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Gli eventi planetari degli ultimi due decenni (globalizzazione, internet, superamento o per lo meno ridimensionamento del ruolo degli stati-nazione, ...) portano a una riconsiderazione del ruolo e della responsabilità delle aziende, dalle multinazionali (corporate) alle piccole imprese. Cerco qui oltre di chiarire cosa intendo.
Non vorrei però che la "responsabilità sociale" venisse trattata come l'"etica negli affari": cioè come una materia facoltativa, un po' come l'educazione civica nelle scuole. Io credo che debba essere considerata come intrinseca allo sviluppo economico e discriminante tra aziende che producono veramente ricchezza e aziende che più che produrla, la redistribuiscono (in genere iniquamente) o la distruggono.
Credo che occorra:
1) sgombrare il campo da un preconcetto "cattivista" sulla produzione di ricchezza;
2) porsi una domanda su cosa vuol dire "responsabilità" dell'azienda.
Punto 1)
Il preconcetto è che, per funzionare, il sistema economico debba essere lasciato libero da vincoli eccessivi, che invece valgono per altre attività umane. Mi riferisco in particolare alle operazioni e ingegnerie finanziarie finalizzate esclusivamente al profitto, che non tengono conto del substrato produttivo ed umano che esse coinvolgono e spesso distruggono.
Per assurdo, questo preconcetto è sostenuto non solo da chi ne trae diretto vantaggio, ma, in senso "cattivista", anche da seguaci di ideologie di derivazione cristiana o marxiana, che considerano il denaro come "farina del diavolo" o come furto nei confronti dei lavoratori. Con il risultato che, quando questi sono coinvolti in operazioni economico/finanziarie, si comportano come e peggio degli operatori "liberisti". Le vicende che hanno coivolto banche, aziende e affaristi facenti capo al Vaticano o allex PCI testimoniano ampiamente questa realtà.
In parole povere, si tratta di provare e affermare che ci sono infiniti modi per fare soldi, compresa la rapina a mano armata, ma che è possibile farli anche rispettando certe regole ispirate alla fiducia reciproca, alla civile convivenza e a una equa distribuzione della ricchezza prodotta. Che, anzi, questo secondo modo di operare si rivela nel medio termine capace di dar luogo a una somma superiore a zero, cioè a una crescita diffusa della ricchezza, mentre i sistemi più aperti al profitto di breve termine, speculativo, tendono a determinare redistribuzioni della ricchezza a somma zero, e nel medio termine, a livello sistemico, a somma minore di zero (come avviene nelle aree dominate dalla corruzione o dalla mafia).
Questo equivale a dire che occorre distinguere tra economia di mercato, che costituisce uno strumento fondamentale di libertà e di "disuguaglianza controllata" (l'uguaglianza richiede altri strumenti), e "liberismo" inteso come economia della giungla, dove tendenzialmente chi vince senza merito prende tutto.
Punto 2)
La domanda da porsi sulla responsabilità dell'azienda è: l'azienda deve semplicemente rispettare le regole imposte dall'esterno (il che equivale a considerarsi "liberi di uccidere" dove e quando le regole non ci sono), oppure deve farsi autonomamente promotrice di regole riconosciute come opportune, ma non formalizzate dagli ordinamenti in cui essa si trova ad operare?
Nelle società sviluppate, questi vincoli sono numerosi e sono stati riconosciuti non solo validi, ma anche economicamente accettabili se non addirittura fattori di sviluppo, sia pure spesso dopo aspre battaglie tra chi li considerava necessari per una convivenza civile e chi li considerava lesivi della libertà economica. Essi non costituiscono un "corpus juris" organico per regolare il sistema economico, ma nondimeno sono ormai ampiamente pervasivi e hanno cambiato in senso positivo molti comportamenti delle aziende. Proviamo ad elencarne alcuni:
- Regole sulla corporate governance
- Legislazione antitrust
- Norme contro gli inquinamenti delle acque, dell'aria, acustici
- Norme sulla qualità e la sicurezza dei prodotti
- Norme sulla sicurezza dei luoghi di lavoro
- Regole sulla trasparenza e sull'informazione aziendale
- Difesa dei diritti dei lavoratori
- Difesa del consumatore
Ripeto quindi la domanda: le aziende sono solo tenute a rispettare le regole, o devono farsene promotrici?
Ebbene, la storia economica dimostra che molte regole sono nate dalla stessa convenienza delle aziende a darsele, magari badando prima di tutto alla propria convenienza (corporazioni, camere di commercio, ...), ma alla fine anche a quella del "mercato", cioè dei clienti e consumatori.
I codici recenti sulla corporate governance non sono stati imposti dalla legge, ma sono nati dalle aziende. Persino in Italia (incredibile! ma per pura imitazione dei paesi più avanzati...) il codice di comportamento delle imprese in materia di corporate governance è nato come codice di autoregolamentazione, anche se poi una azienda che voglia entrare in borsa è obbligata a sottoscriverlo (questo "Codice di autodisciplina" è visibile in www.borsaitalia.it)
La mia risposta è: una azienda, grande o piccola, nel proprio ambito d'azione, deve farsi promotrice di regole che trascendono la propria convenienza economica immediata, deve darsi dei codici di comportamento e consentire ad altri la verifica del loro rispetto, deve, insomma, comportarsi in modo responsabile, come se le regole fossero una propria scelta e non qualcosa imposto da altri. E questo per la propria sopravvivenza e sviluppo nel medio-lungo termine, non solo per scelta etica o "sociale".
Seguendo questa impostazione, non parlerei dunque di responsabilità sociale, bensì di responsabilità "tout court". Lazienda deve generare profitto, per sopravvivere. Ma il suo ruolo primario non è quello di generare profitto, bensì quello di produrre beni e servizi, cioè ricchezza reale (anche se spesso intangibile), e, attraverso questa produzione, anche il profitto. E qui che comincia la sua responsabilità. Che è ovviamente un fatto etico, ma che non è necessariamente un vincolo (cioè qualcosa di negativo, di limitativo) per la sua azione. Al contrario può essere una carta vincente, un fattore di successo per lazienda.
Proviamo a pensare: un'azienda che fornisca ai clienti un prodotto migliore rispetto ai concorrenti, fa il proprio interesse o un atto di responsabilità verso i suoi clienti? Una azienda che, grazie al suo successo di mercato, riesca a trattare meglio i propri dipendenti (magari in Indonesia, dove fornire benessere costa molto poco), non ne trarrà vantaggio oltre a compiere un atto di responsabilità? Unazienda che stabilisca buoni e stabili rapporti con i suoi fornitori, facendoli guadagnare e non strozzandoli non sarà in grado di dare ai clienti prodotti più affidabili, compiendo un atto di responsabilità verso clienti e fornitori? Forse unazienda di questo tipo non sarà quella che retribuirà manager e azionisti ai massimi livelli (senza peraltro sacrificarli), ma in cambio darà a questi maggiore sicurezza e soddisfazione nel lungo termine. Dovrà solo contare su manager e investitori "giusti".
A questo punto, unazienda ideale (ma non utopica: ce ne sono diverse che si avvicinano a questo modello) di questo tipo, avrebbe già fatto molto per la sua responsabilità.
Se però la responsabilità "sociale" si riferisce non agli "stakeholder" diretti dellazienda, ma alle comunità in cui essa agisce, allambiente esterno, ai cittadini che sono estranei allazienda ma sono coivolti dalle sue decisioni (l'esempio classico è quello dellinquinamento) allora lazienda che si preoccupa di non inquinare (magari ancora in mancanza di leggi adeguate), lazienda che, invece di deturpare il territorio, collabora con gli amministratori per un impatto ambientale non solo negativo, ma urbanisticamente creativo (viene in mente, da una parte, in senso positivo, lutopia olivettiana, dallaltra, in senso negativo, i "non luoghi" di certi centri commerciali attuali)... questa azienda --v'è da chiedersi-- è necessariamente destinata a sacrificare i propri interessi per essere responsabile? La mia risposta è "no", almeno non necessariamente.
Per questo io collegherei la responsabilità dellimpresa alla sua strategia, allinnovazione e quindi alla capacità dellazienda di differenziarsi rispetto alla concorrenza, alla creazione di valore come precondizione della generazione del profitto.
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Non c'è bisogno di andare nell'utopia. Cioè: non è necessario che tutte le banche siano delle Grameen Bank, e tanto meno che tutte le aziende si pongano il problema della CSR. Basta che, tanto per cominciare, si comportino correttamente nei confronti dei loro clienti e degli altri stakeholder.
Tanto meno c'è bisogno di un improbabile regime "dirigistico" universale. Il mercato (il vero mercato, quello in cui viviamo per tanti prodotti e servizi, il mercato della concorrenza imperfetta, o se si vuole della concorrenza monopolistica --come per il colesterolo, c'è anche un "monopolio buono", quello che il mercato smaltisce continuamente con il superamento dei vecchi prodotti e il progredire dell'innovazione), il mercato resta sempre il principale strumento dello sviluppo economico.
Quanto al comportamento responsabile degli imprenditori e delle aziende, siamo proprio sicuri che siano una minoranza? Si potrebbe invece asserire che sono la maggioranza, più o meno come quelli che pagano il biglietto nella metropolitana di Milano, ben sapendo che potrebbero farla franca facilmente nel non pagarlo. Come quelli che fanno la coda senza esserne obbligati, anche se spesso o raramente (e questo è un sintomo del costume) vengono scavalcati da pochi prepotenti. Altrimenti, né business community, né trasporti pubblici, né traffico potrebbero funzionare. Mi sembra che nello stesso senso, cioè in un senso "ottimistico" (o come si dice perversamente da noi, "buonistico") circa il funzionamento delle democrazie, si siano espressi grandi liberal, non del tutto utopici, come Popper o Dahrendorf, svolgendo naturalmente il discorso a livelli un po' più elevati...
Però è anche vero che il sistema economico appare "schiacciare", cioè impedisce a chi ci sta dentro di agire virtuosamente. Se tutti sfruttano il lavoro minorile in Indonesia per fare i palloni per il calcio, anch'io, se sono sul mercato, debbo adeguarmi per non morire. Ma è vero fino a un certo punto. Posso fare in modo che il mio modo di lavorare diverso e più umano di quello dei concorrenti diventi una immagine e un punto di forza competitivo.
Questo risponde alla domanda "chi fa la prima mossa?" Chiunque, quando vuole e può: le aziende, le istituzioni o qualcun altro. Non necessariamente le istituzioni. Tra l'altro, l'imprenditore in genere è uno che ha il gusto della prima mossa, anche se rischiosa, non solo e non tanto dal punto di vista economico.
E' un gioco di "feed back" tra comportamenti e norme, tra scelte autonome e costrizioni (non erano già i romani che dicevano "Lex sine moribus esse non potest")?
Tutti pensiamo che le istituzioni pubbliche abbiano perso gran parte del loro potere, e che le aziende contino come e più degli stati. Del resto anche gli stati-nazione, circa duecento, sono ormai affiancati da quasi duemila organismi pubblici internazionali (v. Cassese, "La crisi dello Stato", Laterza). Ma forse c'è qualcun altro, una sorta di terzo incomodo, che conta di più di una volta, perchè le tecnologie dell'informazione gli consentono di aggregarsi più che nelle piazze: non è nè l'istituzione pubblica nè l'azienda. E' un insieme di entità, più o meno allo stato nascente o formalizzate, che esprimono con forza e possibilità di influenza le esigenze di clienti, consumatori, utenti, cittadini, lavoratori. Forse in futuro gli equilibri (o gli squilibri) del mondo si giocheranno fra tre protagonisti, e non più tra due: istituzioni pubbliche, imprese, organizzazioni civili. Ognuno dovrà tener conto dell'altro, ma dovrà e potrà anche agire senza attendere l'imbeccata.
Esempi.
E' abbastanza recente l'annuncio pubblicitario a tutta pagina sui principali quotidiani italiani di 130 organizzazioni senza fini di lucro italiane (con il sostegno dell'European Foundation Centre, che raccoglie otre 200 fondazioni europee e altre associazioni) contro la pubblicizzazione (cioè il predominio degli enti territoriali, stato, regioni, provincie, comuni) nelle fondazioni di origine bancaria, a scapito dei "privati" non profit.
Ed è altrettanto recente un importante articolo, che consiglio di leggere, su la Repubblica di venerdì 15 febbraio, pg.15, che riferisce di un rapporto di Amnesty International sui costi a cui le aziende vanno incontro a causa di richieste di risarcimenti miliardari per danni singoli e collettivi da esse causati, per attentati, spese per la sicurezza, boicottaggi sui prodotti, fughe di finanziatori, campagne di stampa, siti avversi e passaparola su Internet. Problemi di "risk management" che possono essere evitati da parte delle aziende con strategie lungimiranti basate sul rispetto di tutti i legittimi interessi in gioco, ovviando alle carenze di leggi a tutela di clienti, dipendenti, collettività.
E inoltre straordinaria la notizia che la Cassazione ha condannato lIcmesa, la società proprietaria dello stabilimento da cui 26 anni fa fuoriuscì una nube di diossina che causò la contaminazione del territorio di tre comuni a Nord di Milano, a risarcire un imprenditore per il semplice danno morale causatogli dal prolungato turbamento psichico).
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Io non dico che la responsabilità "deve" guidare le imprese, cioè che sia necessaria, né che questa necessità debba essere trovata nella "convenienza". Io dico che la responsabilità, come scelta etica, "può" guidare l'impresa (che ne riceve una impronta di per sè positiva), e che "può" convivere con la convenienza, termine con cui intendo niente altro che il profitto. E che questo connubio "può" anche generare un profitto maggiore di quello ricercato con un'azione eticamente spregiudicata.
Certo, un pericolo c'è nel coniugare un discorso sulla responsabilità, cioè etico, con un discorso sul profitto, cioè utilitarista: il pericolo di assoggettare l'etica all'utile, che per l'azienda resta comunque fondamentale per la sua sopravvivenza e crescita. Questo è forse il problema principale sul quale ci si deve soffermare. L'etica non dovrebbe essere applicata agli affari come un orpello, cioè come qualcosa di esteriore e strumentale.
Perchè le aziende dovrebbero sentirsi tenute a comportarsi responsabilmente? Anche qui, possono, non debbono. Se lo fanno, cercheranno di conciliare l'aspetto utilitarista con quello etico, e facendolo potrebbero scoprire che l'agire etico "può pagare", anche se non è questo il suo obiettivo.
Concordo sul dire che la natura umana "non è necessariamente malvagia, ma sicuramente imperfetta" e poi che "sono le situazioni medie quelle per le quali l'etica è un riferimento fondamentale, quando cioè comportarsi in modo responsabile non è nè troppo facile nè troppo difficile". Del resto, la mano invisibile di Adamo Smith funziona così: certamente il macellaio non ti serve la carne "per benevolenza" verso di te, ma per fare il proprio interesse. Tuttavia la carne che egli offre deve essere buona perchè il cliente ritorni. E poi, può anche darsi (anzi, a mio parere è molto probabile) che il vendere buona carne sia per lui una soddisfazione professionale e sociale.
Non ho mai immaginato un mondo economico in cui "tutto è bello e luminoso". Credo fermamente nell'imperfezione, e temo fortemente la perfezione. Ciò non toglie che occorra continuamente tendere alla perfezione esercitando le discipline opportune, e che sia buona cosa ammirare e additare agli altri chi raggiunge livelli più alti di perfezione.
In sintesi: le scelte etiche, di un individuo o di una organizzazione, trovano in sé stesse la propria ragion dessere. Nel comportamento dellimprenditore e dellazienda esse vanno conciliate con le esigenze di sopravvivenza e sviluppo dellazienda. Rispetto a tali esigenze esse possono talora entrare in conflitto, ponendo i soggetti di fronte a scelte che possono implicare sacrifici economici in nome di principi etici, ovvero essere sinergiche. Se lazienda svolge adeguatamente il suo ruolo di produttrice di valore, rivolgendo la propria attenzione anche alla distribuzione di tale valore tra gli stakeholder dellazienda stessa, io penso che la sinergia sia più probabile. Tra le superiori finalità o vincoli etici da una parte, e le finalità di creazione del valore per chi ha interessi nellazienda dallaltra, può ben inserirsi il concetto di responsabilità sociale dellazienda, come suo contributo al bonum rei publicae.
In questa prospettiva, può diventare un caso esemplare quello della Nike e degli ultimi sviluppi della sua presenza in Cambogia. Dopo il noto scandalo, sollevato un paio di anni fa, da associazioni no global, della produzione di palloni realizzata sfruttando il lavoro minorile, che indusse la Nike a ritirarsi dalla Cambogia con grave danno economico per questo Paese, è partita una operazione complessa promossa dal sindacato americano Afl-Cio, che coinvolge, oltre alla Nike e ai sindacati americani, il governo, le associazioni imprenditoriali e i sindacati cambogiani, con la supervisione dellIlo (lorganizzazione dellONU per i problemi del lavoro). Questo dovrebbe consentire il ritorno della Nike e di altre multinazionali in Cambogia, basato su rapporti di lavoro regolari. In questo caso, le finalità etiche, gli interessi economici dei paesi progrediti e di quelli sottosviluppati, e alla fine il bonum rei publicae internazionale sono alla ricerca di una conciliazione che si basa anche (sia pure non solo) sulla responsabilità sociale delle imprese coinvolte (per una descrizione puntuale del caso, v. Federico Rampini, la Repubblica, 22 giugno 2002).
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