>>>(4. segue da Correale)

Vorrei inserirmi e dire la mia.

Devo subito chiarire che il mio punto di vista è diverso da quelli che avete espresso.

Io guardo al problema della responsabilità con interesse ma anche con un certo sgomento. Questo mio sgomento ha una duplice radice.

Da una parte, penso che il problema sia grave e, se è vero che coinvolge tutti, è, a mio avviso, una questione che non può essere affrontata a livello di sensazioni od opinioni personali. In particolare, se è vero che la responsabilità deve "guidare" le imprese prima e a prescindere dal diritto positivo, essa deve avere anche un carattere cogente ed universale, "necessario", per funzionare. Ma quest’aspetto "necessario" non può, a mio avviso, essere trovato nella "convenienza", o nella "maggiore convenienza" a comportarsi in modo responsabile. Il perché è ovvio, di nuovo si aprirebbe una discussione senza fine su questa convenienza (cos’è, ma quello che è più conveniente per uno potrebbe non esserlo per l’altro, o lo stesso soggetto in situazioni diverse potrebbe essere sensibile a convenienze diverse).

Inoltre senza un significativo fondamento il discorso sulla responsabilità diventa puramente esortativo e, come spesso succede con le esortazioni, scaturisce l’effetto opposto (tanto che su un’autostrada americana hanno intenzionalmente aggiunto sotto i cartelli che indicano il limite di velocità "Non guardate questo cartello!").

Sembra che basti essere un po’ addentro alle cose del mondo per parlare di responsabilità. E così intellettuali, famosi manager, politici, prelati, tutti ne parlano, scrivono libri sull’argomento (io ne posseggo una discreta collezione). In realtà esprimono le loro opinioni, luoghi comuni e, peggio ancora, inutili esortazioni.

Così che una vera ricerca sulla responsabilità e sui fondamenti della responsabilità (perché dobbiamo essere responsabili) dovrebbe essere affrontata con strumenti più sofisticati che la semplice "doxa" (opinione personale). Ma questi strumenti ci sono, sono lì, ma curiosamente molti di quelli che si affannano a parlare di responsabilità non li usano. Sono quelli della ricerca filosofica, della tradizione filosofica occidentale.

È qui l’altra parte del mio sgomento. Si parla di responsabilità a prescindere da un approccio etico (etica è la tecnologia filosofica che fornisce gli strumenti per affrontare i problemi della responsabilità). Anzi, si considera l’etica applicata agli affari un orpello, un qualcosa di inutile e/o astruso.

Bene, la mia posizione è questa: non ha senso parlare di responsabilità senza fare i conti con la base filosofica della questione. Il rischio è di divenire astratti ed esortativi e, quindi, favorire proprio il cinismo, l’anomia, il contingentismo e il relativismo etico.

Intendiamoci bene e subito, con ciò non voglio dire che soltanto i filosofi possono parlare di responsabilità! Al contrario, ma è necessario che chi si vuole occupare seriamente di queste cose lo faccia con la necessaria tecnologia. Forse che tutti quelli che utilizzano strumenti matematici, dai più semplici algebrici (alla base della contabilità industriale, ad esempio) a quelli un po’ più sofisticati (calcolo delle probabilità, ad esempio) sono laureati in matematica? Noi consideriamo la matematica alla stregua di un tool senza confonderla con la speculazione matematica pura. Perché non fare lo stesso con l’etica?

Penso che il problema sia complesso ma anche risolvibile. Provo a dare alcune chiavi interpretative.

Per prima cosa tutto quello che gira intorno alla filosofia ha fama di essere difficile e complicato ad arte. In realtà, la filosofia ha un suo linguaggio tecnico, che non è poi così complicato, ma come tutti i lessici specifici deve essere appreso (il che vale anche per la matematica). Ma la filosofia è soprattutto una disciplina: come altre discipline richiede un impegno costante per essere padroneggiata e questa padronanza si esprime in livelli ben evidenti. L’aspetto disciplinare non è tanto legato a "cose da sapere", o all’utilizzo di un linguaggio iniziatico, quanto a un’abitudine a vedere le cose in un certo modo, a problematizzarle evitando banalizzazioni, stereotipi, conformismi, dogmatismi e quello che in inglese si dice "quick fix", cioè facili soluzioni. La tradizione filosofica è da questo punto di vista l’equivalente ideale (cioè per le idee e le spiegazioni della realtà) della foresta amazzonica per il biologico: un giacimento di biodiversità.

In realtà questo punto è proprio all’origine di un’altra comune critica: l’approccio filosofico è inconcludente, astratto, e quindi la filosofia non serve a nulla. Il che è sicuramente vero, la filosofia è inconcludente. Non fornisce di per sè soluzioni. Ha smesso di farlo 300 anni fa quando si è liberata, di nuovo, dal fardello della religione e della teologia. Ed è stata immediatamente sostituita dal binomio scienza/tecnica. Sono loro oggi che offrono soluzioni a tutto spiano a tutti i nostri problemi. Ed, infatti, noi tutti ci siamo abituati alla concretezza e all’efficienza scientifico-tecnologica, salvo poi a fare i conti con soluzioni che non sono così funzionali.

Tuttavia non si può dire che la filosofia sia inutile, anche se la sua funzione è più soft di quella della scienza/tecnica: la sua funzione è appunto la critica, cioè il vedere dietro le cose di cui la scienza e la tecnica non si occupano, neanche nella loro versione psicologica. E sono problemi impellenti per molte persone che, spesso, non trovando, o non essendo più capaci di trovare risposte, scivolano nella disperazione, nello spiritualismo, nell’irrazionalismo o nel bieco cinismo individualista.

Problemi come "che cosa ci facciamo noi qui?", "che senso ha vivere?", "che cosa è vero e che cosa è buono?". La tradizione filosofica ha insegnato che si può cercare di dare una risposta a questi problemi senza ricorrere a miti, dei, sovrannaturale, ma anche senza cadere nella disperazione o nel cinismo. Ma non si può trovare una risposta definitiva.

Anche questo aspetto è oggetto di svalutazione comune: sembra una cosa fuori dal mondo. Tutti noi abbiamo bisogno di soluzioni potenti, ci sono problemi pressanti e questi ci dicono che cercano ma sanno già che non trovano. Tutto questo sembra fuori dalla realtà, dal mondo, inattuale appunto. In realtà la ricerca filosofica è maledettamente attuale anche se spesso è vero che quelli che interpretano sono fuori dal mondo e, loro sì, inattuali. Perché se noi prendiamo la filosofia dal verso giusto, diacronico diciamo così, i problemi che cerca di affrontare sono estremamente attuali. Sono problemi complessi per i quali la filosofia non offre soluzioni univoche ma propone un enorme giacimento (un database) di soluzioni: tutti, da Socrate a Rawls sono lì a nostra disposizione, con tutta la potenza delle loro menti, a suggerirci una soluzione. Se cioè abbandoniamo l’ingenuo schema storicistico con il quale ci è stata "insegnata" la filosofia (per cui la filosofia è un’interminabile galleria di medaglioni che ritraggono filosofi, uno in disaccordo con l’altro, uno dopo l’altro a soppiantarsi e a superarsi in continuo processo di distruzione creativa dove però tutti dicono il contrario di tutti ma, nello stesso tempo ci sono corsi e ricorsi, un po’ come la minigonna, e nello stesso tempo è come al buio dove tutte le vacche sono bige) e cerchiamo invece di vedere la filosofia come un tutto unico, diacronico appunto, allora abbiamo una continuità e un'attualità estremamente interessante. Chi affronta un tema filosofico, ponendosi a sua volta il problema e cominciando a confrontarsi con un testo filosofico (qualsiasi testo, di qualsiasi autore) entra già nel mainstream della tradizione filosofica. Fa già a sua volta filosofia perché si pone il problema, a livello personale, e cerca il confronto con un altro (rappresentato dal testo): attenzione, cerca un confronto non un maestro o un suggerimento o, peggio ancora, una soluzione confezionata. Implicitamente fa riferimento soltanto sui suoi mezzi, la sua ragione, e, tuttavia, si confronta criticamente con altri, cioè mette a confronto la sua ragione (logos) con quella di altri. In questo modo dia-loga. Dal dialogo il suo punto di vista uscirà comunque modificato. Se tuttavia vorrà approfondire questo confronto dovrà farsi trascinare ancora di più dentro il mainstream della tradizione filosofica. Cercherà di sapere di più e inevitabilmente questo lo porterà a scoprire cosa hanno detto altri, e prima, sull’argomento ma anche ad affrontare altri argomenti complementari che sono ad esso intimamente collegati nella ricerca filosofica.

Ad esempio, il tema della responsabilità si porta dietro quello dell’etica e questa rimanda da una parte alla questione dei fondamenti, e quindi dei valori, e questi ai diritti e alla questione se i diritti sono naturali o meno. Dall’altra c’è il problema della scelta, della libertà ma anche dei fondamenti della scelta, cioè istinto, intelletto o ragione. Intelletto e ragione ci portano a considerare problemi di cognizione e conoscenza. Come conosciamo ma anche che cosa conosciamo. Ma anche il problema del bene e dell’esistenza sono intimamente connessi a quelli della conoscenza, nonché della scelta.

Ad ogni passaggio chi compie la ricerca esprime un suo punto di vista e si confronta. Ovviamente non è necessario esplorare tutto lo scibile filosofico ma è implicito che è necessario sconfinare nei temi correlati.

Ma torniamo alla responsabilità delle imprese: se affrontiamo la questione in termini etici il problema numero uno è perché le aziende dovrebbero sentirsi tenute a comportarsi responsabilmente. Dicevo sin dall’inizio che una giustificazione di convenienza, che rimanda ad una posizione utilitarista simile al razionalismo economico, è ciclicamente messa in discussione dalla relatività di ciò che possiamo definire conveniente. Né basta spostare questa convenienza nel tempo (a lungo) o ad una comunità di soggetti non specificati (sarebbe utile per la convivenza civile, ad esempio). Sono tutte giustificazioni retoriche, comunemente utilizzate ma con poco peso.

L’alternativa che in modo speculare si presenta, anch’essa ciclicamente, è quella contrattualista. La responsabilità, un comportamento morale, eticamente ineccepibile, si fonda su valori condivisi a priori da alcuni individui. Questi li concordano più o meno tacitamente a partire da una libera scelta e da un’alternativa. Perché lo fanno? Perché si sentono di farlo, rispondono soltanto alla loro coscienza. Quando sottoscrivono questi valori? Quando li percepiscono necessari. La stessa cosa vale per le collettività e per le organizzazioni. Le collettività occidentali hanno una lunga storia che porta in questa direzione e che in parte si rispecchia nelle costituzioni democratiche, nei codici e, più ancora nelle consuetudini elementari delle nostre civiltà. Le organizzazioni possono scegliere all’inizio della loro storia o in itinere sottoscrivere un impegno più o meno formale.

Ma cosa sono questi valori comuni? Non è facile a dirsi. Riguardo al problema dei valori si potrebbe parafrasare quanto Giulio Preti (geniale filosofo italiano degli anni 50, morto purtroppo molto giovane) diceva del problema pedagogico: "Non esiste: una società vitale non se lo pone, una società in declino non ha strumenti per risolverlo".

Detto così sembra che tutto fili liscio. In realtà noi sappiamo che l’eticità non soltanto nel campo degli affari è tutta da costruire. Anch’io non sono ottimista sul fatto che siano la maggioranza gli imprenditori responsabili o che vorrebbero comportarsi responsabilmente. Penso come Kant che l’uomo è un legno storto e che la rettitudine come la ragionevolezza siano sempre una conquista difficile mai totalmente compiuta. Abbiamo bisogno di coltivarci, di sgrossare una nostra natura non necessariamente malvagia, ma sicuramente imperfetta. La prima scelta non è mai il bene, come la prima intuizione non è mai razionale. La responsabilità è quindi qualcosa che viene dopo, che deve essere alimentata e sostenuta. D’altra parte in campo etico c’è una deriva entropica e i più tendono ad allinearsi sul comportamento più opportunistico.

Lo stato, la legge positiva sono nello stesso tempo un rimedio alla nostra imperfezione e un incentivo. Nelle pieghe della legge si sviluppa l’elusione, nel vuoto legislativo si esercita il cinismo e la legge del più forte. Lo stesso formidabile potere che ancora hanno gli stati è spesso occasione per molti per condurre, al riparo dei rigori della legge, i loro sporchi interessi.

Ma quando è veramente importante l’etica? Prima della legge o quando la legge è imperfetta. Sono però le situazioni medie quelle per le quali l’etica è un riferimento fondamentale, quando cioè comportarsi in modo responsabile non è né troppo facile né troppo difficile. Spesso queste sono anche situazioni dubbie, incerte, che possono dare anche adito a veri dilemmi.

E a chi non si comporta responsabilmente cosa succede? C’è una sanzione? I classici non avrebbero avuto dubbi. La sanzione era la riprovazione della comunità (non necessariamente tutta, basterebbe quella più autorevole), oggi diremmo l’indignazione dell’opinione pubblica. Ma questa deve sapere e deve saper riconoscere il comportamento non etico. Non è necessario che siano tutti né che siano una maggioranza. Devono però essere autorevoli e credibili. L’autorevolezza deriva dall’esemplarità della loro condotta e dalla mancanza di secondi fini nella scelta etica. È importante che qualcuno cominci ma anche che non sia proprio solo, per non cadere nel comportamento velleitario. È fondamentale poi che si crei quella che Deming chiamava "la forza del sistema": se questo gruppo è determinato ma anche espressione di una possibilità ragionevole (non eroica, non estrema) spesso una buona parte degli altri segue, si convince o si adegua.

Oggi il problema è duplice: la nostra opinione pubblica sa (è informata) ed ha gli strumenti per riconoscere il comportamento non etico? Io credo che spesso le due condizioni non si realizzano o non contemporaneamente.

Conclusione: parlando di responsabilità delle imprese cosa si può fare sin d’ora?

Formare, lavorare in modo maieutico, problematizzare le scelte che sembrano ovvie, determinate in un senso o nell’altro, rifuggendo da un approccio utilitarista. Non vergognarsi di fare filosofia, allargando la prospettiva a cose che sembrano fuori luogo: tipo i valori comuni, il senso del bene e il senso della vita. Mettere in guardia dalle sicurezze e dalla ricerca spasmodica di "quick fix", soluzioni immediate che spesso non funzionano.

Far crescere le persone, non soltanto i giovani ma soprattutto i più anziani che, avendo più potere e visibilità, possono essere degli esempi.

Non è facile ma il più grande filosofo italiano del ‘900 (forse il più grande che abbiamo mai avuto), Antonio Banfi, diceva che la filosofia è una cosa per spiriti forti.

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>>>(6. segue da Correale)

Se si vuole parlare di responsabilità ha senso farlo se si fa riferimento ad un metodo e ad un linguaggio rigoroso.

Ad esempio, il termine necessità, non implica un’obbligazione, al contrario può andare di pari passo con la scelta e la libertà. In particolare se parliamo di scelta etica questa è per definizione libera, nasce cioè dalla possibilità piuttosto che dall’obbligo (come invece accade nei confronti della legge positiva). È questione di dove si pone il "locus of control": esterno (legge, obbligo), o interno (scelta etica). Chi sceglie lo fa perché, in base alla sua libera interpretazione, definisce che per lui è necessario fare così. Ma nessuno lo obbliga. È una scelta di ragione, non di istinto né di sentimento. D’altra parte è proprio questa ragionevole necessità che fa sì che, anche di fronte ad allettanti scelte non responsabili (allettanti perché siamo legni storti), noi si scelga talvolta dolorosamente per l’etica.

La teoria contrattualista teorizza che queste scelte individuali tendono ad allinearsi e a diventare patrimonio comune di una comunità di eguali, attraverso un tacito e/o esplicito accordo. Ci si accorda intorno a una serie di elementi di giudizio comune che diventano valori condivisi.

Ma qual è la base di questa scelta? Ripeto: non l’utile. Chiariamo che cosa si intende con utile. Non è quello al netto delle tasse, il profitto. È, più in generale ma in modo più pervasivo, l’utilità attesa dalle azioni che si compiono. Per gli utilitaristi è bene ciò che produce una convenienza: quindi tra due comportamenti è da preferire quello che produce una convenienza maggiore. Va da sé che l’utile sia definibile come bene anche quando non lo è! Il problema è poi cosa fare se soggettivamente quello che è conveniente ed utile per me non lo è per altri. Gli utilitaristi tendono a risolvere questo dilemma invocando una serie di pesature e ponderazioni che tendono a giustificare come bene ciò che è massimamente utile per il massimo numero di individui. Le conseguenze, ad esempio, sui diritti delle minoranze sono evidenti. Per tanto, nonostante le varianti che la teoria utilitarista ha espresso, permangono le debolezze logiche e concrete (negli effetti intendo, compreso un certo autoritarismo della maggioranza).

Tuttavia, il tema utilitarista ha ancora un gran fascino ed è potentemente radicato nel senso comune. Io credo invece che gli umani si devono comportare bene perché scelgono di farlo e, di conseguenza, questo salvaguarda il bene comune e la convivenza, e non l’inverso. Può sembrare una distinzione di lana caprina, ma quando si mette in mezzo l’interesse individuale difficilmente si crea convergenza. E anche l’idea di Adamo Smith di una mano invisibile che riporta magicamente tutto all’ordine è di nuovo frutto di una ingenua visione utilitarista: gli effetti mi paiono sotto gli occhi di tutti, con il 25% percento dell’umanità che consuma il 75% delle risorse energetiche, idriche e alimentari, mentre un altro 25% è sotto la soglia della sopravvivenza (ma se dalla scala planetaria scendiamo ad esaminare "la salute della mano invisibile" a livello di singoli stati, troviamo proporzioni analoghe in paesi avanzati come USA, Gran Bretagna ed Italia!).

Attenzione: io non sposo la tesi che profitto ed etica siano per definizione divergenti. Posso pensare che essi possano pur convivere: nessuno è obbligato a fare business, mai, come nessuno è obbligato a fare business in modo non etico. La prima libertà è la via di uscita nel caso non funzioni la seconda! È doloroso, ma se ci viene impedito di fare affari secondo coscienza si può sempre uscire dagli affari.

A mio modo di vedere il discorso della responsabilità dei vertici aziendali e delle aziende come soggetti collettivi va fondato al di là della ricerca dell’utilità. È una scelta di valore, quindi al di fuori da calcoli economici. Per questo, però, può guidare, se la si sceglie consapevolmente. Si fonda, infatti, su valori (cosa vorremmo essere, come vorremmo comportarci) e principi (cosa non vorremmo mai diventare, cosa non possiamo fare). Questi vengono prima dell’azione economica e ne diventano un metro di giudizio.

Va aggiunto però, lo ripeto, che l’etica funziona bene nelle situazioni medie. Dove non è troppo facile comportarsi rettamente né troppo difficile (perché i condizionamenti sono fortissimi, ne va della nostra libertà o della nostra vita, ad es.: lì bisogna essere eroi oltre che etici!). Le situazioni medie sono però, di solito, le più frequenti e le più dubbie. E spesso il dubbio è proprio tra il proprio interesse e qualcosa d’altro, un'altra possibilità che si intravede. Non penso che in queste situazioni si possa sempre dire che poi, dopo, nel lungo periodo si guadagnerà, specie se la concorrenza è molto sostenuta.

Prendiamo laicamente il toro per le corna, e affrontiamo la questione con toni filosoficamente maturi, il fondamento della responsabilità è altrove, è nella scelta libera di essere diversi, di essere autenticamente umani. È nella ricerca di valori che si costruiscono insieme, cercandoli in modo problematico.

L’obiettivo non è la perfezione, semmai la constatazione della nostra imperfezione, di come sia difficile essere migliori, tuttavia possibile. Si esecra sempre la cattiveria degli altri, ci si indigna ma spesso molti restano senza sapere cosa fare. Parlare d’etica vuol dire indicare una possibilità concreta ed individuale.

Per rendere la cosa concreta gli eticisti anglosassoni usano un metodo maieutico, lavorando sulla discussione di casi e in seguito, con chi ha ruoli di responsabilità, di autocasi. I casi sono il pretesto per allargare e problematizzare il discorso, tirando in ballo, come immaginari consulenti, i filosofi della tradizione filosofica e portare il dialogo verso temi inattuali come: "che cosa siamo", "perché siamo qui", "cosa è il buono", "cosa è la verità".

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