Interventi al Forum nel mese di Gennaio 2002

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Interventi

La società del rischio Sondaggi sulla clonazione

right-sfondochiaro.gif (838 byte)Per i precedenti interventi in tema di "società del rischio" si veda il dibattito di Novembre e Dicembre 2001.

8 gennaio 2002
From: Vittorio BERTOLINI
Subject: Un commento a "Venditori di cloni" (articolo di Sabina Morandi, Diario, 7 dicembre 2001)

L’articolo di "Diario"articolo.gif (899 byte) che Domenico Lanfranchi ci ha fatto pervenire è esemplare per focalizzare del come il rischio possa essere percepito ideologicamente (nel senso che un fatto viene pre-giudicato secondo criteri estranei alla natura del fatto).
Da un lato l’autrice dell’articolo, Sabina Morandi, nel descrivere il processo della "clonazione", fa opera di buona divulgazione. Pur nel condizionamento di un articolo di settimanale chiarisce il senso dei termini, non indulge ai facili allarmismi (nei giorno scorsi mi è capitato di leggere un articolo dove l’intervistatore parlava di creazione di tanti piccoli soldatini - e se invece fossero tanti boy-scout?) e agli ottimismi interessati, mette in luce le difficoltà, allo stato attuale delle conoscenze, delle tecniche di «trasferimento nucleare», ribadisce che ciascun individuo non è solo Dna. Su questo punto (che l’uomo non sia solo un prodotto genetico), vale la pena riportare quanto afferma il bioeticista di matrice cattolica Adriano Pessina su Avvenire del 30 novembre scorso: "Il modo con cui si genera e si fa nascere un uomo non ne determina la natura: chiunque appartiene alla specie Homo sapiens, è un uomo, una persona umana. E se l'uomo è caratterizzato dallo spirito, non perderà certo questo suo carattere soltanto perché sarà geneticamente identico a un altro, perché sarà clonato. Che venga generato dentro una relazione d'amore, o a opera di un atto di violenza, oppure da una tecnica biologica, ogni uomo resta pur sempre un uomo, con il patrimonio genetico dell'uomo. Ciò non toglie che la clonazione sia un atto di violenza, una sorta di stupro tecnologico che forza la natura per produrre un figlio, sia pure allo stadio embrionale, quello del fragile organismo di poche cellule, per poi ucciderlo e usarlo come materiale biologico".
Date tutte queste premesse la Morandi perviene all’ovvia conclusione che "clonare" nel senso di riprodurre, non solo geneticamente ma anche culturalmente e e psicologicamente, copie identiche di sé stessi o di altri individui (in senso non solo genetico ma anche culturale e psicologico) va al di là delle attuali possibilità tecnico-scientifiche.
Scrive infatti "Ma la vera e propria clonazione degli individui, così come viene propagandata, in realtà non sarà mai possibile in quanto gli organismi sono unici e la freccia del tempo va in una sola direzione. Ma ciò non la rende un'idea meno pericolosa.".
Ed ecco che qui traspare il pre-giudizio ideologico. Se la clonazione non è possibile, il rischio non è nella clonazione ma nell’idea. E l’idea pericolosa è prima di tutto l’idea dell’eugenetica. A parte il fatto che già Hannah Arendt ci ha insegnato che per realizzare la "banalità del male" è sufficiente una normale borghesia inserita in una nazione sufficientemente filistea, occorre precisare che esiste anche una eugenetica che cerca di eliminare caratteristiche negative nell’essere che verrà generato (è di poche settimane fa il caso di quei genitori inglesi a cui è stato concesso, in un procedimento di fecondazione assistita, di selezionare gli embrioni adatti a impedire che il nascituro fosse affetto da talassemia).
Poiché per l’eugenetica rivolta a generare il figlio "perfetto", l’esperienza ha dimostrato che i risultati sono quelli che sono, il rischio è che qualcuno venga abbindolato da qualche falso, e interessato, profeta. Ma in tempi di Vanna Marchi e maghi Otelma, è sufficiente una buona legislazione civile.
Venendo però all’ultimo paragrafo dell’articolo riusciamo a individuare quello che è il vero pre-giudizio. Pre-giudizio che non riguarda tanto il rischio della clonazione o delle biotecnologie, ma il rischio dovuto alla ricerca lasciata in mano al libero mercato. Ma questo è un altro discorso, su cui varrà la pena ritornare, tenuto conto anche del dibattito che in Italia si sta sviluppando sul ruolo della ricerca scientifica.


9 gennaio 2002
From: Domenico LANFRANCHI
Subject: Il rischio micotossine

L'articolo comparso su Diario del 14/12 mi sembra interessante e si presta ad una considerazione di carattere generale: il rischio micotossine esiste da sempre, ma è noto solo da pochi decenni; solo da quando lo si conosce si può parlare di responsabilità in relazione ad esso: l'avanzamento delle conoscenze porta ad un allargamento delle responsabilità.
C'è poi una domanda che mi piacerebbe rivolgere ad uno dei personaggi citati (Angelo Visconti dell'Istituto tossine e micotossine da parassiti vegetali del Consiglio nazionale delle Ricerche): perchè "le micotossine non sono così allarmanti per la salute umana, come lo è la BSE"? è in gioco la sensazione soggettiva di allarme, oppure ci sono fattori oggettivi che fanno ritenere maggiore il rischio BSE? dall'articolo io non l'ho capito.


9 gennaio 2002
From: Gian Maria BORRELLO
Subject: Re: Il rischio micotossine

La considerazione di Lanfranchi mi sembra valida. Per parte mia mi sentirei di evidenziare il punto in cui la dottoressa Miraglia fa una distinzione tra pericolo e rischio.
Non mi sembra, però, che l'articolo si presti ad essere utilizzato in funzione del nostro tema di base. O, per meglio dire, se ne possono estrapolare delle considerazioni che --queste sì-- possono valere ai nostri fini, ma rispetto all'articolo di Beck, che parlava della BSEarticolo.gif (899 byte), quest'ultimo di Diario è troppo focalizzato su un argomento specifico. Mentre invece Beck faceva un discorso di stampo politico-sociologico.


9 gennaio 2002
From: Vittorio BERTOLINI
Subject: Sondaggi sulla clonazione

Un ulteriore sondaggio sulla clonazione su <www.staibene.it >: Chi ha paura della clonazione?
[ndr: per gli altri sondaggi, si veda l'aggiornamento odierno del Percorso "Clonazione umana"nodo.gif (891 byte)]
Anche se quest'ultimo sondaggio, essendo stato realizzato in rete, può risultare meno affidabile in relazione al campione, emerge chiaramente che il timore per un rischio "metafisico", (54%) è superiore rispetto al rischio reale e concreto per malattie degenerative. Nel secondo quesito vediamo inoltre che esiste anche molta diffidenza verso la ricerca scientifica condotta per motivi economci. Un altro dato rilevante è che esiste un'ampia percentuale di persone che ignorano i termini della questione clonazione: un 25% si dichiara d'accordo con il quesito "adesso qualsiasi criminale conosce la 'ricetta' per clonare l'uomo", come se la clonazione fosse assimilabile alla torta pasqualina. Indubbiamente la domanda è scema ma il 25% poteva scegliere anche le altre due risposte.
Il problema che pongono questi risultati è la difficoltà del governo del rischio. Per eventi avversi come quelli derivanti dalla mucca pazza la condivisione degli obiettivi è pressochè unanime, anche se le opinioni possono divergere sulla radicalità e gradualità degli interventi. Invece è difficile individuare una possibilità di dialogo fra quel 54% che ritiene l'esperimento della ACT [ndr: sull'esperimento dell'Advanced Cell Technology, si vedano i recenti aggiornamenti al Percorso sulla Clonazione umananodo.gif (891 byte)] spaventoso e quel 36% che lo ritiene positivo.
Foschini ha scritto [ndr: v. intervento del 10 dicembre 2001]«... la moneta che paga l'inconscio non sempre è visibile, ma occorre tenerne conto nel bilancio del "calcolo del rischio"».
Non so se si tratta di inconscio; personalmente preferisco parlare di altre categorie, abitudini mentali e pigrizie culturali.
In ogni caso non possiamo non tenerne conto nel calcolo del rischio.


9 gennaio 2002
From: Marlene DI COSTANZO
Subject: Re: Sondaggi sulla clonazione

Bertolini nel suo breve commento ai sondaggi sulla clonazione che ci ha fatto pervenire, parla di impossibilità di dialogo fra quel 54% che giudica l'esperimento dell'ACT spaventoso e il 36% che al contrario lo giudica favorevolmente.
Appartenendo io a quel 36% che è favorevole alla clonazione terapeutica per motivi concretamente palpabili, so bene che mi riuscirà difficile convincere chi adduce ragioni di tipo ideologico, come altrettanto è difficile trovare le ragioni che possano modificare le mie opinioni. Non credo comunque che funzione del dialogo sia quello di convincere, o, secondo il modello degli antichi sofisti o delle controversie medievali, mettere in difficoltà l'interlocutore per costringerlo a recedere dalle proprie posizioni. Anche perché quando nel dialogo si inseriscono elementi ideologici, nemmeno l'evidenza empirica è sufficiente. Il modello di dialogo che ho in mente è quello dove due interlocutori (Simplicio e Salviati) argomentano portando ragioni a favore di un terzo interlocutore-spettatore (Sagredo). Per il governo del rischio, quando le opinioni non sono convergenti, prima della via autoritativa è necessario seguire la via della discussione pubblica.
Infatti, mentre la via autoritativa afferma il pensiero unico, attraverso la via dialogica possono interagire fra di loro le diversità. Per esempio, il blocco di coloro che ritengono la clonazione terapeutica un rischio, sono mossi da credenze diverse. Chi si oppone perché crede che dopo aver riprodotto le prime sei cellule l'esperimento possa essere portato avanti l'esperimento fino alla clonazione riproduttiva potrà accettare alcune condizioni limitative, che invece non accetterà chi si oppone sulla esclusiva base delle credenze religiose. Così pure fra i favorevoli, molti, di fronte ai rischi per la salute del nascituro che sono stati evidenziati nella clonazione animale, accetteranno alcuni paletti.
Quale che sia comunque il risultato, è evidente che attraverso la discussione pubblica si ottiene il vantaggio che la molteplicità della posizioni in confronto si chiarisce superando quel manicheismo che sembra oggi pervadere molte discussioni sulle biotecnogie.
Il mondo reale non è fatto di scienziati servi delle multinazionali e di cavalieri dell'ideale. Per fortuna è un po' più complesso.


9 gennaio 2002
From: Gian Maria BORRELLO
Subject: Re: Sondaggi sulla clonazione

Due feedback: uno a Vittorio Bertolini e l'altro a Marlene Di Costanzo.
Bertolini, nel suo commento all'articolo della Morandi, fa un accostamento con la frase di Pessina che non mi sembra adeguatissimo, in quanto Pessina fa, a differenza della Morandi, un discorso di genere ontologico. La Morandi, quando fa riferimento al fatto che il DNA non è tutto, è molto meno "spirituale". Sono due ragionamenti che, secondo me, non sono l'uno antitetico all'altro, ma stanno su due piani diversi (anzi, a ben vedere possono coesistere proprio perché stanno su due piani diversi). In breve, la Morandi dice che il DNA non è tutto perché c'entrano altre cose molto concrete, mentre la tesi di Pessina porterebbe secondo me ad affermare che se anche tutto l'uomo "fisico" dipendesse dal DNA, ci sarebbero altre "cose" da tener presente, che forgiano la "persona" intesa come unione di spirito e corpo.
Inoltre, a mio parere, la Morandi metteva in luce non tanto il fatto che "pubblico" sia meglio di "privato"; anche questo, è vero --«(...) maggiori finanziamenti a una ricerca pubblica svincolata dai capitali speculativi della Borsa sarebbero certamente il modo migliore per lasciare i venditori di cloni fuori dalla porta», ma mi sembrava che da lei fosse solo lasciato intendere e fosse messo in subordine rispetto al vero obiettivo dell'articolo: mostrare l'aspetto commerciale di tutta la faccenda "clonazione", perlomeno della faccenda così come emerge dal quadro che si ricava dalla vicenda "ACT" e, aggiungo io, che concretamente si può constatare recandosi presso gli uffici di questo istituto. Si veda, a riguardo, quanto riferisce Leonardo Coen nell'articolo menzionato nella Rassegna stampa presente nel Percorso "Clonazione", nonché i siti web dell'ACT e della sua consociata ("emanazione sul versante marketing") Cyagra (i link sono indicati nel Percorso).
Ho appena letto un'affermazione di Pietro Greco su L'Unità del 6 gennaio che esprime diffidenza nei confronti di questo business (la frase finale in "Pecora clonata, mezza ammalata": «Nell'era della scienza che si fa imprenditrice spesso a circolare sono le informazioni tipiche dello "star system" e delle campagne di marketing, quelle che fanno spettacolo. Mentre le informazioni che contano davvero tendono a restare segrete.»). Qui --dico io-- non si tratta di pregiudizi, ma di critica ai modi della comunicazione scientifica.
Marlene Di Costanzo dice qualcosa che, secondo me, presterebbe il fianco a critiche serrate, che però ci porterebbero molto lontano: «Anche perché quando nel dialogo si inseriscono elementi ideologici, nemmeno l'evidenza empirica è sufficiente». Quale dialogo non è intriso di elementi ideologici? Che significa evidenza empirica? Quale "evidenza" non è intrisa di elementi (argomenti?) soggettivi? Quale "empirismo"?
Ma questa mia considerazione non incide sul merito di quanto lei afferma. Vorrei solo aggiungere che "clonazione terapeutica" può essere un'espressione ambigua (per i motivi che ho cercato di indicare in estrema sintesi nel recente appunto che si trova nel Percorso dedicato), che tale ambiguità mi sembra sia confermata, da ultimo, da parte di una biologa quale è Cinzia Caporale, sul Sole 24 Ore di domenica 30 dicembre (inserto Cultura, p. 41) e, infine, che l'opinione della Di Costanzo e il senso di quanto lei scrive mi sembra siano sulla stessa linea propositiva esposta dalla Caporale nell'articolo.
[I testi degli articoli qui citati saranno consultabili, a breve, nel Percorso "Clonazione"]


18 gennaio 2002
From: Bruna DE MARCHI
Subject: Società del rischio: Programma emergenze di massa dell'Istituto di Sociologia Internazionale

Questo forum è una testimonianza che finalmente anche in Italia si parla diffusamente di "rischio" inteso come problematica socio-politica e non solamente come questione tecnica.

A Gorizia, noi sociologi e politologi del Programma emergenze di massa (PEM) dell'Istituto di Sociologia Internazionale (ISIG) abbiamo cominciato a occuparci di questioni di rischio circa 25 anni fa, guardati da molti "scienziati veri" con bonomia, condiscendenza, sospetto perplessità.
Con il tempo è andata e sta andando meglio. Qualcuno ritiene perfino che abbiamo qualcosa di interessante da dire.
Abbiamo un sito (non aggiornato)
<http://www.univ.trieste.it/~isig/emergen.htm>

Pubblichiamo dei quaderni.
Con due colleghi, abbiamo scritto un libro per il Mulino, universale paperbacks, 2001
Bruna De Marchi, Luigi Pellizzoni e Daniele Ungaro
"Il rischio ambientale"

Bruna De Marchi
(Coordinatrice del Programma Emergenze di Massa dell'ISIG --Istituto di Sociologia Internazionale-- di Gorizia e docente di Rischio ambientale alla facoltà di Scienze della formazione dell'Università degli studi di Trieste)


20 gennaio 2002
From: Vittorio BERTOLINI
Subject: Governo del rischio e gestione del rischio

Su Le Monde del 20 novembre è stato pubblicato uno scritto di Ulrich Beck dal titolo "Nous avons besoin d’une culture de l’incertitude". Questo scritto è un complemento quasi necessario al saggio dello stesso Beck, "’Mucca pazza’e la società del rischio globale", riportato in apertura del dibattito promosso dalla Fondazione Giannino Bassetti sulla "percezione del rischio".

Beck, nel riproporre le sue tesi sulla società del rischio, riafferma che il rischio deriva dall’incertezza, e paradossalmente, nonostante i notevoli successi del progresso tecnico-scientifico che hanno contribuito a far sì che, molte delle situazioni di rischio delle società passate, siano oggi possibilità remote (cfr. l’intervento di Domenico Lanfranchi, Viviamo in una società del rischio?), è proprio la diffusione delle conoscenze ad alimentare l’area dell’incertezza e del rischio:

«La science et ses technologies …. ont transformé le principe de "je ne vois pas le mal, donc il n'y a pas de mal" qui a longtemps localisé l'attention sur les aspects quantifiables et visibles des risques industriels».

Se la percezione del rischio è una conseguenza dell’incertezza, nei fatti questo si traduce nella deresponsabilizzazione:

«Les décideurs politiques affirment qu'ils ne sont pas responsables: au mieux, ils "régulent le développement". Les experts scientifiques disent créer de nouvelles opportunités technologiques, mais ne pas decider de la manière dont elles sont utilisées. Les chefs d'entreprise expliquent qu'ils répondent à la demande du consommateur. C'est ce que j'appelle l' "irresponsabilité organisée"».

Visto anche il contesto in cui l’articolo è stato pubblicato, un dossier dedicato dal quotidiano francese ai problemi finanziari-assicurativi dopo l’11 settembre, Beck pone perciò il problema della gestione del rischio innanzi tutto come recupero della responsabilità:

«A qui incombe le fardeau de la preuve? Qu'est-ce qu'une preuve dans des conditions d'incertitude? Quelles sont les normes de responsabilité en vigueur ? Qui est responsable moralement ?»

"Gestione del rischio", concesso che la mia lettura in questo senso di "gestionnaires des risques" e di "régulation des risques» sia corretta, va tenuta distinta da "governo del rischio". Il "governo" significa infatti norme e provvedimenti precisi, mentre il termine "gestione" rimanda a una concezione che fa più riferimento alla modalità e alla qualità effettiva della soluzione dei problemi, che alla configurazione delle istituzioni e alla definizione delle competenze. Mentre il "governo" è di sua natura formale e autoritativo, la "gestione" si esplica attraverso modalità, anche informali, di persuasione e dissuasione.

Gestire il rischio significa uscire dall’impasse fra una cultura che dà per scontato l’esistenza di un rischio residuale:

«ou ce terme désigne en fait un risque auquel on espére ne jamais devoie être confronté»

e una cultura che rifiuta in modo assoluto il rischio:

«qui consiste à brider l’innovation par des dispositifs de sécurités dès son origine».

Quando il rischio è riferito, piuttosto che ad eventi ben definiti (BSE, inquinamenti da gas serra ecc.), a condizionamenti ideologici e ad allarmismi massmediatici (inquinamento elettromagnetico, cibi transgenici, clonazione di replicanti…), non è detto che le cosiddette soluzioni razionali (negazione del rischio) siano le più ragionevoli. Più che una politica che tende a rimuovere il rischio, o, in alternativa, una politica capace solo di divieti, occorre una politica che sappia confrontarsi con l’incertezza (definire a chi spetta l’onere della prova e quali siano le caratteristiche della prova) e la responsabilità (come viene riconosciuta la responsabilità).

Ma non è questione solo di competenze tecniche. Infatti, come scrive Beck, la gestione del rischio...

«réside dans la capacité à aborder librement toutes les approches du risque: reconnaitre la différence entre un risque quantifié et une incertitude non quantifiée; arbitrer entre différentes rationalités; démontrer sa volonté d'agir de manière responsable au regard des dégáts qui peuvent se produire en dépit de toutes les précautions».

Per esempio, la normativa andata in vigore in questi giorni sulla cosiddetta "bistecca trasparente" serve a realizzare una «volonté d'agir de manière responsables», e probabilmente soddisfa il cittadino consumatore più che la politica dei divieti. Nel divieto c’è sempre una qualche limitazione della libertà individuale, oltre alla sensazione che esso, in qualche modo, possa essere aggirato.

Ma il rischio non ha solo una valenza individuale:

«le caractère indéterminé des aléas et des risques, …a rendu quasi caduques les politiques de sécurité du complexe financiare-assurantiel sur lequel repose le capitalisme contemporain».

Conseguentemente, la gestione del rischio non può che avere una valenza politica e se in questo articolo scrive che:

«changer les politiques de risque implique de changer les relations de pouvoir qui traversent aujourd'hui la régulation des risques»,

nel saggio con cui si è aperto il forum afferma:

«È qui che si fa avanti la vera sfida globale, in cui possono essere "forgiate" (...) istituzioni sovranazionali per la cooperazione, la regolamentazione dei conflitti e la costruzione del consenso».

E’ nota la distinzione di Isaiah Berlin fra "libertà negativa" e "libertà positiva". La gestione del rischio, in una società dominata dall’incertezza, non può certamente essere nell’ambito del paradigma della "libertà negativa"; anzi, proprio per il fatto che la libertà negativa garantisce l’individuo dalle prevaricazioni della società, ma non viceversa, il senso di insicurezza ne verrebbe accentuato. Questa limitazione della libertà negativa, ha fatto sì che in un articolo dell’8 novembre de Il Giornale, "L'accademia dei neo-statalisti", Carlo Lottieri prefigurasse nella posizione di Beck la riproposta delle «vecchie logiche statuali all'interno di organismi globali tutti da reinventare».

Ma le politiche delle azioni positive (libertà positiva) a cui possiamo ricondurre la gestione dei rischio basate sui concetti di persuasione e dissuasione non solo non possono considerarsi come illiberali, ma anzi garantiscono anche il libero mercato più delle derive anarco-capitaliste a cui qualche volta sembra indulgere Lottieri. Infatti la sensazione, nell’opinione pubblica, è che il rischio sia una conseguenza della nuova economia globalizzata «a conduit à une crise des institutions et du fonctionnement des sociétés occidentales». Contrastare questa crisi significa concepire il mercato in un modo diverso da quello di una gara d’asta ove le merci vengono allocate solo e semplicemente in base al valore monetario. Gestire il rischio non consiste, o almeno non dovrebbe consistere, sic et simpliciter, nel predisporre nuovi lacci e lacciuoli, ma nel realizzare un mercato che interiorizzi anche altri valori, per esempio la sicurezza.

Le ragioni che fanno ritenere alcuni eventi più a rischio di altri possono essere lette secondo la psicologia cognitiva di ciascun individuo, difficilmente perciò riconducibili a comportamenti collettivi statisticamente omogenei, ma questo fa cadere una delle condizioni per il funzionamento di un mercato perfettamente concorrenziale, e più precisamente la simmetria delle informazioni. Ogni tre mesi sulle strade americane muoiono più persone di quante non siano perite per incidenti aerei in tutta la storia dell'aviazione civile, ma ciononostante il viaggio aereo viene sentito maggiormente a rischio, con la conseguenza di un incremento dei costi assicurativi. Il che significa che io, individuo razionale, sono costretto a pagare il costo dell’irrazionalità degli altri. D’altra parte posso (o potrò) sottopormi ad accertamenti genetici senza comunicarne i risultati alla compagnia assicuratrice scontando un costo della polizza inferiore.

In ogni caso, la non-gestione del rischio, quale che sia la sua natura, razionale o irrazionale, comporta dei costi o in termini di mancata sicurezza o in termini di altre limitazioni.

Perciò se non vogliamo prendere alla lettera la provocazione di Roberto Casati, che su Il Sole 24 Ore del 30 dicembre scrive che se la paura è irrazionale e per combatterla sono autorizzati anche mezzi irrazionali come l'esorcismo, la via del dialogo, del confronto fra diverse razionalità (pur nella difficoltà che lo scontro degli interessi e delle ideologie comporta) è l’unica percorribile.

In un intervento al forum Marlene Di Costanzo scrive «Il modello di dialogo che ho in mente è quello dove due interlocutori (Simplicio e Salviati) argomentano portando ragioni a favore di un terzo interlocutore-spettatore (Sagredo)» e poi prosegue con «Credo che nella dialettica fra associazioni di consumatori e scienziati e imprese, una definizione un po' più precisa del concetto di rischio applicata ai singoli casi possa essere un aiuto non indifferente per la "governance" del rischio». In un certo senso si tratta di una risposta riduttiva, in quanto la "dialettica fra associazioni …." assomiglia molto a quelle enunciazioni di buona volontà che durano la spazio da natale all’epifania (e nel caso di interessi sufficientemente forti anche per spazi temporali più piccoli), tuttavia il riferimento ad una definizione più precisa della materia del contendere può già essere un elemento su cui costruire il dialogo. Personalmente aggiungerei anche l’opportunità di sottolineare l’importanza dell’evidenza empirica. Ma al di là del come si voglia definire o ridefinire il dialogo, la gestione del rischio impone che i decisori pubblici, ogni volta che su un determinato problema non esiste un’ampia condivisione, si facciano promotori di un’aperta discussione pubblica, da non confondere con il chiacchiericcio dei talk show, attraverso cui il diritto all’informazione consapevole costituisca la nuova frontiera della cittadinanza.


26 gennaio 2002
From: Marlene DI COSTANZO
Subject: L'evidenza empirica

Trovo le osservazioni di Borrello molto pertinenti. Se riintervengo non è perciò per ribattere alle sue osservazioni, quanto per cercare di chiarire meglio dei concetti che ho trattato più nell’ottica del senso comune che dal punto di vista epistemologico.

Ogni volta che noi valutiamo una situazione o esprimiamo giudizi su un qualcosa siamo condizionati da un sistema di credenze che è la nostra storia culturale: rapporti sociali ed economici, relazioni affettive, esperienze intellettuali e così via sono tutti fattori che determinano il nostro modo di vedere e pensare il mondo. Per me una credenza è ideologica se non è confrontabile con nessun fatto, se non siamo cioè in grado di definire alcuna procedura di argomenti che ci permetta di giustificarla. Per esempio mentre la credenza che gli individui clonati abbiano già al momento del concepimento un qualcosa di anziano può essere vera o falsa, ma allo stato delle conoscenze giustificabile, molto meno giustificabile, se non impossibile, è l’affermazione che gli individui clonati siano delle fotocopie.

Per quanto riguarda l’evidenza empirica, non ho difficoltà a riconoscere che i dati sono pieni di teoria. Ma poiché tutto il mio discorso era rivolto a considerare l’importanza della discussione pubblica, la mia evidenza empirica è quella statuita dal paradigma della scienza normale.

Per esempio sulle pagine del domenicale de Il Sole 24 Ore di questa settimana (20/1/20001) vi è la recensione di due testi, di cui uno dell’Istituto superiore della sanità, [www.iss.it/scientifica/pubblica/rapporti/01-25.pdf upda.gif (933 byte)[29 gennaio 2002]] dai quali si evince che il rischio per il cosiddetto elettrosmog va molto ridimensionato, e per me questa è una evidenza empirica.

Questo non significa affatto che in conseguenza dell’evidenza empirica le sicurezze della scienza normale debbano essere imposte. La vita degli individui non è fatta solo di evidenze empiriche ma anche di altri fattori che ormai sono imprescindibili al diritto di cittadinanza.
D’altra parte se le necessità della convivenza trovano ospitalità nel dialogo, fatto di discorso ma anche e di più di ascolto, occorre alla fin fine un metro su cui le diverse credenze possano confrontarsi, e l’evidenza empirica, nei modi almeno in cui la intendo, è uno di questi.

 

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