997).

(4) Tra il 1975 e il 1995, con il moltiplicarsi degli inceneritori di rifiuti in Francia, il numero dei casi di cancro è aumentato del 21% tra gli uomini e del 17% tra le donne.

(5) Fin dal 1923, Rudolf Steiner, ispiratore dell'agricoltura biodinamica, metteva in guardia dai pericoli della trasformazione dei bovini in carnivori. Le Monde, 6 maggio 1996.

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(articoli raccolti da DAVIDE FASOLO)