Rassegna stampa del sito della Fondazione Bassetti  

ovvero: il blog di Vittorio Bertolini (pagina personale dell'autore)

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 Scienza e politica: controllo o collaborazione?

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Nelle sezioni precedenti si è posto in particolare evidenza il rapporto fra ricerca tecnico-scientifica e politica, illustrando in particolar modo le idee e le proposte di scienziati e intellettuali, che poi nel caso di Umberto Veronesi e Piero Bassetti hanno alle spalle una più o meno intensa esperienza politica.
Nell'articolo "Scienza, più controllo politico" apparso su Avvenire del 17 giugno, Luigi Dall'Aglio intervista un tecnologo, il prof. Gabriele Franciasecca. Docente di ingegneria all'Università di Bologna.
Per Falciasecca la scienza è ambivalente:
«Speranze nella scienza? Ma la scienza non si limita a suscitare speranze, "sui suoi potenziali benefici ci sono prove sperimentali"». Timori a causa della scienza? La scienza può suscitarne, perché insieme con la tecnologia è uno strumento assai potente, "ma questo aumenta la nostra responsabilità nell'utilizzarla; dobbiamo essere all'altezza"».

Occorre però distinguere fra scienza e tecnica:
«In via di principio, sia la scienza che la tecnologia sono certamente un bene. La scienza deriva dall'innata sete di conoscenza che anima l'uomo; la tecnologia nasce dall'esigenza di mettere a profitto - per la sopravvivenza della specie - la più alta capacità umana, l'intelletto. Il problema di fondo? Da un lato, la società non si è preparata a comprendere veramente gli aspetti tecnologici del nostro modo di vivere, e perciò reagisce a volte un po' "al buio", cioè e motivamente. Dall'altro, i poteri dell'economia e della finanza sono in grado di impadronirsi degli sviluppi tecnologici e di condizionarne l'uso. (Tutto ciò avviene a beneficio dell'uomo? Si apre il discorso più generale sulla responsabilità sociale dell'impresa, locale o multinazionale che sia)».

Di fronte al rischio che i poteri dell'economia e della scienza possano influire negativamente sulla ricerca tecnico-scientifica occorre, per Falciasecca un intervento dei pubblici poteri. Un intervento, però, basato non tanto sul controllo, quanto sulla collaborazione:
«Ma solo se comprendono [i politici] a fondo i reali meccanismi di formazione del consenso scientifico. Nel dibattito tra i ricercatori, ci sono momenti di discussione quando vecchie teorie mostrano le loro falle o si aprono orizzonti inattesi. Sono gli stessi esperti del settore che, attraverso prove ripetute, confronti, giungono piano piano a un assestamento della conoscenza. E' alla comunità scientifica che occorre perciò fare riferimento per poter prendere decisioni.»



martedì, giugno 24, 2003  

 Convegno sulla responsabilità

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Nei giorni 5 e 6 giugno, nell'aula Nievo del Palazzo centrale dell'Università di Padova, si è svolto un convegno nazionale di studio, promosso dall'Istituto italiano per gli studi filosofici e dal dipartimento di filosofia, sul tema «Dimensioni della responsabilità nel pensiero moderno e contemporaneo» a cui hanno partecipato, fra gli altri, Remo Bodei e Umberto Curi, Sergio Moravia e Carlo Sini. Su Il Mattino di Padova del 3 giugno è stata pubblicata una sintesi della relazione introduttiva di Umberto Curi.
Rimandando all'articolo di Curi "Responsabilità, «voce» moderna. Etica, politica, ecologia alle prese con i paradossi della risposta", di seguito vengono riportati due brevi stralci che servono a illustrare la problematicità del concetto di responsabilità.
«Si deve a Max Weber la contrapposiizone fra l'etica della "convinzione" e l'etica della "responsabilità": nel primo caso, vale il motto kantiano (purchè sia fatta giustizia, vada pure in rovina il mondo intero), mentre nel secondo caso si tratta di un "agire razionale rispetto allo scopo", nel quale dunque colui che agisce deve preoccuparsi sia dei mezzi idonei ad ottenere determinati scopi, sia degli effetti conseguenti al proprio operare. L'etica della responsabilità ha trovato un convinto sostenitore in Hans Jonas, secondo il quale è possibile conferire alla responsabilità il carattere di un vero e proprio "principio ecologico", in forza del quale ciascuno di noi è in qualche modo "obbligato" anche verso le generazioni future (coloro che "non sono ancora nati") e addirittura verso l'intero ambito della biosfera (Il principio responsabilità, 1979).»
«ogni nostra azione, ogni nostro comportamento, è al tempo stesso un atto massimamente responsabile e massimamente irresponsabile. Non si può essere responsabili in "assoluto", ma solo in relazione ad una voce specifica, rispetto ad altre voci che restano inascoltate. Paradigma dell'intrinseca contraddittorietà della nozione di responsabilità è Abramo: quando obbedisce alla richiesta dell'angelo di immolare Isacco, egli risponde alla voce di Dio, ma con ciò stesso non risponde alla voce che gli imporrebbe di non uccidere il proprio figlio.»

Su Il pricipio di responsabilità di Hans Jonas vedi:



giovedì, giugno 19, 2003  

 Beck e «un mondo a rischio»

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«Dirò subito che lo usiamo nella stessa accezione in cui lo hanno usato e introdotto autori che conoscete bene come U.Beck o A. Giddens. Da loro voglio riprendere qui solo qualche affermazione che più di altre mi servono. Per es. "Il concetto di rischio è un concetto moderno" (Beck) che presume il pericolo e che sostituisce quello di fortuna. (Giddens). Una società dell'innovazione - e perciò del rischio - sarà perciò costretta a scelte difficili perché tese "a rendere prevedibili e controllabili le conseguenze imprevedibili delle scelte compiute in nome del progresso". (Beck)»

Il brano citato è stato tratto dalla parte iniziale, in cui si illustra preliminarmente il tema di "rischio sociale", della lezione "Innovazione, rischio sociale e responsabilità politica", svolta il 14 maggio scorso alla London School of Economics da Piero Bassetti, Presidente della Fondazione Giannino Bassetti.
Di Ulrich Beck ora Einaudi propone, nella collana le "Vele" con il titolo "Un mondo a rischio" [questo link conduce alla scheda sul sito di Internet Bookshop], il testo del suo discorso alla Duma di Mosca del novembre 2001.
Sandro Modeo, su Il Corriere della Sera del 7 giugno, "E l'uomo creò la «società del rischio»", recensendo questo testo di Beck, scrive:
«Non c'è dubbio che Beck sia tra i migliori sociologi in circolazione. Forse il migliore. E qui lo dimostra riassumendo lui stesso, con essenzialità limpida, l'originalità del proprio taglio analitico. Prima ripercorre la dorsale delle proprie tesi: l'emergere di una «società del rischio» in cui i tanti break naturali e sociali (i mutamenti climatici e biotecnologici, i crash finanziari, i terrorismi transnazionali) stanno mettendo in crisi idee e assetti consolidati come la fede religiosa, la divisione in classi, le istituzioni politiche e giuridiche».

Ma se questi sono gli elementi costitutivi della "società del rischio", Beck sottolinea:
«la conseguente inadeguatezza di un lessico antiquato e rigido rispetto a categorie nuove e mutevoli: rispetto cioè a una "guerra" sempre più asimmetrica e individualizzata (vedi gli eserciti e i kamikaze); a uno "Stato" sempre più incapace di controllare il prelievo fiscale (coi capitali che bucano i confini fisici con le transazioni off-shore) ; e a un "mercato" che l'ideologia neoliberista deve tutelare con misure (restrizione dei diritti civili) che ne sono la totale negazione».

Se l'analisi dei problemi è, per Modeo, convincente, non altrettanto è il complesso delle soluzioni proposte:
«è lecito vedere in lui un eccesso di astrazione teorica, una levigatezza illuministica che tende a nascondere gli spigoli dei fatti. Come si può allestire un "fondamento giuridico internazionale" quando chi dovrebbe dare l'esempio (gli Stati Uniti e Israele) rifiuta, tra gli altri, gli accordi del '72 sulle armi biologiche e il trattato sul tribunale penale internazionale del '98? Come si può sperare in una "politica del dialogo" con l'Islam se gli sforzi europei vengono poi sgretolati dall'unilateralismo angloamericano delle guerre preventive? E come si può credere davvero alla cooperazione tra "stati multinazionali e cosmopoliti" quando gli stati stessi sono vincolati a corporations (armi - petrolio - farmaci) che ne condizionano elezioni e politica interna ed estera?»



martedì, giugno 17, 2003  

 Scienza e tecnica : scissione o integrazione?

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(Una recensione di Salvatore Carrubba del libro di Joel Mokyr "The Gifts of Athena - Historical Origins of the Knowledge Economy")

In precedenza, in questa Rassegna si è visto come i prodotti della tecnologia suscitino una certa diffidenza per il fatto che molte volte sembra che l'innovazione tecnologica sia scissa dalla conoscenza scientifica e sia mossa da nessun'altra considerazione che non sia quella del consumo e del mercato.
Su un approccio diverso sembra muoversi Salvatore Carrubba nell'articolo "Contro le lobby antinnovazione" apparso sul Il Sole 24 Ore del 18 maggio. Egli inizia la recensione al libro dello storico dell'economia Joel Mokyr, "The Gifts of Athena - Historical Origins of the Knowledge Economy", con:
«Contraddittorio se non schizofrenico: così si potrebbe fotografare il rapporto con la conoscenza dell'uomo moderno; il quale, se da un lato non si nega alcun gadget della tecnologia, dall'altro guarda spesso con malcelato fastidio, se non con netta ostilità, ai progressi ulteriori della scienza e della ricerca, mascherando magari con una carica ideologica la propria sostanziale ignoranza».

Per Carrubba, e per Mokyr, l'innovazione tecnologica non è "il fare per il fare" ma è l'altra medaglia della conoscenza:
«Non uso a caso i due aggettivi "scientifico" e "tecnologico". Perché per Mokyr essenziale è comprendere il ruolo che le due forme di conoscenza, le due facce della conoscenza «utile», possono svolgere: la prima è la conoscenza sul "cosa", la conoscenza di proposizioni sui fenomeni naturali e sulle regolarità; le seconda è la conoscenza sul "come", la conoscenza prescrittiva, le tecniche. Mokyr dimostra efficacemente una prima realtà: le due forme di conoscenza non sono staccate l'una dall'altra. Le tecniche, è vero, possono non nascere nei laboratori scientifici, ma dall'esperienza di un artigiano intelligente piuttosto che dalla buona sorte di un'osservazione casuale. Ma anche la fortuna, per dirla con Pasteur, aiuta «gli animi predisposti». Ossia, senza un deposito ricco e condiviso della prima forma di conoscenza, quella teorica e di ricerca, la seconda non ha incentivi e motivazioni: senza ricerca, dunque, non c'è tecnica, o non ce n'è a livelli sufficienti per assicurare sviluppo economico».

E poi aggiunge:
«Illudersi insomma che l'innovazione nasca in fabbrica è pericoloso. A una società che voglia davvero cogliere le opportunità dell'economia della conoscenza servono un sistema di ricerca diffuso e frequenti contatti tra il mondo accademico e scientifico e quello della produzione: "La conoscenza deve scorrere da quelli che sanno cose a quelli che fanno cose".

Ma se nella coesione del sistema sociale:
«Divulgazione affidata a pubblicazioni, enciclopedie e formazione professionale diffusa»

si attua la ricomposizione tra scienza e tecnica, nello stesso sistema sociale si realizzano le opposizioni all'innovazione:
«Le lobby minacciate dall'avanzata delle tecniche hanno sempre saputo ingaggiare una resistenza senza quartiere. Magari facendo leva su paure ancestrali e timori indimostrabili dell'opinione pubblica. Ma è proprio la resistenza di queste lobby, come ha dimostrato Mancur Olson, che minaccia il funzionamento e la dinamica delle società democratiche, che debbono dunque darsi volontà e strumenti per resistere alle gilde e alle corporazioni di oggi, schierate come ai tempi dei luddisti contro il cambiamento solo per corposi interessi personali. [....] Come ha dimostrato Virginia Postrel in un altro bel libro («The Future and Its Enemics», The Free Press, 1998), passa, ormai da qui l'autentico discrimine ideologico del nostro tempo, che oppone i fautori di una società statica a chi crede nelle virtù e nelle potenzialità della creatività, del progresso e dell'impresa».

Considerazione personale.
In ultima analisi la risoluzione della tensione fra una tecno-scienza improntata al "tutto ciò che si può fare si deve fare" (v. in Argomenti a pag. 7) e la demonizzazione dell'innovazione per la salvaguardia di interessi consolidati (scrive Carrubba: «gli organismi geneticamente modificati non è chiaro se facciano male alla salute, ma fanno certamente male a molte aziende agricole») rimanda al problema di favorire la crescita di un'opinione pubblica informata e consapevole. E questo ci rimanda al "metodo Fishkin" (v, in questa Rassegna, l'item del 29 maggio).




venerdì, giugno 06, 2003  

 L'uomo è antiquato : il libro di Gunther Anders

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«Anders costruisce su un' "antropologia negativa", cioè sulla convinzione che sussista una "asincronia" tra le diverse facoltà dell'uomo - il produrre, il pensare e il sentire - e dunque uno «scarto prometeico» tra ciò che l'uomo può tecnicamente fare e ciò che riesce a pensare e sentire. L'uomo insomma è in permanente ritardo, è disfunzionale rispetto all'accelerazione tecnologica e alle sue continue innovazioni. E' antiquato»

Così leggiamo nella recensione di Franco Volpi (La Repubblica, 17 maggio, "E' questione di tecnica") al testo di Gunther Anders "L'uomo è antiquato" (Bollati Boringhieri, vol. I pagg. 348, euro 26; vol. II, pagg. 434, euro 28). Essendo stato Gunther marito di Hanna Arendt, Volpi in questa recensione si sbilancia, forse eccessivamente, sui rapporti fra Heidegger, Gunther e la Arendt. Ciò non toglie che riusciamo a cogliere, in un testo pur non modernissimo, la problematica heideggeriana, recentemente riproposta da Umberto Galimberti (vedi in questo sito la Pagina 7 degli Argomenti e "Quale impresa per la sfida evoluzionista?", di Piero Bassetti), di una tecnica che tende sempre più a rendersi indipendente dall'uomo:
«Bisogna invece interpretare questo cambiamento, perché esso non porti a un mondo senza di noi, a un regnum hominis privo del suo monarca».


mercoledì, giugno 04, 2003  

 Scienza e tecnologia : dialogo fra Veronesi e Galimberti

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In un item precedente di questa rassegna si è parlato del progetto di Umberto Veronesi per una "Camera Alta" per l'etica e la scienza. Su Repubblica del 27 maggio, a cura di Carlo Brambilla è stato pubblicato il dialogo "La scienza sotto accusa" fra Umberto Veronesi e Umberto Galimberti. Al di là delle ovvie differenze d'impostazione culturale fra lo scienziato e il filosofo, sia Galimberti che Veronesi concordano sul fatto che le prospettive aperte dalle scoperte scientifiche comportano l'adeguamento di un'etica che in molti casi risente di un mondo in cui le scoperte delle scienze della vita non erano neppure immaginabili, un'etica però che deve sottrarre l'innovazione tecnologica all'"irresponsabilità" di una tecnologia troppe volte autoreferente.

Scrive Veronesi:
«Vedo una regressione culturale del mondo, che sembra spesso dimenticare la forza della ragione, a favore di visioni un po' primordiali. Qualche volta mistiche, qualche volta miracolistiche, qualche volta sciamaniche. Sono preoccupato perché sull'onda di questa regressione si stanno sviluppando dei movimenti antiscientifici. Il rifiuto di accettare le novità della scienza, anche se benefiche.[...] Ma tornando alla scienza, è importante dividerla dalla tecnologia. La scienza risponde a dei principi, tradizionalmente quelli galileiani della ricerca della verità, della riproducibilità, della universalità. Penso alla funzione civilizzatrice della scienza, che ha riscattato l'uomo da credenze primordiali. L'uomo vuole conoscere. E' più forte di lui, è una sua necessità interiore. Un bisogno che ha scritto nel Dna. E la scienza deve conoscere. Questo è il suo scopo. Anche se non ci servirà a nulla di concreto abbiamo bisogno di esplorare l'universo. La tecnologia, invece, risponde solo al mercato. Risponde solo ai consumi. Pensare che le tre grandi aree di sviluppo in questo periodo storico sono le biotecnologie, l'informatica e le telecomunicazioni, mi terrorizza. Rischiamo di mettere il mondo in mano alla tecnologia, che vive una sua vita amorale. Priva di intenzioni e di responsabilità.[....] La mia preoccupazione maggiore è che la tecnologia si stacchi dalla scienza, la superi. E la scienza non riesca più a starle dietro con un disegno strategico. Questo è il punto: dobbiamo evitare, in ogni modo, che la tecnologia sia indipendente dal mondo scientifico. Bisogna creare dei limiti e dei principi. Bisogna che la tecnologia torni ad essere quello che era: uno strumento della scienza. E non si trasformi, invece, da strumento a fine, come è successo, purtroppo, al denaro».

A sua volta Galimberti:
«Dovremmo cominciare a considerare il fatto che la tecno-scienza non è più uno strumento al servizio dell'uomo, perché le sue dimensioni sono diventate tali che i suoi scopi non sono più antropologici. E' tipico della scienza produrre effetti non previsti. Perché la ricerca è aperta a tutto campo e tutto quello che si scopre si scopre. Chi avrebbe pensato 50 anni fa alla clonazione? [...] Come si comporta un'etica quando si trova davanti ciò che non è stato previsto? La fecondazione artificiale era prevedibile cent'anni fa? No. Però abbiamo ancora un'etica di cent'anni fa. Cioè un'etica che si è limitata a regolare i rapporti tra gli uomini. [...] La tecnica procede la sua corsa sulla base del "si fa tutto ciò che si può fare". La scienza, che è il luogo pensante, potrebbe diventare, invece, il luogo etico della tecnica. Non l'etica tradizionale, che è troppo arretrata. La scienza potrebbe diventare il luogo eminente del pensiero che pone un limite. Nel senso di dire "tecnica, poniti degli scopi nella qualità delle tue ricerche". Perché la scienza ha un'attenzione umanistica. Promuove un agire in vista di scopi. Mentre la tecnica è un fare senza scopi, è solo un fare prodotti.»


["Si fa tutto ciò che si può fare": questa frase di Galimberti, nel sito FGB è presente anche a pagina 7 degli Argomenti, sub "Tecnoscienza e Responsabilità" -- 8 giugno 2003, G.M. Borrello]




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