Interventi al Forum nel mese di Novembre 2001

Gli interventi di:
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v-red.gif (71 byte) La società del rischio

Dibattito condotto da Vittorio Bertolini [ * ] 

 Links: 

right.gif (841 byte)Ulrich Beck
- Sociologo tedesco che si occupa di rischio e ambiente è professore di sociologia all'Università di Monaco; pubblica regolarmente suoi contributi sul Frankfurter Allgemeine Zeitung.

right.gif (841 byte)Ulrich Beck, " 'Mucca pazza e la società del rischio globale "articolo.gif (899 byte), Iride, agosto 2001, n. 33

right.gif (841 byte)Marcello Cini, "Vite a rischio nell'era dei brevetti"articolo.gif (899 byte), Il Manifesto, 28 agosto 2001

right.gif (841 byte)Ulrich Beck, "Nous avons besoin d'une culture de l'incertitude"articolo.gif (899 byte), Le Monde, 20 novembre 2001
(right.gif (841 byte)traduzione in Italianonew.gif (896 byte)[21 febbraio 2002])

 Introduzione

Non c’è stato certamente bisogno della tragedia delle Twin Towers per comprendere che la percezione del rischio e dell’insicurezza pervade gran parte della nostra società. Viviamo ormai nella "società del rischio" (il testo già classico di Ulrich Beck con questo titolo risale alla metà degli anni '80).

Improvvisamente si è avuta la sensazione che attività del tutto naturali, quali l’alimentazione quotidiana, possono mutarsi in "eventi avversi" e che quello stesso progresso tecnico scientifico che ha consentito di affrancare l’uomo dai bisogni primari può trasformarsi in un pericolo per la nostra sicurezza.

E non è certo la razionalità del calcolo probabilistico, con le sue affermazioni del tipo, per esempio, che è infinitamente più pericoloso salire in automobile rispetto al sedersi al ristorante, ad allontanare la sensazione che mentre nel "rischio trasporto" c’è una certa naturalità, il "rischio fiorentina" è invece determinato dalle insufficienze della nostra società.

La Fondazione Giannino Bassetti, nel suo programma di favorire la comprensione e far emergere le ragioni che implicitamente o esplicitamente influenzano i modi della "governance" della società contemporanea, in collaborazione con la società di servizi Poster, ha promosso un sondaggio per cogliere se e in quale misura l’opinione pubblica associ il rischio alla introduzione dei prodotti biotecnologici.

Se, "prima facie", il sondaggio promosso dalla FGB è rivolto alla conoscenza delle reazioni dell’opinione pubblica rispetto allo specifico delle biotecnologie (ma per traslato anche rispetto ad ogni altro evento percepito come rischioso), "seconda facie" (certamente di non minor rilevanza rispetto alla prima) la ricerca della FGB si pone la questione del "come", nell’opinione pubblica, la percezione del rischio dovuto all’innovazione sia correlata alla responsabilità. Verso quali soggetti dell’innovazione (politici, imprenditori, ricercatori scientifici, "grand commis" pubblici, ecc.) si indirizza la fiducia o la sfiducia dei cittadini utenti-consumatori? Come questi ultimi valutano la responsabilità dei "policy maker" di fronte alle proprie esigenze di sicurezza?

In un certo senso, si può dire che la ricerca della FGB e di Poster oltre a rilevare la percezione del rischio, intende anche "metaconoscere", porsi cioè come strumento propedeutico per valutare come, in ipotesi, la sensibilità al rischio sia funzione dei rapporti sociali nel cui ambito è promossa l’innovazione. Banalizzando, ma non troppo, è probabile (ma occorre però una verifica empirica) che l’opinione pubblica sia più propensa ad accettare una discarica promossa dalla pubblica amministrazione rispetto a quella gestita da un imprenditore privato, mentre, al contrario, può darsi che un'innovazione tecnico scientifica sia maggiormente accettata se, rispetto alla certificazione di un'istituzione pubblica, dietro ad essa appare una piena e completa assunzione di responsabilità di un organo scientifico (ma anche in questo caso occorre un’indagine sul campo - Di Bella docet).

Abbiamo ritenuto opportuno procedere, in parallelo al sondaggio, con un "focus group" aperto, nel senso che non esiste una preselezione dei partecipanti secondo collocazione professionale e di categoria sociale, per approfondire qualitativamente alcuni aspetti della problematica relativa alla percezione del rischio.

In particolare, gli argomenti su cui avremmo piacere di aprire un confronto sono:

a) rispetto al passato, in cui gli standard di sicurezza (si pensi per esempio alle condizioni igienico-sanitarie) erano decisamente insufficienti, in quale direzione si è evoluta la sensibilità agli "eventi avversi"?

b) in quale misura la percezione del rischio è oggi correlata ai processi di innovazione tecnico-scientifica?

c) qual è la responsabilità dei "policy maker" (amministratori pubblici, imprenditori, scienziati) rispetto alla percezione del rischio?

d) in quale misura i mass-media sono in grado di influenzare la percezione del rischio nell’opinione pubblica?


Nel Forum del sito della Fondazione Bassetti diamo così il via al "focus group" parallelo al sondaggio sulla percezione del rischio biotecnologico. Il dibattito, condotto da Vittorio Bertolini, ospiterà interventi sulle questioni sopra esposte e su altre che emergeranno in corso d'opera.

9 novembre 2001 -- The FGB Staff
                                    
                                     <https://www.fondazionebassetti.org> => info

Interventi

right-sfondochiaro.gif (838 byte)Continua


14 novembre 2001
From: Daniela MAINARDI
Subject: Tematiche del Forum


Innanzi tutto ho trovato apprezzabile il fatto che il forum (perchè poi l'avete chiamato focus group?) sia stato articolato su alcune domande. Questo consente la partecipazione anche ai non specialisti, senza sentirsi in obbligo di scrivere saggi.

Venendo al merito.

Nel quesito d) chiedete un'opinione sull'influenza dei massmedia sulla percezione del rischio. Non vi sembra una domanda dall'esito scontato? Non credo di sbagliarmi molto a dire che il rischio viene percepito solo se viene evidenziato dai massmedia. Perciò nel quesito c) accanto a politici ecc. sarebbe stato opportuno inserire anche gli operatori dell'informazione.

La risposta al quesito a) è implicita. Se nel passato l'opinione veniva formata in modo diverso anche la percezione del rischio doveva essere diversa.

Ci sarebbero molte altre osservazioni, che mi riservo di approfondire e poi farvele pervenire


14 novembre 2001
From: Vittorio BERTOLINI
Subject: Re: Tematiche del Forum


Non è che tutto ciò che è ovvio è scontato, o viceversa. Anche perchè ciò che per noi è scontato non può affatto esserlo per un altro in quanto dipende dalla cultura di appartenenza, dalle esperienze acquisite e così via.

Fatta questa breve premessa è tautologico (volevo dire ovvio) che qualsiasi idea che noi ci facciamo di qualcosa dipende dalle informazioni che abbiamo acquisito e perciò da quello che conosciamo attraverso i mass-media. Quello che però attraverso la domanda, il cui esito per te è scontato, ci si proponeva di conoscere non è tanto se stampa, radio, tv ecc. fanno informazione o disinformazione (implicitamente, quando chiami in causa la respondabilità degli operatori presupponi, come me, che ci sia anche disinfornazione), ma fino a che punto questa consapevolezza (della disinformazione) sia presente nel grande pubblico.

Mi spiego. Tutti diciamo di sapere che la stampa è manipolata o che la pubblicità è truffaldina, ma questo sempre in generale; quando scendiamo al particolare si constata che accettiamo, senza alcun beneficio d'inventario, qualsiasi informazione, e così è per la pubblicità.

Il problema che si pone è perciò sapere, o almeno analizzare, per quale meccanismo cognitivo la diffidenza generale muta in accettazione dello specifico.

Personalmente, mi sono fatto alcune idee in proposito, che conto di proporre quanto prima, e che si basano sul fatto che, in dipendenza delle conseguenze di particolari eventi, la nostra percezione della probabilità dell'evento viene enfatizzata.

Trovo corretto il riferimento alla responsabilità anche degli operatori dell'informazione, ma su questo sarebbe parimenti opportuno analizzare lo "scambio" tra politici, imprenditori, ecc. e operatori dei media.


19 novembre 2001
From: Federico NERESINI [ * ]
Subject: Responsabilità, innovazione e incertezza. Il caso delle biotecnologie

Qualche anno fa, Zygmut Bauman invitava a riflettere sul nesso che nelle società moderne si viene a istituire fra organizzazione burocratica e responsabilità. Una delle tesi sostenute dal sociologo tedesco consisteva nell'idea che le caratteristiche della burocrazia - così come definite da Weber in qualità di espressione del processo di razionalizzazione che accompagna lo sviluppo della modernità - contengono la perversa possibilità di ridurre l'orizzonte di visibilità delle conseguenze delle nostre azioni e, di conseguenza, impediscono l'assunzione di responsabilità che ne dovrebbe derivare. La divisione stabile e specializzata dei compiti, la loro organizzazione in una struttura gerarchica, l'associazione di una competenza specializzata per ogni posizione porterebbero gli individui dislocati nelle varie posizioni - e remunerati sulla base della loro collocazione - a una visione parcellizzata dei processi che pure contribuiscono attivamente ad alimentare e con essa al disconoscimento della loro responsabilità circa gli effetti che tali processi determinano.

Non pare fuori luogo richiamare il nesso istituito da Bauman fra gli elementi costitutivi della razionalizzazione burocratica dell'interazione sociale e il tema della responsabilità per riflettere sulle implicazioni derivanti dallo sviluppo delle biotecnologie.

Non andrebbe innanzi tutto dimenticato che l'organizzazione del lavoro scientifico deve essere interpretata anch'essa come espressione del più ampio processo di razionalizzazione delle società moderne. Nonostante la visione idilliaca e un po' romantica con cui siamo abituati a pensarla, la scienza moderna si presenta infatti come un'organizzazione burocratica a tutti gli effetti, all'interno della quale lo scienziato viene normalmente messo nella condizione di restringere il campo di assunzione di responsabilità entro gli angusti confini del suo laboratorio, se non addirittura del suo banco da esperimenti. Egli è responsabile della specifica attività di ricerca in cui è impegnato e solo di quella, anche se consiste di una porzione infinitesimale di un processo di elaborazione e di analisi molto più ampio e complesso. I suoi interlocutori - i soggetti verso i quali si sente responsabile - sono i suoi colleghi o al massimo le persone da cui dipende il suo lavoro, siano essi lo Stato oppure privati, imprenditori o investitori.

Si badi bene, lo scienziato non è per questo un soggetto amorale, e di sicuro non lo è più di qualsiasi altro. Solo che l'orizzonte morale che gli viene culturalmente indicato e strutturalmente sollecitato possiede la stessa estensione di quello di un impiegato di banca - anche quando la banca recicla denaro di dubbia provenienza - o dell'operaio - anche quando la fabbrica dove lavora costruisce aerei da combattimento - o dell'infermiere - anche quando l'ospedale dove presta la sua opera risulta in molti casi sordo alle esigenze dei pazienti.

Del resto, la parcellizzazione dell'attività e dunque della responsabilità dello scienziato viene continuamente sostenuta dalla retorica della separazione fra scienza e tecnica, fra la ricerca pura e le sue applicazioni, oltre che dal ricorso alla retorica dell'«errore umano», che consente alla scienza di incassare i successi della tecnologia senza farsi carico dei suoi effetti negativi.

E restando in tema di distinzioni, è senza dubbio utile riprendere qui anche la distinzione weberiana fra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità. Come noto, con la prima il sociologo tedesco vuole indicare l'agire sociale orientato da una valutazione dei fini, mentre con la seconda egli intende l'agire che tiene conto, fin dove possibile, anche delle sue conseguenze.

 Links: 
Umberto Galimberti

Nella stessa chiave interpretativa, in un articolo precedente Galimberti sviluppava le proprie riflessioni sul concetto di responsabilità:

Tuttavia - come ha notato di recente anche Galimberti - l'aumento dell'imprevedibilità degli esiti derivanti dall'applicazione dal sapere tecnologico e scientifico, imprevedibilità dovuta al crescente divario fra la capacità di "fare" che tale sapere ci mette a disposizione e la nostra incapacità di valutarne gli effetti, rende di fatto inservibile non solo l'etica dell'intenzione, ma anche quella della responsabilità. Che tale divario fosse inestricabilmente legato allo sviluppo della scienza moderna lo aveva del resto già fatto notare tempo fa Collingridge ed è stato più recentemente ripreso nell'ambito della riflessione sulla cosiddetta società del rischio.

Simili considerazioni acquisiscono ovviamente un peso ancora maggiore se riferite a settori in rapida evoluzione e caratterizzati dall'apertura di possibilità di manipolazione finora inimmaginabili, come è il caso, per esempio, delle biotecnologie.

Siamo dunque condannati a dover scegliere fra la rinuncia all'agire responsabile - di fatto non praticabile a causa dell'impossibilità di prevederne le conseguenze oppure non alimentato da una consapevolezza sufficientemente ampia e accorta - e la rinuncia allo sviluppo del sapere tecnoscientifico in ragione dell'imprevedibilità dei rischi ad esso collegati, come sembra logicamente conseguire da un'applicazione estensiva, quanto controversa, del "principio di precauzione"?

Una possibile via d'uscita al dilemma si può forse intravedere una volta abbandonata la visione riduttiva dei fenomeni sociali che fa da presupposto a buona parte del dibattito sull'innovazione tecnoscientifica e che finisce per condurci nel vicolo cieco appena descritto.

Si tratta di iniziare a non considerare ciascun attore sociale come abbandonato a se stesso durante il processo decisionale che lo mette a confronto con la responsabilità dell'innovazione, quanto piuttosto di tener conto che egli è sempre un «attore-sociale-in-relazione» e che, di conseguenza, può scegliere di non portare da solo il peso della responsabilità in un contesto a elevatissimo grado di incertezza; al contrario può decidere di condividerlo con altri, ovviamente a patto di riconoscerli come validi interlocutori.

Si tratta, in sostanza, di iniziare a considerare ciò che la nostra cultura individualistica e poco incline a considerare la dimensione sociale dei fenomeni impedisce di vedere.

In questa prospettiva, le decisioni relative allo sviluppo e al governo dell'innovazione tecnoscientifica non sono più prerogativa di una delle parti in gioco - forte del potere di decisioni unilaterali e nello stesso tempo caricata della loro responsabilità - ma si collocano piuttosto all'interno di un processo di negoziazione che, coinvolgendo numerosi attori, da un lato limita il potere decisionale di ciascuno, ma dall'altro ne riduce la responsabilità. Nello stesso tempo però questa riduzione di responsabilità deve portare alla sua migliore individuazione senza ricadere in quella parcellizzazione burocratica che, come abbiamo visto, tende a favorire la deresponsabilizzazione, sia perché priva l'attore della necessaria visione complessiva dei processi in cui si trova implicato, sia perché consente in ogni momento di demandare ad altri il peso della scelta.

Nella partita che ognuno di noi si trova a giocare sul tavolo dell'innovazione biotecnologica si tratta, in sostanza, di evitare due atteggiamenti opposti eppure ugualmente pericolosi nelle loro conseguenze: a un estremo la pretesa di poter decidere da soli, magari sulla base di una presunta superiorità conoscitiva e tecnica oppure facendosi forti della delega ricevuta sul piano politico-istituzionale o, ancora, dell'ipotetica legittimazione che deriva dall'assunzione del rischio d'impresa; dall'altro, la riduzione dell'orizzonte della responsabilità in nome della divisione burocratica del lavoro, anche di quello che, coinvolgendo la ricerca scientifica, conduce all'innovazione.

Il vantaggio maggiore derivante dall'assunzione di una prospettiva negoziale non risiede tanto nel contenimento dell'ansia prodotta dalla consapevolezza di dover "scegliere al buio", anche perché lo stesso risultato si può molto più facilmente ottenere mediante la riduzione di tale consapevolezza evitando di porsi scomode domande circa le possibili conseguenze della propria decisione oppure confidando ciecamente nella capacità di prevederle. L'attivazione di processi decisionali negoziati comporta, infatti, l'enorme guadagno di ampliare il quadro di conoscenze e di competenze disponibili per la formulazione della scelta finale.

Accanto ai vantaggi vanno ovviamente considerati anche i possibili effetti negativi, fra i quali vale la pena di menzionare quello del regresso all'infinito del processo decisionale, ovvero del suo stallo dovuto all'oggettiva necessità di prolungarne il corso in modo da consentire l'effettivo coinvolgimento degli attori più diversi e all'impossibilità di prendere decisioni che accolgano pienamente le istanze di tutti gli attori. Tale evenienza si può tuttavia contrastare facendo un uso - ancora una volta - "responsabile" della variabile tempo. Questo significa sia concordare una scadenza entro cui una decisione deve essere comunque presa, sia assegnare a quella decisione una scadenza, nel senso di stabilire che in ogni caso, una volta trascorso un determinato periodo di tempo, quella decisione verrà sottoposta a un processo di revisione. Risulta interessante, sotto questo profilo, la legge recentemente approvata in Francia in materia di fecondazione assistita che contiene, per l'appunto, un dispositivo di revisione "automatica". Perché non ragionare allo stesso modo anche a proposito delle innovazioni biotecnologiche?

E' importante inoltre evitare di ricadere nel mito di un assemblearismo falsamente democratico: non si tratta di mettere tutti sullo stesso piano, ma di negoziare una decisione assumendo le differenze, dunque i limiti ma anche le potenzialità di ciascun attore coinvolto. Non possiamo cioè far finta che la mitica "casalinga di Voghera" sia competente scientificamente quanto il biologo molecolare, né che lo possa diventare se adeguatamente informata (il che non significa che non si debba per questo investire nella sua corretta informazione). Si tratta, se mai, di riconoscere che la casalinga possiede una competenza nell'ambito della vita quotidiana che probabilmente lo scienziato non ha e che è dunque competente/responsabile nel valutare i possibili usi e i possibili impatti dell'innovazione biotecnologica in tale ambito. Il richiamo alla responsabilità si rivolge quindi anche all’utente finale dell’innovazione, in questo modo riconosciuto come protagonista e non come soggetto passivo del processo di acquisizione sociale delle nuove tecnologie.

_______________________
[*] Nota del conduttore: il Prof. Federico Neresini insegna presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova ed è responsabile scientifico della società Poster (che per conto della Fondazione Bassetti sta svolgendo l’indagine demoscopica su biotecnologie e rischi che è alla base dell'attuale Focus su "La società del rischio")
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19 novembre 2001
From: Vittorio BERTOLINI
Subject: Nota a margine dell'intervento di F. Neresini

Il contributo di Federico Neresini, di prossima pubblicazione nella sezione "Documenti" di questo sito, offre più di uno spunto per analizzare la tematica della "percezione del rischio", oggetto del presente Focus group.

L’incertezza, a cui Neresini fa riferimento già nel titolo, è uno dei primi fattori che ci fanno "sentire" il rischio. Ma, nell’analisi della società del rischio e nel discorso di Neresini, non meno importante è la riflessione sul nesso fra burocrazia e responsabilità, nonché sul nesso tra i due concetti di "incertezza" e di "imprevedibilità".

Nella riflessione sul nesso fra burocrazia e responsabilità (il cui spunto deriva dalle analisi di Bauman e Weber) si osserva come la razionalizzazione del rischio viene risolta in sede burocratica attraverso la parcellizzazione e il controllo dei compiti. Ma se, da un lato, la prassi burocratica, esaurendo la responsabilità nel rispetto delle norme, si fa garante, sul piano formale, dell’operato degli "specialisti", dall'altro lato, non riesce però a risolvere le diffidenze del grande pubblico. Tanto più che non di rado si ha modo di constatare come la norma venga adattata, più che ai dati scientifici, alle convenienze politiche.

Riguardo al nesso esistente tra l'"incertezza" e l'"imprevedibilità, Neresini, partendo da un articolo di Umberto Galimberti ("Un terremoto che ci riguarda"articolo.gif (899 byte), La Repubblica del 18 novembre 2000) sulla imprevedibilità dell’applicazione dei saperi tecnico e scientifico, ritiene impraticabile sia l’etica dell’intenzione sia l’etica della responsabilità.


 

v.gif (842 byte) La governance nella società

 Links: 

right.gif (841 byte)Un possibile testo di riferimento: "Quale impresa per la sfida evoluzionista?"scritto.gif (934 byte), di Piero Bassetti.

Il ruolo della politica e quello dell'impresa

Interventi


25 novembre 2001
From: Domenico LANFRANCHI
Subject: Un commento a un brano di "Quale impresa per la sfida evoluzionista"

«(...) Sembra quasi che approfittando della globalizzazione, il capitalismo e la democrazia moderna abbiano organizzato un sistema che, sui grandi temi di "dove va il mondo", riesce a de-responsabilizzare, insieme, tanto il consumatore quanto l'imprenditore, quanto il governante.
Il che si spiega, del resto, se si considera che su questo c'è stata spesso una oggettiva convergenza di interessi tanto da parte dei politici "puri", che vedono così teoricamente ripristinato l'antico privilegio del primato della politica, alla quale sola toccherebbe l'esercizio della governance, quanto da parte di molti intellettuali: questi ultimi per una ragione solo apparentemente più sottile, connessa al timore di compromissioni tra scienza e potere economico. Per qualcuno di questi, infatti, qualunque avvicinamento del potere economico al dispiegarsi della ricerca scientifica si presenta minaccioso di un altro primato: quello delle idee sugli interessi. La tecnica, heideggerianamente intesa, fa infatti troppa paura se saldata al potere del capitale. Se si deve discutere di essa - si insinua - lo si faccia nell'istituzione politica lasciando perciò rigorosamente fuori l'impresa: una realtà da intendere come istituzione ancillare dell'economia e mai come possibile soggetto politico in sè. (...)»
(Piero Bassetti, "Quale impresa per la sfida evoluzionista"scritto.gif (934 byte))

Chi abbia finora effettuato le scelte fondamentali sui grandi temi di "dove va il mondo" non è affatto chiaro: probabilmente si devono ad un intreccio più o meno casuale fra gli interessi politici, economici e finanziari delle aree economicamente più forti del pianeta con le idee dominanti tra i consumatori delle stesse aree. Tale intreccio presenta probabilmente caratteristiche abbastanza costanti di interazione tra i vari fattori da poter essere chiamato "sistema" in senso proprio, ma siamo ben lontani dall'aver chiarito le dinamiche reali di tali interazioni. In paesi come gli U.S.A. il rapporto fra interessi economico-finanziari e politica, anche grazie all'istituto delle lobbies, si è spesso strutturato in modo da far pensare ad un asservimento della seconda ai primi, o addirittura all'esistenza di una sorta di complesso finanziario-industrial-militare che decida le sorti del mondo. Lasciamo l'ipotesi al lavoro di romanzieri e soggettisti cinematografici, anche se spesso è forte il sospetto che essa sia vicina alla realtà.

Nonostante il gran parlare che si fa di globalizzazione, di complessità, di approccio sistemico ai problemi e così via, nella prassi trionfa l'approccio settoriale, per di più in un 'ottica di breve termine. Così ognuno si occupa del settore di sua stretta pertinenza, nessuno di dove va il sistema nel suo complesso, fiducioso chi in qualche provvidenziale mano invisibile, chi in qualche più o meno occulta tendenza autoconservativa del sistema o forse chissà nella ragione hegeliana. Purtroppo, come è stato più volte rilevato e come ricorda anche P. Bassetti, il sistema abbandonato a se stesso tende all'autodistruzione.

L'11 settembre la distruzione sembra iniziare in diretta televisiva: colpisce la sproporzione enorme tra la potenza dei mezzi tecnici d'informazione che consentono a mezzo mondo di vedere in tempo reale quanto sta accadendo e la mancanza di mezzi per salvare le migliaia di persone intrappolate nelle torri. Qualche giorno dopo sapremo che è bastato un manipolo di persone decise a tutto, armate di strumenti decisamente "pretecnologici" (banali temperini), per trasformare quattro aerei in bombe micidiali e colpire i simboli del potere economico e militare dell'unica superpotenza rimasta. Emerge così la grande vulnerabilità delle nostre società tecnologicamente avanzate, che, per ridurre quanto più possibile tempi e costi, si sono trasformate in giganti dai piedi d'argilla. Se l'obiettivo è ridurre i costi non si fa molta differenza fra il togliere un'oliva ad ogni insalata servita a bordo degli aerei (100.000 $ risparmiati dall'American Airlines nell'anno 2000!) e ridurre le spese per la sicurezza aeroportuale ("Gli aeroporti sono l'unico posto in America in cui la sicurezza è delegata a società private, le quali pagano stipendi peggiori di quelli dei fast food. Questo significa mancanza di professionalità e un turnover del personale dei controlli che in alcuni aeroporti raggiunge il 400% all'anno", così l'ex direttore della Federal Aviation Administration, sul Corriere della Sera del 13/09/01).

Nell'omonimo dialogo platonico Protagora narrando il mito di Prometeo, che ha donato all'uomo la perizia tecnica ed il fuoco, osserva che senza la virtù politica gli uomini non riescono a salvarsi: "Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano." Nel mito il problema viene risolto da Zeus che fa distribuire a tutti gli uomini in egual misura rispetto e giustizia, fondamenti dell'ordine e della convivenza nelle città.

Il mito protagoreo rimane tuttora di grande attualità: a poco serve la tecnica se non è accompagnata e sorretta da adeguate strutture e competenze politiche. A fronte di un progresso tecnico scientifico che procede ad un ritmo sempre più incalzante, usiamo ancora forme e strutture politiche sostanzialmente vecchie di due secoli. Del resto i tentativi di innovazione effettuati nel XX secolo hanno dato luogo a regimi totalitari dall'esito catastrofico. La tragedia dei totalitarismi ci ha fatto acquisire un punto fermo: la democrazia è un'istanza irrinunciabile, tenendo presente che senza il rispetto dei diritti fondamentali di ciascuno non abbiamo più democrazia, ma dispotismo della maggioranza, come ci ricordava Tocqueville. Di questo in occidente sono ormai convinti anche i nostalgici dei defunti regimi, restano però aperti alcuni grandi problemi che esigono risposte urgenti: in primo luogo come si possa estendere la democrazia a livello mondiale, in secondo luogo in quali modi la si possa garantire a fronte delle altre istanze autonome (mercato e burocrazia) che cooperano alla governance del mondo.

Il primo problema è stato troppo spesso trascurato: a parte qualche periodica campagna strumentale sui diritti umani, ci si è sempre attenuti al principio di non interferire negli affari interni dei singoli stati; in un sistema politico-economico mondiale in cui le interrelazioni e gli scambi si intensificano sempre di più una posizione del genere non è più sostenibile, ci dobbiamo rendere conto che la polis di cui siamo parte si estende all'intero pianeta, dobbiamo passare da una dimensione politica ad una cosmopolitica. I cosiddetti "interventi umanitari" costituiscono una prima inadeguata risposta in questo senso, ma la strada da fare è ancora molta. L'attacco terroristico agli Stati Uniti dovrebbe aver convinto anche i più recalcitranti che nessuno può più pensare di rinchiudersi nel proprio guscio: finché nel mondo ci saranno focolai di tensione nessuno potrà più sentirsi sicuro.

Il secondo problema è stato, almeno in Europa, affrontato con maggiore consapevolezza, anche per la necessità di coinvolgere i cittadini europei nella costruzione di forme e processi istituzionali che consentano all'Unione di diventare un soggetto politico a tutti gli effetti. Il lavoro di elaborazione che ne è seguito ha prodotto il "Libro bianco sulla governance europea". Su tale libro bianco la Commissione ha aperto una discussione in rete che, per certi aspetti, può essere considerato un interessante esperimento in vista del contributo che le nuove tecnologie possono dare allo sviluppo del processo democratico.

Il libro bianco presenta proposte sulla carta molto interessanti, in particolare quelle relative alla maggiore partecipazione della società civile (che "comprende le organizzazioni sindacali e le associazioni padronali, le organizzazioni non governative, le associazioni professionali, le organizzazioni di carità, le organizzazioni di base, le organizzazioni che cointeressano i cittadini nella vita locale e comunale, con un particolare contributo delle chiese e delle comunità religiose." come ricorda una nota), al rafforzamento del metodo della consultazione e del dialogo ed infine al contributo dell'Unione alla governance mondiale.

Lo sforzo sembra positivo e animato dalle migliori intenzioni, anche se non manca chi vi ha visto una sorta di "tranello" per espropriare il popolo della sua sovranità (cfr. l'articolo di B. Cassen, su Le Monde diplomatique, giugno 2001); tali preoccupazioni sono sicuramente frutto di una lettura del documento in larga misura prevenuta, che ignora l'inadeguatezza delle forme e delle istituzioni politiche rispetto ai tempi, ma sono anche il segno dei margini di ambiguità e di incertezza che il concetto stesso di governance porta ancora con sé.

Ci si può chiedere se in questo contesto sia opportuno che l'impresa si assuma responsabilità politiche dirette. Di fatto le imprese, almeno quelle di una certa dimensione, responsabilità simili le hanno assunte da tempo, in modo più o meno palese e con strumenti più o meno previsti dalla legislazione dei vari paesi (si vedano per esempio le lobbies, rigorosamente regolamentate dalla legislazione americana e ignorate da quella italiana), pur non figurando mai o quasi mai come soggetto politico diretto. Va anche detto però che sempre più spesso i processi decisionali nelle imprese sembrano obbedire a criteri di carattere meramente finanziario, più che ad una vera propria logica d'impresa: si è verificata una sorta di capovolgimento dialettico per cui quello che in origine era solo uno strumento per procacciare all'impresa le risorse necessarie alla sua attività, domina oggi tutte le attività economiche e le imprese divengono meri strumenti asserviti all'attività finanziaria. Non di rado è accaduto che attività produttive floride e sane finissero sacrificate da spericolate operazioni finanziarie. È un errore trarre spunto da episodi del genere per demonizzare il mondo imprenditoriale, ma sarebbe ugualmente un errore delegare alle imprese compiti e funzioni politiche senza inserirle in un sistema di controlli e contrappesi.

È vero che l'impresa del terzo tipo auspicata dal prof. Laszlo può e deve intervenire per contribuire a risolvere almeno alcuni dei gravi problemi che affliggono il mondo; ed ha anche interesse a farlo: il fatto per esempio che un terzo dell'umanità viva al di sotto dei limiti della sussistenza, oltre ad essere una tragedia umanitaria è anche un grave problema economico, il sistema delle imprese sarebbe il primo a trarre vantaggio dall'inserimento nell'economia di mercato di una così grande massa di persone. Ma è anche vero che l'incidente, se non la tentazione della scorciatoia più o meno furbesca, è sempre in agguato (da Bhopal al Lipobay gli esempi non mancano), per cui anche l'impresa, come ogni istanza che ha la possibilità di far sentire la propria voce e di far pesare il proprio parere, va inserita in un sistema di controlli che scoraggi gli abusi e che renda possibile la correzione degli errori. La soluzione prospettata dal libro bianco dell'UE, inserendo le imprese in un contesto che vede presenti anche le organizzazioni dei lavoratori e dei consumatori, sembra rispondere anche a queste esigenze.

In linea di principio la proposta europea sembra soddisfare le esigenze di "contare di più" che emergono dai settori più dinamici e propositivi della società civile, anche se permangono qua e là ambiguità ed incertezze: sarà una mera operazione di facciata o si riuscirà effettivamente a realizzare una più attiva e responsabile partecipazione di tali settori ai processi decisionali? Le modalità di presentazione della proposta lasciano bene sperare, ma non si può escludere che il prevalere di tendenze conservatrici finisca per svuotarla dei contenuti più significativi.


 

v-grigia.gif (82 byte) Potrebbe un esperimento distruggere la Terra?

 Links: 

Opinioni riguardo al servizio mandato in onda dalla trasmissione RAI "Report" nella puntata del 5 novembre 2000

Interventi

right-sfondochiaro.gif (838 byte)Continua


25 novembre 2001
From: Gian Maria BORRELLO
Subject: Opinione sul servizio di Report

Quello che dice Bruschi mi sembra assurdo e mi è piaciuta la risposta che gli dà De Rujula parlando del rinoceronte volante.


25 novembre 2001
From: Luigi FOSCHINI
Subject: Opinione sul servizio di Report

Condivido anche io l'impostazione di De Rujula sul rinoceronte volante. Per la scienza, probabilità zero vuol dire che è quasi impossibile che accada l'evento in questione. Il Sole ha probabilità zero di non sorgere domattina. Però, un conto sono le statistiche scientifiche, un altro è la percezione del rischio da parte della gente. In questo caso, si può dire che probabilmente l'uomo non ha timore delle cose che è convinto di potere controllare, mentre la paura si scatena per le altre. Così la gente non ha paura di andare in automobile, mentre una certa ansia assale il passeggero di un aereo, anche se le statistiche ci dicono che è molto più sicuro viaggiare in aereo che in automobile (nonostante i terroristi). La gente ha paura del cosiddetto elettrosmog, ma non del telefonino cellulare, e scarica le paure su ripetitori, antenne, e linee dell'alta tensione (ma non molla cellulare e tv). La gente ha paura del nucleare, ma poi nessuno ha da ridire se gli fanno una radiografia. Si ha paura degli OGM, ma nessuno si preoccupa dei contadini che fanno gli innesti. Gli esempi sono tanti.

Dubito che la conoscenza sia un fattore determinante: sanno tutti che fumare provoca il tumore ai polmoni, c'è pure scritto sui pacchetti di sigarette, ma la gente fuma lo stesso. Poi si dice che forse c'è qualche probabilità che mangiando una bistecca si contragga la BSE e la gente non compra più bistecche.

E' importante che la gente sia convinta di poter controllare gli eventi, non tanto che sia effettivamente in grado di farlo: un ubriaco è convinto di poter guidare un'automobile, il fumatore è convinto di poter smettere in qualunque momento. Non è un caso che gli incidenti avvengano proprio quando la gente pensa di essere al sicuro e abbassa la guardia.

I fattori psicologici, quindi personali, sono determinanti in questo genere di cose: scienza e conoscenza hanno un impatto non determinante. Oltre alla convinzione del controllo, si può anche aggiungere come la gente si rapporta al dolore e alla morte. Proprio recentemente è accaduto un fatto interessante riguardo la percezione del rischio da impatto con un asteroide o cometa: la maggior parte della comunità scientifica internazionale ha sempre considerato come priorità lo studio degli asteroidi di dimensioni superiori al chilometro, capaci di causare una catastrofe globale. Corpi più piccoli sono stati considerati trascurabili: l'evento Tunguska del 30 Giugno 1908, causato da un asteroide di 60 metri di diametro e avendo prodotto una catastrofe su scala locale, è stato classificato ben lontano dalle priorità. Poi, poche settimane fa, Clark Chapman del SWRI (USA), noto per i suoi studi sulle probabilità di impatto, ha fatto "retromarcia", riconoscendo che per la gente è molto più importante un evento Tunguska, che può distruggere "solo" una città, ma lasciando il resto del mondo lì a vedere il disastro. In fondo è come quando si stipula un'assicurazione: il premio è più alto in caso di invalidità, piuttosto che di morte. La gente ha più paura di sopravvivere e di soffrire, che di morire in un sol colpo.


25 novembre 2001
From: Domenico LANFRANCHI
Subject: Opinione sul servizio di Report

Premesso che non sono un fisico, vorrei sapere sulla effettiva pericolosità dell'esperimento il parere di un vero esperto (p.es. che dice sull'esperimento Carlo Rubbia?). In linea puramente teorica nessuno può escludere che le molecole che costituiscono la casa in cui abito nei loro moti casuali ad un certo punto si mettano a vibrare tutte nello stesso senso, nella stessa direzione e con la stessa frequenza e la casa si sbricioli, ma è ragionevole supporre che ciò possa accadere?

Fra le righe i conduttori della trasmissione sembrano suggerire che spendere denaro pubblico per la ricerca pura con tutti i problemi che ci sono è buttare soldi al vento; oltre che idiota (dal greco "idiotes", che si occupa solo degli affari propri, contrapposto a "polites", che si occupa anche degli affari della polis) un simile atteggiamento è profondamente sbagliato: molte scoperte da cui sono poi derivate invenzioni che hanno migliorato notevolmente la nostra vita sono nate da ricerche che inizialmente non avevano alcuna applicazione pratica, si pensi all'uso delle radiazioni nella cura dei tumori; fra l'altro in un paese come il nostro agli ultimi posti tra i paesi industrializzati per gli investimenti nella ricerca un discorso del genere è anche irresponsabile (nel senso che produce danni di cui chi ha fatto il discorso non può essere chiamato a rispondere).

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