Paolo Schmidt di Friedberg
(right-sfondochiaro.gif (838 byte) Scheda biografica)

Spunti per un dibattito sull’innovazione

(Settembre 1981)

|upda.gif (933 byte)[15 novembre 2002] Commenti dei lettori|Proposta di connessione|


 References 

La Trappola
L’uomo, specie moderno, ha la sensazione di essere prigioniero di forze più grandi di lui che non riesce a dominare e che lo portano alla catastrofe (crisi economica, crisi ambientale, terrore atomico, ecc.). E’ il discorso dell'apprendista stregone, del peccato del padre che ricade sui figli, della colpa originale che ha chiuso per sempre le porte del paradiso, ecc. Tutte queste visioni hanno in comune una concezione meccanicista del mondo, visto come una slot machine: introdotto il gettone, mangiata la mela, ne conseguono inevitabilmente, per una logica intrinseca alla macchina, catastrofi sempiterne. Scelta una strada sbagliata non c’è salvezza se non nel superamento della logica della macchina, nel distruggerne le leggi cioè, in termini religiosi, nell’intervento divino. Il mondo macchina non ha scopo in se stesso, ciò che contano sono i risultati sensibili delle sue reazioni immediate, non il fine delle stesse.

Il nido
Una visione organicista (e di per se stessa teleologica) del mondo appare molto più possibilista e, in un certo senso, più confortevole. Il mondo nel suo complesso è un insieme armonico, un grande organismo che ha un fine, quello di perpetuarsi: le sue parti, dunque, si muovono accortamente in sintonia in questa direzione. E’ il grande ballo dell’evoluzione: prima inorganica, poi organica, infine della conoscenza (la noosfera di Teilhard de Chardin). Niente è in realtà determinato rigidamente, solo le regole secondo cui si gioca al tavolo dell’evoluzione, ove si può puntare o meno secondo le volte.

L’uomo...
in un mondo organicista non è prigioniero di un "albero delle decisioni" implacabile; ad ogni dicotomia c’è sempre la possibilità di una scelta reale, perché anche lo schema di riferimento evolve con il succedersi delle decisioni. Qui sono fondamentali i lavori di Prigogine sui sistemi aperti (il mondo macchina è in fondo un sistema chiuso) sull’ordine creato dal disordine attraverso le fluttuazioni, ecc.; lavori che permettono di superare il vecchio paradosso della vita, barriera sul fiume dell’entropia, considerandola non come un accidente casuale (Monod) ma come la logica conseguenza all’evoluzione del cosmo.

L’innovazione...
è il grande strumento di cui dispone l’uomo per evolvere se stesso, per rendere confortevole il suo nido, cioè per svolgere il suo ruolo. Per prima cosa, dunque, si tratta di essere disposti a giocare: cioè di accettare l’evoluzione con tutte le sue conseguenze, scartando le tentazioni conservatrici. La conservazione, intesa come staticità, è l’unica cosa impossibile in una visione organicista, perché in contrasto con l’evoluzione. Si tratta, per essere chiari, di accettare che tutto cambia e che nulla rimane uguale a se stesso (quanti campanelli classici e orientali risuonano a questo punto!). Di accettarlo, però, non passivamente ma nella convinzione che con le nostre scelte (cioè manovrando gli scambi) influenziamo non solo il presente ma anche il futuro. Si superano così gli automatismi delle visioni gerarchica, omeostatica e termodinamica classica del mondo.

Il paradosso del movimento ecologico...
illustra bene i limiti delle visioni non evoluzioniste. L’uomo perturba la natura, dunque bisogna "salvarla" proteggerla dall’uomo. Ma quale equilibrio perseguire? Naturalmente quello "originario", quello cioè che, guarda caso, garantisce meglio gli interessi attuali dell’uomo. In altre parole, nel momento in cui si rivendica la necessità di rispettare la natura, di liberarla dall’uomo (questo inquilino irrequieto) si ripropone l’uomo attuale come metro, negando l’evoluzione, la vera grande forza della natura di cui anche l’uomo è strumento essenziale. Se ne conclude che nel rapporto uomo/natura non si può parlare di buono o cattivo se non facendo riferimento (di nuovo!) ai valori dell’uomo.

Innovazione passiva e attiva
L’innovazione passiva (in biologia = mutazione) prescinde da una volontà di innovare, è in un certo senso casuale, trascinata dal fluire delle cose.
L’innovazione attiva, invece, la vera innovazione, riguarda l’uomo; discende da una sua volontà precisa di innovare e sfrutta il potere degli ideali e di altre categorie intellettuali di influenzare il futuro, condizionando il presente. "Cogito ergo sum" tradotto in questo linguaggio vuol dire: accetto di pensare, quindi mi accetto come essere pensante con tutte le conseguenze anche operative che ne discendono. Si può dunque rivendicare l’innovazione non solo come espressione ma anche come fonte di libertà; cioè come libertà fiduciosa nella capacità del sistema evolutivo di trovare uno sbocco ai problemi dell’uomo in una logica possibilistica e non rigidamente deterministica.
Libertà che comunque comporta responsabilità definendo implicitamente il ruolo dell’uomo. La fede che smuove le montagne, aiutati che Dio ti aiuta, la Divina provvidenza ecc. non sono che modi classici di esprimere questi concetti.

Innovazione e cultura europea
La vera matrice della cultura europea, anche se non sempre esposta con chiarezza, sta proprio in questa accettazione della sfida della libertà; intesa come ricerca operativa, da verificarsi ogni giorno, del ruolo dell’uomo e non solo come ricerca da svolgersi una volta per tutte, della verità intellettuale. In questo senso la storia d’Europa è una parte essenziale del discorso sull’innovazione, dalla filosofia greca a Prigogine.

Innovazione tecnologica e non
Se l’innovazione è innanzitutto un atteggiamento mentale, una decisione di prendere in mano il proprio destino costi quello che costi, è evidente che non si può limitare il discorso al campo scientifico-tecnologico, importante quanto si vuole ma non certo capace di contenere tutto l’uomo nei suoi aspetti multiformi e nelle sue potenzialità (si finisce altrimenti nello scientismo). Cambiare atteggiamenti, sentimenti, modi di avvicinarsi alla realtà e ai propri simili, investigare le capacità del "pensiero laterale" analogico e non gerarchico, stimolare l’intuizione e la comprensione non scientifica, ecc. sono tutti modi di innovare nel senso già descritto, cioè di influenzare (e catturare!) il futuro.

Innovazione come diritto-dovere delle élites
Se l’innovazione è il modo attraverso cui l’uomo contribuisce a progettare l’evoluzione e a perpetuare se stesso (scopo fondamentale di una specie) è chiaro che essa costituisce il compito essenziale dell’uomo nel sistema dell’universo. Una concezione dell’innovazione come quella presentata è altrettanto chiaro, però, che non può costituire un’attività di massa, almeno nella sua fase propositiva. Invenzioni e rivoluzioni, non per nulla, sono sempre state attività di pochi, che solo in un secondo stadio hanno attirato le masse, tendenzialmente portate al conservazionismo (nel senso dei paragrafi precedenti) e quindi fondamentalmente antistoriche (con buona pace del marxismo!). In questa ottica il "tutto cambiare perché nulla muti" del Gattopardo è un giocare al tavolo dell’evoluzione conoscendone e rispettandone le regole.

Innovazione e organizzazione
Da tutto quanto detto risulta evidente che l’uomo non deve e non può fare affidamento sull’innovazione casuale, passiva, ma deve organizzarsi socialmente e moralmente per stimolare un’innovazione attiva. Si tratta dunque di affrontare i problemi della politica, del potere, della scienza, ecc. avendo come metro l’innovazione: un compito storicamente già affrontato nei momenti più agitati della storia, quelli rivoluzionari ma che non ha ancora costituito il filo conduttore di una esperienza di organizzazione sociale di lungo periodo. Rivoluzione permanente = innovazione permanente: era questa la vera aspirazione di fondo del ’68? Da questo punto di vista sarebbe interessante trovare il modo di valutare "l’attitudine all’innovazione" dei vari popoli: forse qui è la forza del mondo occidentale.

Milano-Bruxelles-Londra 2-3-4 settembre 1981

P.S. Da quanto detto sopra è evidente l’importanza di una presenza filosofica nel gruppo : Del Noce, Bobbio, ecc.


Alcuni commenti dei lettori [giugno - novembre 2002]upda.gif (933 byte)[15 novembre 2002]

Tra i lettori che hanno espresso un'opinione sullo scritto di Schmidt di Friedberg, alcuni sollevano perplessità riguardo alla forma frammentaria e al modo poco argomentato con cui i concetti sono espressi nello scritto. Altri sono invece incuriositi proprio dal tipo di inquadramento, considerato semplice solo in apparenza, entro il quale Schmidt tratteggia la problematica dell'innovazione e della responsabilità come fattore interno alla storia dell'uomo. Viene fatto inoltre notare che il riferimento alle élite presuppone un ruolo sociale che non necessariamente dovrebbe appartenere all'innovatore, presuppone che sia prevista una direzione dell'innovazione e che l'innovatore sia ben individuato; si fa osservare anche che l'impostazione elitaria sembra contrastante con il binomio "innovatore = uomo libero" definito nel paragrafo sull'innovazione passiva e attiva (sarebbero liberi solo coloro che decidono di essere innovatori? Se sì, sono così pochi? E sono una élite?). Un altro rilievo riguarda poi il rapporto che Schmidt pone tra innovazione ed evoluzione, considerato come approssimativo. Infine, una considerazione, definita come estemporanea, riguarda il riferimento all'innovazione come metodo per progettare l'evoluzione, che potrebbe ricordare una famosa frase di Alan Kay: "Il miglior modo per prevedere il futuro è inventarlo".» [right-sfondochiaro.gif (838 byte)chi è Alan Kay, sul sito della trasmissione "Golem" di RAI Radio 1]

Riportiamo, qui sotto, altri commenti ricevuti.

new.gif (896 byte)[15 novembre 2002]
Carlo Penco (right-sfondochiaro.gif (838 byte)testo integrale del commento [cliccare sul link]; qui sotto, alcuni estratti)
      «L’elemento più rilevante che mi sembra di cogliere nel testo di Paolo Schmidt di Friedberg è l’idea che la storia dell’umanità abbia un senso, una direzione, tracciata dall’innovazione, e che questo fine sia positivo. Ma è veramente così?
(...)
L’idea di progresso (intendendo come progresso l’effetto incrementale dell’innovazione che si rivela positiva, vincente) si è, in realtà, affermata nella cultura occidentale abbastanza recentemente e, a dire il vero, non mi sembra che oggi goda di buona salute.
(...)
Io non credo all’idea di progresso e alla centralità dell’innovazione nella storia dell’umanità come è affermata da Paolo Schmidt di Friedberg. Penso che le cose siano più complesse e, a questo proposito, la tradizione filosofica occidentale è, per me, illuminante.
Sono convinto che nell’interpretare il rapporto tra innovazione e storia dell’umanità bisognerebbe introdurre una visione dialettica (intendo qui la dialettica della tradizione teoretica non la versione sovietica). In questa chiave, innovazione e conservazione, progresso e regresso sono destinati a persistere permanentemente nella nostra interpretazione del mondo. Come all’interno di una gigantesca miscelatrice, le componenti progressive si muovono dentro quelle regressive, anche se a tratti sembrano prevalere o regredire. Il gioco è infinito e, forse, casuale come facilmente potrebbero dimostrare i teorici del caos. Siamo noi che, in epoche diverse, interpretiamo e quindi vediamo il prevalere dell’uno o dell’altro all’interno del nostro foglio mondo, il nostro universo di segni che altro non è che un’analogia della realtà. È, per le nostre menti e i nostri occhi, logicamente necessario.
(...)
Tecnici e scienziati, come businessmen, manager, politici, prelati, militari (come chiunque appartiene ad una élite che è chiamata ad esprimere opinioni e decisioni che possono avere conseguenze collettive) avrebbero grandi benefici dal recuperare una conoscenza della tradizione filosofica. Questa è, infatti, per definizione pragmatica, vale a dire insegna a riflettere correttamente sulle nostre pratiche e su quelle di chi ci ha preceduto al fine di migliorarle.»

Giacomo Correale
[10 agosto 2002]
      «Mi sembra che gli "Spunti per un dibattito sull'innovazione" di Paolo Schmidt diano troppe cose per acquisite o conosciute. Purtroppo un dibattito dovrebbe cominciare chiedendo a lui, se ancora fosse tra noi, dei chiarimenti, o leggendo qualche altro suo testo più completo.
      Mi soffermerei soltanto su due affermazioni. La prima: "Una concezione dell'innovazione come quella presentata (...) non può costituire un'attività di massa, almeno nella sua fase propositiva", con quel che segue. La seconda: "Sarebbe interessante trovare il modo di valutare "l'attitudine all'innovazione" dei vari popoli: forse qui è la forza del mondo occidentale".
      Come tutte le affermazioni che propongono delle graduatorie generiche, precostituite e unilaterali tra gli uomini e, peggio, tra i popoli, le ho lette con un po' di fastidio. E d'istinto mi sono chiesto come controbatterle.
      Si potrebbe dire che ormai da tempo la storiografia non si limita più ad esplorare e interpretare le vicende delle sole classi al potere, di re, di generali, nel nostro caso di grandi scienziati, per approfondire le vicende di uomini e popoli secondo prospettive multidisciplinari.
      Si potrebbe citare Schumpeter, quando dice: "La caratteristica che definisce l’imprenditore è data semplicemente dal fare cose nuove o dal fare cose già fatte in modo nuovo (innovazione)... non c’è bisogno che la ‘cosa nuova’ sia spettacolare o d’importanza storica, non c’è bisogno che si tratti dell’acciaio di Bessemer o del motore a scoppio; può anche essere la salsiccia di Deerfoot. Per cogliere il fenomeno anche ai livelli più modesti è indispensabile, anche se può essere difficile, analizzare storicamente i piccoli imprenditori".
      Le affermazioni di Schmidt hanno comunque contribuito a farmi riflettere sul fatto che ci deve essere qualcosa d'altro oltre l'innovazione, forse di reciproco, come nel diagramma Yin e Yang. Qualcosa che normalmente dimentichiamo. Già parlare di "innovazione responsabile" introduce qualcosa di reciproco. Insomma, quelle sue affermazioni hanno contribuito a farmi pensare all'innovazione in modo meno mitico ed esclusivo, a ripensare che essa alla fine non costituisca, da sola, la massima espressione dell'uomo. Forse è come un motore straordinario che tuttavia, oltre a richiedere un controllo continuo, attento e consapevole, non è male se ogni tanto viene spento per fare posto a qualche altra cosa.»

Luigi Foschini (il riferimento è alla Rassegna stampa, commentata da Bertolini, di aprile 2002)
      «Curioso è l'ultimo punto del documento, dove quella che potrebbe essere chiamata "innovazione permanente" appare come un lapalissiano caso di contraddizione in termini. Però è interessante che l'autore accenni al fatto di studiare l'attitudine all'innovazione dei vari popoli. Qui ci si può ricollegare al discorso iniziato da Bertolini sui fantasmi di Frankestein e la loro esistenza solo nel mondo Occidentale.»

Domenico Lanfranchi
      «L'opposizione meccanicismo/organicismo mi sembra appartenere ad una concezione ottocentesca del sapere, abbondantemente superata dalla ricerca scientifica ed epistemologica contemporanea; molte considerazioni sull'evoluzione mi sembrano più oggetto di fede che risultato di ricerca scientifica (significativo il riferimento a Teilhard de Chardin); la fiducia "nella capacità del sistema evolutivo di trovare uno sbocco ai problemi dell'uomo in una logica possibilistica" mi sembra una pia illusione»

Marlene Di Costanzo
      «Non mi convince l'approccio teleologico. Il fine dell'evoluzione è l'uomo? E se no qual è? E se è l'uomo perché il percorso verso l'uomo è così contorto. Un percorso teleologico dovrebbe essere più lineare.»

Elisabetta Volli
      «E' una sintesi di una visione in sè coerente e di ampia portata.»


Proposta di connessione col cosiddetto "Principio antropico" [agg : 19 agosto 2002]

Il principio antropico: teleologia, finalismo e scale di valori escono a sorpresa proprio dal cappello di fisici "duri e puri" come Carter, Barrow e Tipler: si veda, qui sotto, l'articolo di Piero Bianucci.
Il brano in cui Schmidt fa riferimento alla vita come logica conseguenza dell'evoluzione del cosmo, in una visione finalistica che esalta la centralità dell'uomo (v. sopra), può richiamare alla mente, per associazione, il principio antropico di cui all'omonimo libro di Barrow e Tipler. Qui sotto, dopo quello di Bianucci sono stati aggiunti tre articoli in argomento: di Bottazzini, di Odifreddi e di Prattico [19 agosto 2002].

Dall'articolo di Piero Bianucci "L'universo fatto a misura d'uomo? E' una scommessa probabile", La Stampa, 22 giugno 2002
"Tradotto 'il principio antropico' di Barrow e Tipler, un evento culturale: un'analisi scientifica sulle origini della vita e le sue conseguenze filosofiche e religiose"

«A coniare l'espressione "principio antropico" fu, nel 1974, il cosmologo Brandon Carter, a pagina 291 di Confrontation of cosmological theories with observation ma l'idea era vecchia: si ritrova in molte filosofie e in tutte le religioni. Molti scienziati, quindi, liquidarono con un'alzata di spalle quel «principio» che andava contro il processo di marginalizzazione dell'uomo rispetto all'immensità dell'universo avviato da Copernico e Keplero. Tuttavia il seme era gettato, e ben presto si sarebbe rivelato invasivo.

Ad ogni progresso compiuto in astrofisica negli ultimi cinquant'anni, la ricetta per fabbricare un universo come quello che osserviamo, cioè capace, a un certo punto della sua evoluzione, di generare creature intelligenti, è apparsa sempre più improbabile. Così, dopo la provocazione lanciata da Carter, il tema è stato approfondito da innumerevoli studiosi, e principalmente da John D. Barrow, astrofisico all'Università di Cambridge e Frank Tipler, fisico matematico alla Tulane University di New Orleans (Usa). Il loro testo fondamentale, (Il principio antropico, trad. di Francesco Nicodemi, Adelphi, pp. 770, € 55, 00) pubblicato in Inghilterra nel 1986, arriva finalmente anche da noi, nell'accurata traduzione di Francesco Nicodemi per Adelphi. Senza dubbio un evento culturale. Si distingue tra un principio antropico forte e un principio antropico debole. La formulazione debole dice che «i valori osservati di tutte le quantità fisiche e cosmologiche non sono ugualmente probabili ma assumono valori ristretti dal requisito che esistano luoghi ove si possa evolvere vita basata sul carbonio e dal requisito che l'universo sia abbastanza vecchio per averlo già fatto». La formulazione forte afferma invece che «L'universo DEVE avere quelle proprietà che permettono alla vita di svilupparsi in qualche stadio della sua storia». Barrow e Tipler aggiungono il Principio Antropico Ultimo, secondo il quale «nell'universo deve necessariamente svilupparsi elaborazione intelligente dell'informazione, e una volta apparsa non si estinguerà mai», il che comporta che l'uomo, direttamente o indirettamente (attraverso robot in grado di autoriprodursi) colonizzerà il cosmo intero.

E' difficile dare uno statuto epistemologico a questi «principi». Non sono assiomi e non sono teoremi. Ma non sono neanche pure tautologie, come qualche volta si è detto. Essi mettono in evidenza la scoperta, indubbiamente carica di suggestioni, che l'universo è critico rispetto alla biologia ma, almeno per adesso, non autorizzano - come alcuni vorrebbero - la conclusione secondo cui l'universo è com'è al fine di permettere la vita, e in particolare la vita intelligente quale noi la conosciamo. Si potrebbe infatti obiettare che l'evento "vita umana" ci appare molto improbabile solo perché noi guardiamo le cose dal punto di vista dell'evento compiuto, ma non sarebbe così se potessimo metterci da altri punti di vista. Per fare una analogia, le probabilità che alla roulette esca per 4 volte di seguito il numero 13 sono appena 5 su 10 milioni, e quindi l'evento, se si verificherà, ci sembrerà quasi miracoloso; tuttavia lo stesso vale, a posteriori, per qualsiasi sequenza di quattro numeri: l'uscita di una sequenza 3, 1 1, 7, 26 è altrettanto improbabile, ma non attira altrettanto la nostra attenzione.»

Altri articoli sul principio antropico

Umberto Bottazzini, "L'uomo rientrato", Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2002
Il principio antropico, una congettura tra scienza e teologia
«In questo libro di affascinante ma non sempre di semplice lettura Barrow e Tipler si collocano in una prospettiva storica e filosofica per esplorare gli sviluppi scientifici moderni di un'antica idea teleologica, in un crescendo di difficoltà che richiedono conoscenze profonde di matematica, cosmologia, astrofisica e fisica quantistica per essere superate.»

In senso alquanto critico: Piergiorgio Odifreddi, "Lo scienziato e l'esistenza di Dio", la Repubblica, 18 maggio 2002

[19 agosto 2002] Un articolo critico nei confronti delle tesi che rivendicano per l'uomo uno statuto sui generis: Franco Prattico, "Homo sapiens: siamo uomini o materiali?", La Repubblica, 17 agosto 2002.
Nel libro, da poco pubblicato in Italia, "Che cos'è l'uomo? Sui fondamenti della biologia e della filosofia" (presentazione di Salvatore Veca, Garzanti) il filosofo Luc Ferry e il biologo Jean-Didier Vincent si confrontano sul significato dell'esistenza dell'essere umano. Prattico chiude l'articolo chiamando in questione il Principio antropico di cui al libro di Barrow e Tippler e sintetizzandolo con sottile ironia.

• Libertà e responsabilità: Ferry rivendica per l'uomo uno statuto speciale
Nell'uomo c'è qualcosa che sfugge a ogni determinismo meccanico: ed è la libertà, la capacità tutta umana di scegliere tra alternative diverse, di non farsi imprigionare in codici comportamentali precostituiti a livello di specie. E' la libertà la vera discontinuità dell'uomo rispetto ai regni di natura, uno scarto rispetto ai codici materiali.
(...)
Ferry osserva che libertà e responsabilità sono il contrassegno del fossato tra noi e il resto del mondo animale.
(...)
L'uomo ha, anche a livello individuale, una "storia", e perciò è un essere morale (in grado di decidere i propri comportamenti), senza essere necessariamente prigioniero di alcun codice naturale e neppure storico (ambientale, culturale, etc.): è un essere che sceglie, anche se la sua provenienza dal mondo animale non può essere posta in dubbio.
• Il fondamento biologico della libertà rivendicata da Ferry
L'uomo è un animale "neotenico": ossia conserva nella maturità caratteri infantili, nasce incompleto e quindi continua ad apprendere, dopo la nascita, subendo quindi gli impatti formativi dell'ambiente, delle esperienze, sfuggendo così alle rigide determinazioni genetiche, e ai codici comportamentali cui sono prigionieri gli altri animali. Saremmo quindi, secondo Ferry, vecchie scimmie rimaste allo stato infantile. E questo è il fondamento, se si vuole biologico, della libertà rivendicata da Ferry. L'uomo è "libero" nella misura in cui rispetto al canone animale è "incompleto".
(...)
Potrebbe essere proprio questa incompletezza --che avrebbe la sua radice appunto nella neotenia: un cervello immaturo alla nascita è meno condizionato dal comando genetico-- a sottrarlo, non completandolo, a determinazioni troppo severe e stringenti.
• Il riferimento al Principio antropico
Proprio nel cuore più avanzato dell'Impresa scientifica c'è chi --pur senza spirito religioso-- fa dell'uomo addirittura il fine stesso dell'Universo. (...) Una teoria un po' megalomane di cui si fanno interpreti due scienziati anglosassoni di tutto rispetto in un libro pubblicato in Italia da Adelphi: John D. Barrow e Frank Tippler.
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