Interventi al Forum nel mese di Gennaio 2001

Gli interventi di:
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From: giacomo correale  <correale@t...>
Date: Sun Jan 7, 2001 8:15pm
Subject: SEAT

I diversi interventi comparsi ultimamente sul tema dell'imprenditorialità responsabile mi hanno suscitato una tale selva di riflessioni, che non sono riuscito finora a selezionare quelle che potevano meritare di essere espresse.

In cambio, allego una lettera che ho scritto a La Repubblica sul caso SEAT, che non so se verrà pubblicata, me che credo possa fornire degli spunti "realistici" sull'argomento dell'imprenditorialità. Mi piacerebbe sentire un po' di opinioni in proposito.

Buon 2001 a tutti

Giacomo Correale Santacroce

Monza, 7 gennaio 2001

Al Sig. Ezio Mauro

Direttore de La Repubblica

e al Sig. Giovanni Pons

Collaboratore de La Repubblica

 

Caro Direttore,

Ho ritagliato la pagina n. 43 di Affari & Finanza del 18 dicembre 2000, per poter riflettere con calma sull’articolo a firma Giovanni Pons (anche al quale è ovviamente destinata questa lettera), dal titolo "Seat, in tre anni Huit incassa 28 volte il capitale".

Due sono i dati che mi colpiscono perché apparentemente inconciliabili:

1. il fatto che coloro che "hanno messo 450 miliardi nella Seat tre anni fa, nel novembre 1997, ora si trovano, miliardo più miliardo meno, 13 mila miliardi";

2. il fatto che la Seat, definita nell’articolo "una gallina dalle uova d’oro", abbia dato nel 1997 un utile di 150 miliardi, e nel 1999 di 275 miliardi.

Può anche esser vero che nel 1997 "il business plan di Pelliccioli presentava ampi margini di miglioramento", ma tra i dividendi che la gestione Seat in quanto tale ha generato e potrà aleatoriamente generare, diciamo anche in una decina di anni, e i dividendi già distribuiti dalle società promotrici dal ’97 al 2000, c’è una straordinaria sproporzione. Si è parlato di "leveraged buyout". Forse, nella mia ingenuità e incompetenza, non ho tenuto conto dei miracoli che può produrre il leverage buyout. Io credevo che questa espressione avesse a che fare con la capacità di manager dotati di spirito imprenditoriale di rilevare o finanziare, con un investimento limitato di mezzi propri, business con grandi potenzialità latenti, di farli fiorire o rifiorire, e di trarne quindi un rilevante, ma "giusto" profitto. Per quanto rischioso, tutto ciò può produrre valore per tutti coloro che hanno scommesso sull’iniziativa. Se l’iniziativa fallisce, i manager/imprenditori che l’hanno proposta e guidata sono destinati a pagarne anch’essi lo scotto.

Non mi sembra che l’operazione Seat risponda a questo modello. Pur non volendo tener conto dei giudizi, forse malevoli ma forse plausibili, espressi dal Wall Street Journal sulla Seat-Tin.it, e pur tenendo conto dei limiti di qualsiasi modello, mi sembra che le operazioni condotte intorno alla Seat possano essere definite non un leverage buyout, ma piuttosto una grande manovra speculativa a somma zero, con alcuni che guadagnano cifre spropositate e tutti gli altri che ne perdono altrettante. L’operazione infatti, oltre a "lasciare a bocca asciutta il fisco", in quanto tutto si è svolto nel paradiso fiscale lussemburghese, si è conclusa senza apparenti prospettive di recupero a danno di migliaia di risparmiatori, molti dei quali credevano di trovarsi finalmente di fronte a un progetto economicamente serio su cui puntare sul lungo termine.

Sono, queste mie, considerazioni di una persona incompetente o "fuori dal mondo", oppure c’è qualcosa che non va, e che cosa? E, infine, cosa si dovrebbe e potrebbe fare per un capitalismo più capace di produrre valore e accettabile socialmente, specialmente in Italia?

Forse sarebbe utile, tanto per cominciare, sentire la versione dei fatti raccontata da "la mente dell’operazione", cioè Gianfilippo Cuneo, che ho sempre stimato e di cui ricordo, tra l’altro, la presentazione di un libro intitolato "Il fattore fedeltà" (autore FF. Reichheld, Presidente della Bain & Company, ed. Il Sole 24 Ore, 1997), nel quale si teorizza che la creazione di valore per tutti gli stakeholder - clienti, dipendenti, investitori, eccetera - e non il profitto per qualcuno, dovrebbe essere al centro delle finalità aziendali e dell’universo economico.

Cordiali saluti

Giacomo Correale Santacroce

Via Monteverdi 21, Monza

tel. 039 384201

e-mail: correale@tin.it

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LA REPUBBLICA,  SUPPL. AFFARI & FINANZA                       lunedi 18 Dicembre 2000
pag. 43
Seat, in tre anni Huit incassa 28 volte il capitale
GIOVANNI PONS 
Hanno messo 450 miliardi nella Seat tre anni fa, nel novembre ‘97. Ora si trovano, miliardo più, miliardo meno, 13mila miliardi. In pratica hanno moltiplicato per 28 l’investimento iniziale; un record, realizzato attraverso un leveraged buyout. Gli autori dell’operazione, conclusa il 4 dicembre scorso con la vendita dell’ultimo pacchetto di Seat alla Chase Manhattan Bank, sono un gruppo di investitori il cui nucleo centrale ruota intorno al fondo chiuso Investitori Associati e alla Comit che per l’occasione hanno coinvolto la De Agostini. Telecom è presente con il 20% solo in virtù dei contratti pubblicitari e di distribuzione degli elenchi. Al gruppo si uniscono poi altri fondi chiusi come Bain Capital e Bc Partners e investitori come AbnAmro e Sofipa. La mente dell’operazione è Gianfilippo Cuneo, il consulente d’impresa che ha fondato la Bain, Cuneo e Associati e che ha promosso insieme alla Comit il fondo Investitori Associati. Cuneo ha il merito di aver portato nella cordata Lorenzo Pellicioli, il manager con alle spalle un’esperienza alla Manzoni Pubblicità e alla Costa Crociere. Ma ci sono altri protagonisti. In primo luogo l’avvocato Sergio Erede, che affianca la cordata fin dall’inizio (i rumors dicono che abbia investito anche di tasca sua nella Seat) grazie alla sua esperienza in materia di privatizzazioni. Erede ha poi un legame di lunga data con i fratelli Tazartes, Antonio e Alberto, che guidano Investitori Associati e Bc Partners. Alla Comit i protagonisti indiscussi dell’operazione sono Dario Cossutta e Michele Marini. Questo è il quadro degli uomini e delle società che si ritrovano in Lussemburgo per la nascita della Otto che il 25 novembre 1997 si carica in bilancio il 61,27% di Seat pagando al Tesoro 1.580 miliardi, poi rettificati in 1.655 (la valutazione di tutta la società è di 3.202). Di questi solo 450 vengono effettivamente sborsati, mentre i restanti 1.200 miliardi sono presi a prestito; il consorzio bancario è coordinato da Comit. Fin da subito si capisce che Seat è la gallina dalle uova d’oro. Il bilancio ‘97 mostra 1.700 miliardi di ricavi e circa 150 di utile ma il business plan di Pellicioli presenta ampi margini di miglioramento. Nella primavera del ‘98 la Ottobi (controllata da Otto) lancia l’Opa sul 38% della Seat non ancora posseduto. La Borsa fiuta l’affare e la quotazione schizza ben oltre il prezzo (710 lire) dell’offerta, che va deserta. Tenendosi le azioni Seat il mercato ha così diviso con gli investitori della Otto i guadagni della Seat. E soprattutto gli incredibili dividendi che Pellicioli ha poi distribuito. La fusione di Ottobi con Seat ha creato riserve in eccesso, trasformate in dividendi straordinari. Nel ’99 tra utili e riserve Pellicioli distribuisce ai propri azionisti 2.038 miliardi, di cui 1.243 ai soci della Otto. Ma gli incassi non finiscono qui. Nella primavera 1999 la Lehman Brothers colloca presso investitori istituzionali l’11% di Seat per 940 miliardi; il secondo dividendo straordinario arriverà nel 2000 (esercizio ‘99) e sarà di 1.123 miliardi (quasi 600 di competenza dei soci Otto, diventata Huit). A conti fatti con i due dividendi straordinari e il collocamento dell’11% gli investitori della Otto si ripagano il debito, gli interessi, le spese e le commissioni alle banche d’affari. Siamo così a metà dell’opera: rimane da vendere il 51% di Seat ormai a secco di debiti. Pellicioli è lesto a fiutare il vento di Internet e a proiettare la Seat verso la new economy. Alla fine del ‘99 Piazza Affari valuta Seat 22mila miliardi, 12 volte il fatturato (nel frattempo arrivato a 1.900 miliardi) e 80 volte gli utili (cresciuti a 275 miliardi). Pellicioli lancia un’Opa sulla Buffetti, il titolo sale ancora e la Huit è pronta a collocare un’altra tranche di azioni Seat quando sulla scena irrompe Roberto Colaninno: il suo consigliere nella Telecom, Erede, che per l’occasione è anche vicepresidente Seat, gli ha ricordato che la società telefonica possiede il 20% della Huit. Di un possibile matrimonio tra Seat e Tin.it avevano già parlato Tazartes ed Emilio Gnutti, socio di Colaninno nella Hopa e anche azionista di Investitori Associati. Inizia la trattativa: intorno al tavolo ci sono Colaninno, Erede, Matteo Arpe, Pellicioli e Tazartes. La Otto vuole vendere tutta la partecipazione cash e Colaninno accetta di pagare 13mila miliardi in due tranche: 7.188 a fine luglio dopo l’ok dell’Antitrust e 5.750 a fusione SeatTin.it conclusa. In cambio la Telecom ottiene di valutare la divisione Tin.it alla pari con Seat, che nel frattempo vale 40mila miliardi in Borsa. Con la girata dell’ultimo pacchetto, il 4 dicembre, dalla Huit alla Chase Manhattan (che ha sborsato 5.750 miliardi per conto di Telecom in cambio di un premio di 1.500 miliardi in 5 anni), si conclude uno dei più grandi leveraged buyout europei. I 450 miliardi iniziali sono diventati poco meno di 13mila. A Pellicioli, in cambio della gestione di tutta l’operazione, viene riconosciuto un premio di circa 170 miliardi. La De Agostini, che a metà corsa ha portato la propria quota nella Huit al 25%, esce con una plusvalenza di 4mila miliardi, la Comit di circa 2.500. L’unico a restare a bocca asciutta è il fisco: le società lussemburghesi come la Huit, a certe condizioni, non pagano imposte sulle plusvalenze.

From: FGB Staff  <staff@f...>
Date: Wed Jan 10, 2001 4:56pm
Subject: "Fuori dal mio orticello"

 

Vittorio Bertolini ci segnala  l'articolo seguente: "Fuori dal mio orticello" (La Stampa, 9 gennaio).
Riferendosi ai contenuti dell'articolo, Bertolini ritiene che «l'idea di sottoporre ad una pubblica discussione non tanto la scelta, quanto i criteri con cui scegliere possa avere una valenza che va al di là del caso singolo (discarica).»

Cordiali saluti

--- lo Staff della Fondazione Giannino Bassetti ---

N.B. Nelle News, sul Sito, sono presenti aggiornamenti: <https://www.fondazionebassetti.org> => News

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Fondazione Giannino Bassetti - STAFF
<https://www.fondazionebassetti.org> => info
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From: Dado  <fasolo@u...>
Date: Sat Jan 20, 2001 10:58am
Subject: Tecnica o tecnicismi ?

 

Un articolo di presentazione del libro di Michela Naucci:
"Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni", Laterza, Bari, 2000.
scritto nel Domenicale de Il Sole 24 Ore (14 gennaio 2001, pag. 34) ,
da Umberto Bottazzini, mi offre lo spunto per riprendere la discussione
sul problema della tecnica iniziato nel forum SWIF-discussioni
( http://www.egroups.com/group/swif-discussione/ )
e poi portato avanti nel forum della Fondazione Bassetti
( http://www.egroups.com/group/fondazionebassetti/ ).
Una sintesi delle discussioni avvenute si trova nel Percorso
"Tecnica e Responsabilità" presente all'interno del sito della
Fondazione Bassetti:
www.fondazionebassetti.org/0due/percorsi/01tecnica-responsabilita.htm

Ma veniamo all'articolo in questione riportato alla fine della mail,
che riprendendo il pensiero sviluppato da Michela Nacci si chiede:
"Come è stata percepita e interpretata la tecnica dagli intellettuali
del Novecento?"
Gianni Vattimo nella prefazione del libro fornisce una prima risposta:
"il problema della tecnica non è un problema tra gli altri, sia pure
importante, delle riflessioni del Novecento, ma è il tema dominante,
per lo più esplicito ma presente anche la dove non appare, di tutta
la riflessione e della cultura del secolo".

All'autrice preme mostrare come la Tecnica sia vista dalla
maggior parte dei pensatori che hanno affrontato il problema
(scrittori e filosofi, da Spengler ad Heidegger e Hannah Arendt,
da Mumford a Wells e Orwell, a Horkheimer e Adorno, a Lyotard
e lo stesso Vattimo), come una minaccia e un pericolo per
l'essenza stessa dell'uomo e della natura, un pericolo che
l'uomo deve affrontare in modo responsabile se non vuole mettere
a repentaglio la sua esistenza e quella del mondo.

L'autrice mette in discussione il modo in cui gli intellettuali del
secolo appena concluso hanno affrontato la questione.
Questi avrebbero colpevolmente attaccato "la Tecnica" come
fosse un grosso mostro colpevole dei mali del mondo, senza
comprendere che è assai limitante ridurre la molteplicità delle
tecniche ad un concetto generale e alla fin fine vuoto quale
"la Tecnica".

L'intellettuale dovrebbe affrontare la questione senza astrarsi
da quella molteplicità di forme attraverso le quali la tecnica si
esplica e attraverso le quali produce innovazione.
Solo l'intellettuale di formazione scientifica potrebbe allora dire
la sua in modo consapevole, da qui il riferimento a personaggi
quali von Neumann (uno dei padri della bomba atomica) e
Wiener (il teorico della cibernetica).

A mio parere, se il riferimento a pensatori che vivono i
problemi della scienza e della tecnica "dall'interno" è importante,
è fondamentale al fine di elaborare una visione globale del
problema, e non cadere nel "tecnicismo", riuscire ad astrarsi
dalle questioni delle tecniche (pur tenendole in considerazione
in una precomprensione conoscitiva) ed elaborare una teoria
generale della Tecnica che entri in relazione con questioni
decisive, quali il suo rapporto con la società, la politica, l'etica
e la cultura.
Solo in questo modo la Tecnica non sarà vista come un concetto
isolato dal mondo, una questione per tecnici, me legato alle
problematiche reali della quotidianità e del mondo reale.

Voi cosa ne pensate?
Ogni contributo alla discussione è benvenuto.

Saluti da Davide Fasolo
http://helios.unive.it/~fasolo/


Sulla Tecnica solo cattive idee di Umberto Bottazzini

Come è stata percepita e interpretata la tecnica dagli intellettuali del
Novecento? Ecco la domanda alla quale cerca di rispondere il libro
di Michela Nacci. La questione è tutt’altro che peregrina. Anzi, ha
ragione Gianni Vattimo ad affermare nella prefazione di questo libro
che “il problema della tecnica non è un problema tra gli altri, sia
pure importante, delle riflessioni del Novecento, ma è il tema
dominante, per lo più esplicito ma presente anche là dove non
appare, di tutta la riflessione e della cultura del secolo”. Salvo rare e
occasionali eccezioni appartenenti al mondo della scienza, gli
intellettuali cui Nacci pensa e dà voce sono rappresentanti, grandi e
piccoli, della cultura umanistica. In primo luogo scrittori e filosofi,
da Spengler ad Heidegger e Hannah Arendt, da Mumford a Wells e
Orwell, a Horkheimer e Adorno, a Lyotard e lo stesso Vattimo. Sono
insomma gli esponenti di quella cultura “che più di ogni altra si è
sentita minacciata dalla tecnica”. Facendo propria la tesi di
Heidegger che “l’essenza della tecnica non sia qualcosa di
tecnico”, filosofi e sociologi vi hanno tutti cercato un’essenza.


Da questo punto di vista, le diverse tecniche che si sono succedute
nella storia si sono così ridotte a essere la tecnica. Le differenze
sono state banalizzate in categorie generalissime come la tecnica
antica e la tecnica moderna come se, in particolare, si potesse
parlare al singolare di tutte le tecniche moderne. Queste ricerche
sull’essenza della tecnica, pur con diverse sfumature, hanno
portato tutte alle stesse conclusioni. Che la tecnica “è coeva del
costituirsi del mondo o natura in oggetto e dell’uomo in soggetto”.
Che la tecnica nasce con la modernità, e la sua essenza stessa è
sinonimo di modernità. E la modernità è descritta coi caratteri della
precisione, della matematizzazione, dell’oggettività, del dominio,
dello sfruttamento, del progresso, della democrazia e della sua
antitesi. Come la modernità, la tecnica celebra i fasti del progresso e
delle conquiste dell’uomo sulla natura, induce a un consenso
dettato dai miglioramenti delle condizioni di vita. Alla critica della
modernità si sovrappone la critica della tecnica. Così la tecnica è
stata vista di volta in volta come nichilismo, come contrapposta al
pensiero. È stata considerata come complice o responsabile di
società totalitarie e oppressive, addirittura della fine della civiltà
occidentale.


Emblematico è il caso della radio, che dagli anni Venti al secondo
dopoguerra, fino al trionfo della televisione, è stata per così dire
l’incarnazione della tecnica presso intellettuali e pubblico. “Anche i
nazisti sapevano che la radio dava forma alla loro causa come la
stampa alla Riforma”, hanno scritto Horkheimer e Adorno in
Dialettica dell’Illuminismo, un testo che è ormai un classico della
filosofia del Novecento. Nella Germania nazista “la radio diventa la
bocca universale del Führer”. Nelle società capitalistiche “il diktat
della produzione” che la radio veicola “mascherato dalla parvenza
di una possibilità di scelta, la réclame specifica, può trapassare
nell’aperto comando del capo”. Per Horkheimer e Adorno la radio
esemplifica la tesi della sostanziale identità tra regimi autoritari come
il nazismo e società capitalistiche, dove il dominio del profitto non è
che un travestimento della stessa illibertà che caratterizza i primi,
dove non c’è libertà di scelta perché non ci sono differenze in
quello che viene offerto. Nell’opera di Horkheimer e Adorno,
osserva Nacci, la radio si carica di valori e (pre)giudizi che
anticipano solo di pochi anni giudizi analoghi enunciati (da Popper,
per esempio) sulla televisione, mentre alla sua perniciosa influenza
viene curiosamente contrapposta la radio, quale modalità di
comunicazione non totalizzante. Se in generale gli intellettuali
hanno giudicato la tecnica in maniera negativa, non sono mancate,
d’altra parte, valutazioni positive e quasi entusiaste.

La tesi di Nacci è che “salvo poche eccezioni, la filosofia di questo
secolo ha interpretato la tecnica in modo distorto, deformato: ne ha
fatto il demiurgo onnipotente che può tutto in ogni situazione”. Si
può essere d’accordo con Michela Nacci quando sostiene che gli
intellettuali del Novecento “non hanno capito la tecnica”. E che
sopra di essa hanno creato una quantità di equivoci e
fraintendimenti. Gli argomenti che porta in questo volume sono
convincenti, al punto da spingere Vattimo a “cercarne una
conciliazione almeno con gli aspetti meno tecnofobici del pensiero
heideggeriano”. La via indicata da Vattimo è di pensare che “se c’è
un’essenza della tecnica, essa consiste proprio nel disseminarsi in
molteplici tecniche irriducibili a unità”.

Le domande poste da Nacci si traducono in nuove domande. “Per
pensare la tecnica in modo "adeguato" si chiede Vattimo abbiamo
bisogno solo di liberarci del mito di una sua essenza unitaria, o
anche di una prospettiva che ne colga la portata complessiva in
quanto fonte di trasformazioni epocali?”. Secondo Vattimo, cui “sta
a cuore” salvare la tesi di Heidegger, si possono trovare in alcune
pagine del filosofo tedesco “elementi non trascurabili” per
cominciare a dare una risposta. Per chi non si limita a “sospettare di
ogni ontologia della tecnica”, come è solo tentata di fare Michela
Nacci, ma crede che quella non sia la strada da percorrere, si tratta
di cambiare radicalmente il punto di vista, di cominciare a guardare
alla tecnica, o meglio, alle tecniche, dal punto di vista degli uomini
di scienza. Abbandonando l’idea tradizionale e semplificatrice che
la tecnica sia subordinata alla scienza, che sia la traduzione in
pratica di scoperte e teorie scientifiche, e cominciando a indagare le
reciproche interazioni tra scienza e tecnologia. Per esempio, di
fronte a una trasformazione davvero epocale come quella prodotta
dalle moderne tecnologie informatiche, come sono cambiate le
forme del conoscere? Che cosa hanno detto intellettuali come von
Neumann e Wiener, per citare due tra i padri dei moderni computer?
Cosa hanno da dire intellettuali di formazione scientifica? “Per
essere all’altezza della tecnica complessa nella quale viviamo senza
saperlo conclude Nacci sarebbe indispensabile formare un sapere
nel quale la competenza tecnologica non sia separata da altri saperi,
come di fatto continua ad accadere”. Non si può non essere
d’accordo. Si tratta di passare dal condizionale all’indicativo.

Michela Nacci, “Pensare la tecnica. Un secolo di
incomprensioni”,Laterza, Roma-Bari2000,pagg. 344, L. 48.000.

14 gennaio 2001

From: Alberto Biuso  <biusoal@m...>
Date: Sun Jan 21, 2001 4:53pm
Subject: Re: [swif-discussione] Tecnica o tecnicismi ?

 

-----Messaggio originale-----
>Da: Dado <fasolo@u...>
>A: fondazionebassetti@egroups.com <fondazionebassetti@egroups.com>
>Cc: swif-discussione@egroups.com <swif-discussione@egroups.com>
>Data: sabato 20 gennaio 2001 11.59
>Oggetto: [swif-discussione] Tecnica o tecnicismi ?
>
>
>Un articolo di presentazione del libro di Michela Naucci:
>"Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni", Laterza, Bari, 2000.
>scritto nel Domenicale de Il Sole 24 Ore (14 gennaio 2001, pag. 34) ,
>da Umberto Bottazzini, mi offre lo spunto per riprendere la discussione
(...)
>A mio parere, se il riferimento a pensatori che vivono i
>problemi della scienza e della tecnica "dall'interno" è importante,
>è fondamentale al fine di elaborare una visione globale del
>problema, e non cadere nel "tecnicismo", riuscire ad astrarsi
>dalle questioni delle tecniche (pur tenendole in considerazione
>in una precomprensione conoscitiva) ed elaborare una teoria
>generale della Tecnica che entri in relazione con questioni
>decisive, quali il suo rapporto con la società, la politica, l'etica
>e la cultura.
>Solo in questo modo la Tecnica non sarà vista come un concetto
>isolato dal mondo, una questione per tecnici, me legato alle
>problematiche reali della quotidianità e del mondo reale.
>
>Voi cosa ne pensate?
>Ogni contributo alla discussione è benvenuto.
_____________________________________________

Solo poche e brevi osservazioni (credo, infatti, che la comunicazione in
Rete debba sempre essere quanto piu' agile possibile).

1. Concordo con la necessita' di andare oltre ogni tecnicismo se si
vuole capire un fenomeno così universale e radicale come la Tecnica.

2. In Heidegger non c'e' solo la critica alle modalita' con le quali la
tecnica diviene sempre piu' dominante sulle nostre vite; c'e' anche la
esplicita ammissione della sua necessita'. Ad esempio nella *Lettera
sull'umanismo* la tecnica viene vista -oltre ogni riduzionismo
scientista ma anche contro ogni demonizzazione- come una forma della
verita' che ha il suo fondamento nella storia della metafisica, a sua
volta unica fase della storia dell'essere "che possiamo abbracciare con
il nostro sguardo" (In *Segnavia*, Adelphi 1987, pag. 293).

3. Le tesi di Horkheimer e Adorno non mi sembrano neanch'esse
pregiudizialmente contrarie alla tecnica ma solo avvertite della sua
dimensione alienante. Verso la tecnica, le scienze, il dominio, i
francofortesi invitano a praticare sempre "lo sforzo di resistere alla
suggestione, la decisione della liberta' intellettuale e reale"
(*Dialettica dell'Illuminismo*, Einaudi 1982, pag. 261).

4. Un testo che affronta con equilibrio e acutezza il tema e' *Tecnica e
metafisica. Saggio su Heidegger* di Eugenio Mazzarella, Guida 1999.

Ciao,
Alberto Biuso
biusoal@m...
http://www.beccaria.mi.it/beccarioti/biuso/filosofia.htm
fax: 02.700.425.619

From:   <aamato@s...>
Date: Mon Jan 22, 2001 9:32am
Subject: Desiderio e scienza

 

Sono affascinato dal tema proposto dagli ultimi interventi al Forum.
In prima battuta proporrei di spostare l'accento dai rapporti tra scienza e tecnica a quello dei rapporti tra scienza pura e scienza applicata. Su questo punto, credo che dovremmo tener presenti due orientamenti di base: 1) che le differenze tra i due campi scientifici sopra indicati si stanno riducendo sempre più, sia perchè si sono ridotti i tempi della ricaduta tecnologica di alcune scoperte scientifiche, sia perchè si tende sempre più a finanziare i programmi scientifici più immediatamente promettenti; 2) che, nonstante questo riavvicinamento, dovremo ugualmente assegnare un diverso statuto e diversi compiti ai due suddetti campi, per il fatto che la ricerca pura continua ad assumere un maggior spessore teorico, cioè pone delle premesse ed indica una prospettiva, o, il che è lo stesso, presume di dominare il presente (ricaduta tecnologica) ed il futuro.
Concordo con l'affermazione di Vattimo circa il carattere "dominante" di questo tema nel dibattito filosofico (e non solo filosofico), io dico, degli ultimi due secoli. Sono in parte d'accordo anche con alcune puntualizzazioni addotte da Vattimo in ordine al carattere "essenziale" del ruolo della tecnica, nel senso che se dobbiamo temere una certa tendenza ad una "volontà di potenza" da parte della scienza, questa, in realtà, fa capo ad un fattore ancora più fondamentale, costituito dal soggettivismo, ed io aggiungo, in termini più aggiornati, dalla desideratività individualistica dell'uomo moderno. Ma attenti a non distinguere nettamente tra attori e strumenti (l'uomo il primo, la scienza i secondi), perchè, come ci ha insegnato lo strutturalismo, in una relazione strutturata i fattori si influenzano a vicenda, dialetticamente. Ma, allora, come ci suggerisce Davide Fasolo, occorre intervenire su ambedue i versanti della struttura: la prospettiva individualistica dell'uomo moderno, ossia il suo progetto complessivo; le direttrici specifiche assunte dalla ricerca scientifica. Ora, finchè prevarrà il desiderio individualistco (non il dsiderio in sè), sarà inevitabile la rincorsa ed il sorpasso in tal senso da parte della scienza. Ma se guardiamo all'uomo moderno e alla scienza in termini non unilaterali (insieme alla spinta desiderativa si avverte un profondo disagio, ed insieme alla scienza consumistica ve n'è un'altra eticamente più responsabile e problematica), allora, nel caso in questione, dobbiamo chiederci se la scienza, la scienza più avvertita, può contribuire all'individuazione di nuove priorità. IO credo di sì, e qui va notato il colpevole o comodo tirarsi fuori da parte della filosofia rispetto ad un dibattito che individui orientamenti propositivi e positivi. Questo dibattito, come dice D. Fasolo, non compete solo agli scienziati, ma compete anche ad essi. Anzi, è auspicabile che gli scienziati siano coinvolti e siano sottratti alla torre d'avorio tecnicistica.
Andrea Amato

From: Dado  <fasolo@u...>
Date: Tue Jan 23, 2001 4:22pm
Subject: Il caso "Microsoft" continua

 

Qualche mese fa, era in atto nel forum una discussione intorno
alla storia recente della Microsoft.
La società di Bill Gates era incappata in una causa antitrust presso i
tribunali americani, una battaglia legale che è ancora in piedi.
Una sintesi della discussione si trova presso il sito della Fondazione
Bassetti nel Percorso sul caso "Microsoft" :
www.fondazionebassetti.org/0due/percorsi/01microsoft.htm

Ora ho trovato un interessante articolo che riprende queste tematiche
e che potrebbe riaprire il discorso lasciato aperto.

Saluti da Davide Fasolo

Domenica 21 Gennaio 2001
-Il Sole 24 Ore - Domenicale (Economia e Societa') - pag. 30

Tutti i punti deboli dell'invincibile Bill

Le vicende Microsoft dividono di nuovo
gli Usa: Ken Auletta viviseziona la battaglia
con il Governo, il film «Antitrust» fa la parodia
di Marco Valsania

«Erano gente incurante. Distruggevano cose e persone e poi si ritiravano
nel loro denaro e nella loro vasta noncuranza». La citazione è tratta dal
Grande Gatsby, l’epopea del sogno americano nell’altra era dei grandi
eccessi, gli anni Venti della "Jazz Age". Ma per Ken Auletta potrebbe
riassumere anche la grande odissea della nuova epoca high-tech, quella
di Microsoft e del suo leader carismatico Bill Gates assediati dal Governo
e dai concorrenti. World War 3.0, (La Guerra Mondiale 3.0) dalla parafrasi
del sistema operativo Windows che ha fatto la fortuna di Microsoft, è
fresco di stampa. E rivela il rapporto di amore-odio che l’America ha
stabilito con il personaggio Gates: simbolo del successo — resta uno
degli imprenditori più ammirati — ma incarnazione di pericolosi e indomabili
monopoli. Invidiabile nei panni di uomo più ricco del mondo e allo stesso
tempo detestabile con la corona di imperatore privo di scrupoli.

Il Grande Gatsby è anche il libro preferito di Gates, che ha scelto
un’ottimistica frase — sui sogni ancora da realizzare — per inciderla
nella sua fantascientifica villa. Più appropriate alle recenti disavventure
del colosso del software sono però le parole pescate da Auletta.
L’autore degli Annali della Comunicazione sulla prestigiosa rivista
«New Yorker» trova in una miscela di arroganza e auto-isolamento,
calcoli errati e ingenuità legali la risposta alla maledizione che sembra
aver colpito Gates. Una "maledizione" che ha visto un giudice di primo
grado condannare l’azienda per violazioni delle leggi antitrust,
ordinandone lo smembramento.

Il caso Microsoft — con le sue lezioni per gli imperi nella nuova economia —
non ha stregato solo Auletta. In Pride before the Fall (L’orgoglio prima della
caduta) John Heilemann, inviato della rivista specializzata «Wired», segue
con occhio da insider di Silicon Valley la parabola del processo. Né mancano
i tentativi di parodia: sugli schermi cinematografici è uscito Antitrust,
thriller
che ha per protagonista Tim Robbins nel ruolo di un magnate del software
capace di ammazzare giovani programmatori per completare un super-progetto
di comunicazione satellitare. Occhiali, temperamento volatile, villa e
campus-azienda fanno senza troppe remore il verso a Gates. E la batteria di
"uscite" da sola illustra il peso della vicenda Microsoft, non solo per un
settore
economico chiave, ma per la società e l’immaginario collettivo americani: il
principale caso antitrust dall’assalto alla Standard Oil di John D. Rockefeller
ha sollevato dibattito su tempi e modalità di gestione della nuova economia,
che marcia al frenetico passo dell’innovazione ma anche di attori sempre più
colossali.

Gli sforzi per fare i conti anche solo con la vicenda Microsoft, però, non
possono che essere provvisori. L’azienda, una delle più grandi e redditizie
del pianeta, è presa tra la concorrenza del nuovo universo "integrato" della
comunicazione e le strategie di riscossa. La battaglia legale è in divenire:
il mese prossimo dovrebbe iniziare l’appello. E a Washington sta subentrando
un’amministrazione repubblicana, che dovrebbe favorire maggior cautrla sul
fronte antitrust, ma che non è detto si disimpegni dal caso Microsoft. I nemici
dell’azienda, suggerisce World War 3.0, non mancano neppure tra i repubblicani.

Il volume di Auletta, tuttavia, ha l’ambizione di offrire una "prima bozza
della
storia", nella vena del giornalismo analitico americano che tenta passi avanti
sulla cronaca. E un obiettivo lo raggiunge di sicuro: ripercorre con lucidità e
spunti di riflessione le tappe, non solo processuali, della "caduta" di
Microsoft
dall’Olimpo. La sua conclusione: difficilmente l’azienda ritroverà le certezze
perdute. Comunque finisca il processo, il suo prestigio e la sua aggressività,
parte integrante del successo aziendale, potrebbero soffrirne. Mentre il rapido
cambiamento nell’high-tech, a colpi di Internet e servizi multimediali, mina il
tradizionale dominio dell’azienda sul funzionamento dei personal computer.
Il capitolo finale merita così un titolo provocatorio: «Microsoft perde
anche se
vince».

Nel ripercorrere la saga, Auletta alterna nuovi particolari sul caso a
ritratti in
presa diretta dei protagonisti, da Gates all’ex capo dell’antitrust Joel Klein.
Il contradditorio carattere di Gates — a tratti leader determinato, altrove
irascibile e immaturo — emerge fin dalla descrizione iniziale di un "incidente"
al summit annuale di Davos nel 1998: uno scatto di nervi in pubblico, per le
critiche rivolte all’azienda durante un seminario, che gela amministratori
delegati e ospiti del convegno. Anche la cultura "militare" dell’azienda è
dipinta a tinte forti: chiusi nel loro campus, i dipendenti si dividono in
squadre
in lotta l’una con l’altra. All’esterno identificano il nemico per
neutralizzarlo.
Questa cultura si rivela però miope all’avvento dell’autostrada elettronica
e la
tardiva e dura offensiva contro Netscape e il suo programma di navigazione
Internet offre le cartucce iniziali alle armi dell’antitrust. Ad un ritiro
di dirigenti
dei media Gates lascia di stucco personaggi della tempra di Ruperth Murdoch
quando minaccia di distruggere tre avversari: con Netscape anche Sun
Microsystems e Oracle.

La svolta processuale arriva da un momento alla Perry Mason: la testimonianza
videoregistrata di Gates in aula. La sua scena muta, "petulante", a colpi
di non
ricordo e dinieghi, ricorda ad Auletta un altro magnate: Rockefeller,
ridimensionato da petroliere d’assalto a imputato titubante. La credibilità di
Gates viene incrinata per conto dell’antitrust da David Boies, il principe
del foro
che ha rappresentato Al Gore nella battaglia elettorale.

Due capitoli spiccano per freschezza narrativa e ricchezza simbolica nella
grande guerra di Microsoft. La mediazione affidata al magistrato Richard
Posner: le parti arrivarono "a cinque parole" da un accordo, prima di un
collasso del negoziato. E l’opinione del giudice di primo grado, Thomas
Penfield Jackson, su Gates: «Se potessi decidere una mia punizione —
ha detto Jackson, accusato da Microsoft di essere prevenuto contro
l’azienda — gli affiderei la recensione di un libro». Quale? Una biografia
di Napoleone.

Ken Auletta, «World War 3.0: Microsoft and its enemies»,
Random House, New York 2001, pagg. 436, $ 27,95;

John Heilemann, «Pride Before the Fall: The trials of Bill Gates
and the end of the Microsoft era», Harper Business, New York 2001,
pagg. 246, $ 25.

From: ilpolitecnico  <ilpolitecnico@t...>
Date: Wed Jan 24, 2001 2:19pm
Subject: R: Desiderio e scienza

 

Sembra che il sapere tecnico non abbia un fondamento in se stesso, la
tecnica o meglio le tecniche rimandano ad una intenzionalita esterna che ne
dovrebbe dare la ragione. Quando però cerchiamo di definire questa
intenzionalità ci accorgiamo che essa rimanda a delle mitologie filosofiche,
scientifiche se non addirittura tecniche.
Che possa essere definita una tecnica dell'uso delle tecniche penso non ci
siano dubbi. Essendo la tecnica un sapere per approssimazione all'oggetto
questa approssimazione può essere estesa ad libitum. e abbiamo visto la
scorsa primavera come questo discorso sulla tecnica conduca a concepire la
politica come tecnica dell'agire sociale.
La tecnica però non riesce a dare una giustificazione alla sua azione che
sia ricompresa in un ambito tecnico. C'è un al di là della tecnica che
dovrebbe contenerne la giustificazione, le leggi e mostrarne il vero
discorso. Questo al di là della tecnica non può essere la scienza anche se
la tecnica rimanda costantemente alla scienza e si nutre dei risultati della
scienza. Paradossalmente si può dire però che la scienza non è
indispensabile allo sviluppo della tecnica ed anche si può dire che la
scienza non è indispensabile alla vita dell'uomo mentre la tecnica si.
Rimane come ultima possibilità di dare un fondamento alla tecnica il
discorso del filosofo. I filosofi però sono stati finora molto esitanti di
fronte alle implicazioni filosofiche della tecnica. La tecnica è il
contingente assurto a universale e questo è difficile da concepire nei
termini del discorso del filosofo.
Lo schiavo diventa padrone del padrone per mezzo della abilità che aquista
nel manipolare la cosa attraverso il lavoro e la tecnica. La maitrise della
cosa che lo schiavo acquisisce attraverso la tecnica (non attraverso la
scienza) è di natura completamente diversa della maitrise del padrone che si
fonda sulla morte. Si può intevvedere in questa doppia via alla maitrise del
mondo un abbozzo di fondazione filosofica della tecnica. La tecnica è
maitrise ed ha un suo fondamento intenzionale irriducibile in quanto
maitrise. Con tutto quel che segue.
Però questo non basta, il discorso del filosofo va oltre. La maitrise del
mondo prodotta attaverso la tecnica è puramente formale. Non c'è un motivo
necessario perchè un prodotto sia costruito in un modo anzichè in un altro.
Non c'è un motivo reale perchè un prodotto sia costruito ed un altro no. Non
c'è una ragione per cui si utilizzi una tecnica ed un'altra no. La tecnica
si risolve insomma in una forma che che viene apposta al mondo. Questa forma
è casuale e viene assunta arbitrariamente come buona finche non se ne trovi
più efficiente. Accettare questo fatto significa rendere la tecnica formale.
Giuseppe Cattaneo

From: Gian Maria Borrello  <borrello@f...>
Date: Thu Jan 25, 2001 4:14pm
Subject: "NetSlaves", ovvero: come avere successo parlando di chi non ne ha

 

Ernesto Assante, su La Repubblica del 14 gennaio 2001:

-- Nel 1998 due giornalisti, esperti di tecnologie e "netheads" della prima ora, decisero di aprire un sito per raccontare finalmente la "verità" sulla Grande Rete, quello che loro in molti anni di lavoro in società come Prodigy, Time Warner o ZiffDavies avevano scoperto, ovvero che nel mondo di Internet «per ogni post adolescente che fa centro al primo colpo con l’azienda fondata nella stanza del college, sono migliaia quelli che falliscono miseramente». Decisero di chiamare il loro sito "Netslaves.com", schiavi del net, forzati della rete, un sito destinato a raccontare, come dice il sottotitolo, "horror stories working the web", storie orribili e tremende di lavoro in rete. Il sito, manco a dirlo, raccolse un successo immediato, e solo un anno dopo Steve Baldwin e Bill Lessard, i due autori, decisero di fare un passo in più e di realizzare un vero e proprio studio, scrivendo un libro. Quel libro, NetSlaves, i forzati della rete, approda dopo qualche anno sugli scaffali delle librerie italiane, in una interessante traduzione per i tipi della Fazi Editore (pagg. 382). Ed arriva in un momento in cui, tra i crolli del Nasdaq e il mito della new economy, l’argomento è particolarmente attuale. --

Trovo che i due articoli qui allegati, tratti da La Repubblica del 14 gennaio, possano suggerire degli spunti interessanti in relazione al concetto di "***responsabilità sociale*** derivante da un'innovazione", che abbiamo discusso in questo Forum, anche in Novembre, nella chiave dell'attività imprenditoriale (v., a riguardo, anche i due Percorsi specifici sul Sito della Fondazione).

Non ultimo, un evidente nesso col Percorso "Internet come innovazione", anche questo frutto del thread qui iniziato, nell'Aprile dell'anno scorso, da Enrico Ferrari (a chi volesse rileggerlo, rammento che gli interventi di Aprile sono pubblicati nel Sito, all'interno della sezione "Forum").

Nel caso di Internet, abbiamo un'innovazione che preme per diffondersi nel tessuto sociale (molti studiosi del fenomeno innovativo ritengono che l'aspetto della "normalità" e quello della "diffusione" di una nuova tecnologia, o di un'attività, rappresentino una caratteristica essenziale per la definizione di un'innovazione).

Buona lettura,

Gian Maria Borrello

 ____________________________________________
 
 Dott. Giovanni Maria Borrello
 (Web Master della Fondazione Bassetti)
 <mailto:borrello@f...
 <http://fondazionebassetti.org/borrello.htm>
 ____________________________________________

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LA REPUBBLICA, 14 Gennaio 2001

"Gli schiavi di Internet"

di Ernesto Assante

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Nel 1998 due giornalisti, esperti di tecnologie e "netheads" della
prima ora, decisero di aprire un sito per raccontare finalmente la
"verità" sulla Grande Rete, quello che loro in molti anni di lavoro
in società come Prodigy, Time Warner o ZiffDavies avevano scoperto,
ovvero che nel mondo di Internet «per ogni post adolescente che fa
centro al primo colpo con l’azienda fondata nella stanza del college,
sono migliaia quelli che falliscono miseramente». Decisero di
chiamare il loro sito "Netslaves.com", schiavi del net, forzati della
rete, un sito destinato a raccontare, come dice il sottotitolo,
"horror stories working the web", storie orribili e tremende di
lavoro in rete. Il sito, manco a dirlo, raccolse un successo
immediato, e solo un anno dopo Steve Baldwin e Bill Lessard, i due
autori, decisero di fare un passo in più e di realizzare un vero e
proprio studio, scrivendo un libro. Quel libro, NetSlaves, i forzati
della rete, approda dopo qualche anno sugli scaffali delle librerie
italiane, in una interessante traduzione per i tipi della Fazi
Editore (pagg. 382). Ed arriva in un momento in cui, tra i crolli del
Nasdaq e il mito della new economy, l’argomento è particolarmente
attuale.
Il sito da cui ha preso spunto il lavoro è ancora oggi attivo e,
francamente, è più ricco, divertente del libro stesso che,
ovviamente, non può che offrire una piccola parte del lavoro che
Lessard e Baldwin, assieme ai molti collaboratori e ad un vero
esercito di "netslaves", hanno raccolto nel sito. Ma anche nella sua
versione "fisica" e non digitale NetSlaves risulta una lettura
interessante, educativa, e a suo modo divertente. Si, perché i due
autori hanno saputo trattare con garbo, e soprattutto con moltissima
ironia, storie che per molti versi dovrebbero o potrebbero apparire
come drammatiche. Il tono è quello del racconto, della fiction, e
resta dunque leggero e per sua natura "incredibile", anche quando i
toni si fanno più seri e l’ironia lascia il posto all’amarezza. Le
storie — raccolte da Lessard e Baldwin in un anno di studi, viaggi e
incontri — sono tutte vere e mettono in luce come le esperienze di
lavoro su Internet possano essere brevi, terribili e brutali.
Il libro a cui hanno fatto riferimento i due autori per realizzare la
loro opera è il leggendario Working di Studs Terkel, ma a ben
guardare Netslaves ha ben poco a che vedere con gli studi
dell’etnografo americano e più con la recente letteratura
statunitense. Netslaves ricorda a tratti Less Than Zero di Brett
Easton Ellis per certa angoscia esistenziale che trasmette nel
dipingere una nuova generazione che si affaccia sulla scena, ma ancor
di più Microservi di Douglas Coupland, nel quale l’autore di
Generation X metteva a fuoco, nel 1995, l’arrivo della generazione
dei fanatici del computer attraverso la storia di alcuni impiegati di
una azienda di software, offrendo un intimo e divertente racconto
dell’affermarsi del Nuovo Ordine Elettronico.
Netslaves è diviso in una serie di racconti, di biografie esemplari,
ognuna delle quali serve a individuare un diverso tipo di
occupazione, anzi, come dicono gli autori, una diversa "casta". Il
mondo del lavoro in rete è, secondo Baldwin e Lessard, diviso in
caste, alle quali gli autori hanno voluto dare nuovi nomi, in parte
per «demistificare una nomenclatura professionale imbrigliata da un
gergo astruso», ma anche per «mettere in luce che, nonostante la
pretesa di aver infranto tutte le regole, l’Internet business è
permeato di un tacito, ma tangibile, ordine gerarchico». Così gli
operatori freelance, gli «anonimi sfaccendati itineranti che
programmano siti web per vivere» sono diventati "tassisti", come i
tecnici del desktop, quelli che abitualmente passano il loro tempo a
risolvere problemi tecnici o a inserire nuovi componenti nelle
macchine si sono trasformati in "uomini delle pulizie", così come chi
assume e licenzia con lo stesso sangue freddo con il quale cambia
provider è un "robot" o chi si diverte davvero ad aggiornare il
proprio sito web, ama chattare e ha una pagina personale è un "uomo
talpa". Il sistema di caste forma la struttura del libro, attraverso
undici diversi livelli: ogni gradino della scala è illustrato da
un’introduzione, un profilo e un racconto, in cui si esaminano le
caratteristiche e i comportamenti di ciascun esponente della casta
che gli autori hanno intervistato.
Questa nomenclatura aiuta il libro ad essere godibilissimo, e gli
autori sono certamente riusciti a raggiungere l’obiettivo di non
essere pedanti e predicatori, dimostrando di mettere bene insieme il
loro "odio" per lo sfruttamento del lavoro nella net economy, quanto
la loro passione per le nuove tecnologie e la nuova frontiera di
Internet, come spiegano bene nelle quattro pagine finali del libro:
«Per quanto possa essere comodo scaricare l’onere della Netschiavitù
sulle spalle degli stupidi colletti bianchi che dirigono la Net
Economy, i Net Slaves sono in parte responsabili dell’inferno in cui
si sono andati a cacciare (…). Se possiamo azzardare un pronostico in
questa nostra raffazzonata conclusione è che se i weblavoratori non
si daranno una calmata, se continueranno a credere alla favola del
programmatore di genio di 22 anni che va avanti a pizza e Coca Cola e
lavora per 36 ore filate, ci sarà un sacco di gente malata nei
prossimi anni, per giunta senza assistenza sanitaria. La buona
notizia, invece, è che si i NetSlaves decideranno di investire nelle
loro carriere, se si faranno assumere da aziende con un minimo di
stabilità e di rispetto per i dipendenti, se avranno attese
realistiche riguardo ai frutti del loro investimento, allora potranno
sperare per il meglio».
In parte il libro è, comunque, già vecchio, e i recenti terremoti del
Nasdaq hanno reso alcune delle storie raccontate da Lessard e Baldwin
addirittura troppo "buone" rispetto alla realtà, ma la lettura è
comunque interessante e istruttiva, offrendo un affascinante e
velenoso "dietro le quinte" che vale la pena leggere.

= = = = = = = = = = = = = = =
.
.LA REPUBBLICA, 14 Gennaio 2001

"La nostra vendetta contro le illusioni - Parlano i due autori"

di Ernesto Assante

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Non conosco personalmente Lessard e Baldwin e se mi dovessi fidare
delle foto che hanno ironicamente messo accanto alle loro biografie
sul loro sito Internet dovrei dire che assomigliano pericolosamente a
Bill Gates e Steve Case, anzi sono proprio loro sotto mentite
spoglie. Ma proprio per questo, per il loro tranquillo e tagliente
approccio alle cose del Web, mi ispirano simpatia, soprattutto quando
confessano il motivo principale per il quale hanno scritto il libro:
«Vendetta, questa è la parola», dice Bill Lessard, «la vendetta
contro un mondo che conosciamo fin troppo bene, quello dei fallimenti
del Web, del lavoro in Rete, di cui nessuno parla. E non parliamo di
piccole aziende, noi abbiamo lavorato per colossi come Prodigy o
Pathfinder di Time Warner, ma il risultato è stato lo stesso di
quando abbiamo lavorato per piccole startup, ovvero sfruttamento. In
realtà la nostra esperienza non è stata tutta negativa, ed infatti le
storie che raccontiamo sono molto peggiori della nostra. I giornali
sono pieni di biografie di ragazzini che dalla sera alla mattina sono
diventati miliardari con Internet. Storie vere, come quella di Jerry
Yang o Marc Andreessen. Ma le storie di questo tipo sono qualche
decina, quelle degli schiavi della rete sono milioni».
È anche vero che il revenge journalism in cui si esercitano Lessard e
Baldwin tende a far raccontar loro più le storie negative che quelle
positive del Web (che in questo momento dà lavoro a più di tre
milioni di persone negli Stati Uniti) e che in fondo, se qualcuno
avesse raccontato loro una storia positiva, non avrebbero avuto
motivo di scrivere il libro. «No, davvero», dice Baldwin, «non
crediamo che le storie che noi abbiamo raccontato siano tutte storie
tristi o brutte, anzi, alcune finiscono bene, con il "cattivo" punito
e il "buono" che trionfa. Crediamo che il nostro libro non serva a
parlar male del Web, piuttosto serva a celebrare le vite di eroi
oscuri del Web, vite che non hanno nulla a che vedere con quelle dei
miliardari della Silicon Valley, schiavi del Nuovo Ordine Economico
senza i quali l’intero universo del World Wide Web potrebbe andare in
rovina». Contrariamente a quanto si potrebbe pensare NetSlaves in
America è stato un successo, ha ricevuto segnalazioni positive da
tutta la stampa e ha venduto moltissime copie, facendo di Lessard e
Baldwin due autori di successo. «Il che ha sorpreso anche noi», dice
Lessard, «perché sapevamo che il nostro libro non avrebbe incontrato
i favori dei "guru" del web e dei media. Ma allo stesso tempo eravamo
certi che avrebbe incontrato l’interesse di molti. E poi il crollo
del Nasdaq degli ultimi tempi ci ha dato una mano, ha fatto in modo
che in molti aprissero gli occhi comprendendo che il lavoro in rete
non è fatto solo di rose e fiori, ma di fatica, orari assurdi,
manager rapaci e per nulla virtuali».

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From: Andrea  <antatafi@t...>
Date: Sun Jan 28, 2001 00:54am
Subject: Mercato e diritto

Coerentemente al primo step presente nel "Commento alla posizione di Greenpeace" di cui al Percorso "Brevetti ed organismi viventi" (v. sul sito) penso sia opportuno sottoporre alla Vostra attenzione le parole recentemente riportate dal Sole 24ore (Venerdì 26 Gennaio) nell'articolo "Blu supera gli 800000 abbonati" (pag. 35) di Giancarlo Elia Valori (Presidente di Autostrade):
<<Le regole giuridico-amministrative non sono sempre adeguate alle veloci trasformazioni dell'economia degli ultimi anni.La vicenda "Blu" dovrebbe far riflettere sul fatto che i mercati hanno le proprie regole economiche sulle quali il diritto può incidere solo entro limiti definiti>>.
Dietro alle opinioni espresse dal Valori che in attesa delle motivazioni alla recente sentenza del Tar del Lazio motiva la vittoria sia economica che legale di "Blu", si nasconde una riflessione di grande attualità e di enorme rilevanza in tanti campi soggetti ad una trasformazione economica.
Il diritto sembra non sostenere i ritmi di interessi e sistemi che richiedono una capacità d'adattamento troppo celere. Il "metabolismo" del diritto ha tempi poco conciliabili con quelli che oggi ha il mercato.
In passato questa realtà portò allo ius mercatorum, lex mercatoria, già nel diritto privato romano quindi ad un un diritto che tendeva a superare le istituzioni essendo creato dai mercanti.Oggi la nuova lex mercatoria è un diritto creato dal ceto imprenditoriale, senza la mediazione del potere legislativo degli Stati, e formato da regole destinate a disciplinare in modo uniforme i rapporti entro l'unità economica dei mercati. Si tratta di un nuovo "ordinamento giuridico" separato dagli ordinamenti statuali. Quest'ultime parole sono condivise tra l'altro da una sentenza del 1982 della nostra Cassazione.
Esiste una Business community che scalza il diritto delle istituzioni.Il caso Blu è dimostrazione di come il diritto possa trasformarsi da braccio secolare (ruolo sostenuto nei secoli) in eterno sconfitto nel caso in cui esso freni i bisogni ed i meccanismi del mercato.
Questa realtà è dimostrazione del fatto che esiste qualcosa di estremamente forte prima del diritto che talvolta contrasta e guida ogni decisione rilevante e carica d'interessi.Talvolta incarnare questa forza nel concetto di mercato e di tempo rappresenta il modo più facile e meno profondo per giustificare e motivare alcuni eventi.


Andrea Tatafiore

From: Sonia Cambursano  <scambu@t...>
Date: Sun Jan 28, 2001 3:04pm
Subject: il principio di responsabilità

Il mio nome è Sonia Cambursano ed è la prima volta che intervengo in questo forum, pur seguendone il dibattito da un po' di tempo. Il mio interesse per i temi trattati dalla Fondazione nasce soprattutto --credo-- dall'essere nata e cresciuta in una realtà che è stata fortemente permeata da uno spirito imprenditoriale innovativo ed eticamente responsabile, quale fu quello della famiglia Olivetti ad Ivrea e nel Canavese. Confesso di aver dovuto vincere qualche resistenza prima di intervenire nella discussione, poiché ho scarse competenze economico-giuridiche, essendo la mia formazione filosofico-politica. Per questo mio ingresso nel forum, riporto integralmente una riflessione che avevo sottoposto al Dott. Borrello qualche giorno fa, mentre esponevo il mio punto di vista sulla posizione espressa da Amartya K. Sen

Credo che Sen, più di
ogni altro economista in questo momento, sia in grado di combattere un
economicismo degenere che permea da troppo tempo il pensiero economico, con
le conseguenze che ci sono ormai note. Stavo riflettendo sulla domanda che
Lei poneva riguardo la possibilità di una responsabilità (Lei dice "anche
laica", io direi "soprattutto laica") in assenza di normativa. Io credo che
la risposta possa e debba essere positiva, anche se riesco a scorgerne la
difficile sopravvivenza nel panorama contemporaneo. Mi viene in mente la
posizione, sempre attuale, di Hans Jonas nel suo "Das Prinzip Verantwortung"
(Il principio responsabilità), nel quale cerca di stabilire i presupposti di
un'etica della civiltà tecnologica per rispondere agli interrogativi --di
natura non solo teoretica, ma anche pratica-- che l'avanzamento delle
tecniche di controllo della natura è venuto moltiplicando in maniera
inquietante. Passando per la porta della bioetica, Jonas formula un "sì alla
vita" che assume un valore normativo per il genere umano nel suo insieme,
traducendosi nel principio etico fondamentale a cui dovrebbe orientarsi il
nostro agire collettivo: "non si deve mai fare dell'esistenza o dell'essenza
dell'uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell'agire".
Quindi la vita diventa oggetto di "cura", di preoccupazione per il futuro, e
verso essa noi siamo moralmente obbligati. In quest'ottica rovesciata, in
cui l'uomo è divenuto più pericoloso per la natura di quanto questa lo fosse
un tempo per lui, la tecnologia non è una sfera neutrale dell'agire, ma
entra sotto la sfera della determinazione etica. E --aggiungerei io -- sotto
la sfera della politica, intesa in senso lato come sistema della convivenza
tra gli uomini. Ciò che mi sembra stia accadendo --e qui riprendo in qualche
modo il pensiero di Sen-- è il predominio incontrastato del principio
dell'utile, con una conseguente, pericolosa morte della dimensione politica.
E temo anche che sia una tendenza di lungo periodo, difficilmente
reversibile.

Grazie

Sonia Cambursano

From: Gian Maria Borrello  <borrello@f...>
Date: Mon Jan 29, 2001 5:00pm
Subject: New Economy: gli effetti sociali

Robert Reich, economista celebre, autore di best-seller, ministro del
Lavoro di Clinton, ha elaborato un'acuta analisi degli effetti sociali
della New Economy ("The Future of Success") che esce proprio mentre
l'allarme-recessione fa vacillare alcune sicurezze degli americani. "The
Future of Success" è anche un serio programma riformista: il saggio
affronta un tema che Reich lanciò per primo più di dieci anni fa: nella New
Economy le diseguaglianze sono sempre più legate a disparità di accesso al
sapere, quindi è questo il terreno della nuova battaglia per una società
più giusta.

Da "New economy: più ricchi e più schiavi" , di Federico Rampini, in La
Repubblica del 9 gennaio 2001:

«Se la New Economy è la nostra vittoria da consumatori, quale prezzo
paghiamo nell'altra dimensione della nostra vita, il lavoro? (...) Più
l'economia cambia al ritmo dell'innovazione, più le vite professionali
diventano imprevedibili. »
Scrive Reich: "I prezzi che stiamo pagando sono solo l'altra faccia dei
nostri guadagni (...) La nuova forma del capitalismo americano è senz'altro
superiore ad ogni altra. Di tutti i sistemi economici è il più efficiente
nel dare al consumatore e al risparmiatore ciò che vogliono, quando
vogliono. Ma gli esseri umani non sono solo consumatori e investitori. Il
giusto equilibrio deve essere indubbiamente il frutto di una decisione
sociale".
«Reich apre così una riflessione collettiva sulle risposte politiche e
sociali che bisogna dare alla rivoluzione tecnologica che viviamo. Non è la
prima volta che l'evoluzione materiale del capitalismo fa un balzo in
avanti, e la politica stenta a seguirne la corsa. Nei primi decenni del
Novecento la diffusione in tempi ravvicinati di ondate di innovazioni come
l'automobile, la radio e il telefono, portarono a cambiamenti profondi
nella vita familiare e sociale, e infine nel modo di organizzare la
partecipazione politica dei cittadini. Reich intuisce che siamo ormai
giunti ad un passaggio molto simile.»

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Da "La frenata della net economy angoscia gli Stati Uniti", di Federico
Rampini, in Repubblica.it - Economia del 6 gennaio 2001:

«A Palo Alto, epicentro della Silicon Valley californiana, accorrono in
massa "avvocati-avvoltoi" specializzati nell'assistere gli imprenditori sui
licenziamenti collettivi: troppo giovani, molte Net-aziende hanno solo
esperienza di assunzioni, per gli esuberi non sanno come si fa. Nella Baia
di San Francisco - nove milioni di abitanti concentrati sulla zona più
ricca e tecnologicamente avanzata del pianeta - si prevedono 23.000
licenziamenti nei prossimi due anni.
(...)
A qualcuno toccherà sperimentare le asprezze sociali della crisi, in
un'America che Bill Clinton lascia più ricca ma meno socialmente protetta
di dieci anni fa.
Come disse il presidente Harry Truman: "La Recessione è quando il tuo
vicino perde il lavoro. La Depressione è quando lo perdi tu".»

- - - - - - - - - - - - - - -

=> Il testo integrale degli articoli è raggiungibile dalla sezione News del
Sito della Fondazione:
<https://www.fondazionebassetti.org> => News


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Dott. Giovanni Maria Borrello
(Web Master della Fondazione Bassetti)
<mailto:borrello@f...>
<http://fondazionebassetti.org/borrello.htm>
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From: Gian Maria Borrello  <borrello@f...>
Date: Mon Jan 29, 2001 5:11pm
Subject: Che il disumano diventi familiare

 

«Mentre i net slave, gli schiavi dell'informatica, navigano nell'infinito
virtuale delle loro macchine intelligenti...
(...)
Mucca pazza denuncia per cominciare il limite della superproduzione...
(...)
Un secondo limite denunciato da mucca pazza è quello della conoscenza.
L'industria alimentare - che sembra la più nota, la più trasparente, la più
nostalgica del buon tempo antico, tutto un ritrovare la natura in qualche
valle degli orti o in qualche mulino bianco - è in realtà un vaso di
misteri e di scommesse. Nessuno sa bene quanti e quali sono i rischi della
chimica applicata agli alimenti, se le sue combinazioni, le sue evoluzioni,
i suoi rifiuti si manifesteranno subito o fra venti o trent'anni...
(...)
Mucca pazza segnala anche l'ignoto delle psicosi umane, delle onde
irragionevoli di paura...
(...)
Tutti questi limiti si sono riuniti nel limite della mercificazione senza
fine...

(da "I veri pazzi siamo noi", di Giorgio Bocca, L'Espresso 1 febbraio 2001)

- - - - - - - - - - - - - - -

«Diffidare del nuovo! O almeno non farsene incantare. Il mondo nuovo, la
città nuova, l'ordine nuovo con il loro seguito di fallimenti e stragi. E
ora la nuova economia, la new economy come si dice nell'angloamericano del
nuovo colonialismo. Sarebbe nuovo anche il pensiero unico del neoliberismo,
che però è quello antichissimo del «prendi i soldi e scappa».
L'antichissima irresponsabilità del capitale, di quel migliaio di aziende
che oggi si arricchiscono con la nuova economia e fanno e disfano sulla
testa dei sei miliardi di uomini che abitano il pianeta. Tra i fanatici
della new economy e gli altri c'è un comune denominatore: nessuno ha la
minima idea di che ne sarà del genere umano.
(...)
La distruzione creativa di Schumpeter è ottima per il capitale, un po' meno
per quelli che ne escono con le ossa rotte.»

(da "Prigionieri degli omini", di Giorgio Bocca, in L'Espresso del 2
novembre 2000)

- - - - - - - - - - - - - - -

«La psicosi di catastrofismo è tutto meno che razionale. Se tutti sanno e
ripetono che la catastrofe prossima ventura è causata dall'uomo, perché
fingono che venga da un male diverso dall'uomo? E se l'uomo non accetta le
sue responsabilità, se continua a correre verso il baratro che si può fare?
(...)
Nei secoli passati funzionava il triangolo Dio-natura- uomo, con il
padreterno a mediare i rapporti fra natura e uomo. Cancellato Dio, il
dialogo tra natura e uomini è diventato un dialogo fra sordi: ognuno che
procede per la sua strada. Così le grandi leggi naturali - riproduzione,
ereditarietà , selezione, crescita - possono radicalmente mutare in -
crescita eguale distruzione -. Comunque allegri, andremo in barca fra i
campanili di Venezia e risparmieremo sul riscaldamento.»

(da "È di moda il catastrofismo, una lamentazione senza sbocchi", di
Giorgio Bocca, L'Espresso 5 ottobre 2000)

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=> Il testo integrale degli articoli è raggiungibile dalla sezione News del
Sito della Fondazione:
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Dott. Giovanni Maria Borrello
(Web Master della Fondazione Bassetti)
<mailto:borrello@f...>
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From: Silvano Cacciari  <mcsilvan@t...>
Date: Mon Jan 29, 2001 6:13pm
Subject: R: New Economy: gli effetti sociali

 

Segnalo che,in argomento, dopo qualche tira e molla editorale, in giro c'e'
AA.VV., Voci per un lessico
postfordista, Feltrinelli, 2000, uscito sabato scorso.
Ecco qui un'estratto dalla voce curata da Marazzi, studioso italo svizzero
sul lavoro cognitivo, che riguarda la voce
"panico" da www.ilmanifesto.it del 25-1-2001


Slv

Una folla senza parole
Anticipiamo stralci di "Panico", il contributo di Christian Marazzi a
"Lessico postfordista", 60 voci per comprendere il mutamento in atto. Da
domani in libreria il volume della Feltrinelli dedicato a Luciano Ferrari
Bravo

CHRISTIAN MARAZZI

Nell'epoca attuale, a quale Pan, dio-capro della natura, rimanda
l'esperienza panica, quell'episodio di forte ansia generato da un timore
tanto insopportabile da impedire di organizzare il pensiero e l'azione,
capace di depersonalizzare, di indurre a comportamenti impersonali e al
mimetismo di massa? Qual è la "natura grezza" che produce, porta alla luce
l'istinto del "tutto o nulla", che "libera" l'angoscia latente? [...] Come
spiega Jung, l'"essere in balia di" e la depersonalizzazione cui conduce il
panico costituiscono l'esperienza di un comportamento sincronicamente
primario e intelligente.
A questa paradossale conclusione si è giunti studiando la genealogia delle
crisi finanziarie, della crisi del '29 in particolare, come esplosione della
stessa razionalità della speculazione, l'attività che, come scrisse Keynes,
consiste nel prevedere la psicologia del mercato, nello "indovinare meglio
della folla ciò che la folla farà". "Sapendo che il nostro giudizio non vale
nulla - scrive l'economista inglese - cerchiamo di ricorrere al giudizio del
resto del mondo, che forse è meglio informato." La relazione mimetica tra il
singolo soggetto economico e gli altri (la "folla" aggressiva degli
investitori/speculatori) ha nel deficit di conoscenza di ciascuno la sua
razionalità. Quando gli indicatori convenzionali non riflettono più la
logica di funzionamento del sistema economico, quando l'opacità tipica dei
mercati finanziari induce a comportamenti la cui razionalità è ormai sfasata
rispetto alla trasformazione economica in corso, il comportamento mimetico
amplifica la crisi, svelandone l'immanenza nello sviluppo. La modalità di
funzionamento del panico è quindi presupposta alla crisi panica.
Fino a quando possiamo confidare che la convenzione sarà mantenuta, il
comportamento mimetico è del tutto razionale. [...] L'esplosione panica, la
corsa dissennata agli sportelli per rientrare in possesso, nella forma del
denaro, della proprietà percepita come "a rischio", non è altro che il
disvelamento della natura panica del modo di produzione capitalistico. Nella
domanda panica di denaro si manifesta la contraddittorietà dell'economia di
mercato: ciascuno è rimandato alla sua proprietà e, simultaneamente, si
trova più vicino agli altri a causa degli effetti mimetici, del contagio e
delle reazioni che esso suscita.

La violenza della crisi, lungi dal riflettere l'irrazionalità della "natura
grezza" che è dentro di noi, rappresenta la paura dell'inadeguatezza delle
convenzioni e dei poteri istituiti nel saper gestire le mutate condizioni
sociali dello sviluppo economico. Al tempo stesso, l'utilizzazione
"esuberante" da parte di individui o gruppi delle idee emergenti dai
processi di trasformazione in atto rappresenta il desiderio latente di
perdere ogni autorità, di emanciparsi dalla schiavitù del passato. [...]
L'equivocità del senso nel concetto di panico, la confusione fra il vero e
il falso allarme, ha portato il colonnello Chandessais, studioso delle
catastrofi, a concludere in modo categorico che "il panico non esiste".
[...] L'origine del panico dipende quindi sempre da una modalità di allarme
e dall'interpretazione dei segnali di pericolo. In ciò risiede propriamente
la dimensione linguistica del panico, l'essere il panico un "gioco di
parole". [...] Essere in preda al panico vuol dire perdere l'uso della
parola. La paura è tale da non riuscire a precisarsi in nessun oggetto di
riferimento da cui difendersi, ciò che equivale a non poter più produrre
rappresentazioni.
La disarticolazione del linguaggio definisce le coordinate dell'esperienza
panica nella società postfordista. [...] Il linguaggio, la trama
comunicativa e discorsiva che avvolge come un grande testo il mondo nella
sua totalità, è il "linguaggio grezzo" con il quale percepiamo il contesto
materiale e facciamo esperienza del mondo. Il linguaggio in generale, il
linguaggio come facoltà o capacità di comunicare, è ciò che abbiamo paura di
perdere. Nel contesto postfordista in cui il linguaggio è diventato a tutti
gli effetti uno strumento di produzione di merci e, quindi, la condizione
materiale della nostra stessa vita, la perdita della facoltà di parlare,
della "capacità di linguaggio", significa perdita di appartenenza al mondo
come tale, perdita di ciò che accomuna i molti che costituiscono la
comunità.
Nel momento in cui il panico si manifesta con la perdita dell'uso della
parola, è il linguaggio come possibilità di esistenza che temiamo di
perdere. [...] Quando si è in preda al panico si fugge verso il non-dove,
verso l'ovunque, si cerca riparo nel mondo nella sua totalità. Questa fuga
in massa verso il mondo senza forma che intasa le vie d'uscita, dimostrando
quanto stretto sia lo spazio quando tutti appartengono al medesimo contesto
linguistico, quando tutti hanno la medesima paura di essere privati della
medesima proprietà, della medesima facoltà di linguaggio. Come ha scritto
Paolo Virno, il timor panico non è la conseguenza di una frattura tra
biografia individuale e potenze impersonali sociali: esso scaturisce
dall'inerenza del singolo al general intellect. [...] L'uso privato del
general intellect si scontra contro la sua natura sociale, il corpo
individuale che incarna la divisione del lavoro linguistico vede il corpo
degli altri come un ostacolo.
Gli studiosi delle catastrofi sostengono che quanto più ci si rifiuta di
credere all'imminenza del pericolo tanto più si previene l'eventualità di un
rischio e, quindi, di una possibile catastrofe. In un contesto eminentemente
linguistico, in cui si lavora comunicando, la resistenza che previene
l'eventualità di un rischio è possibile se si è in grado di distinguere i
falsi allarmi da quelli veri. La capacità di interpretare gli indicatori
che, nella forma di semplici numeri, riassumono un insieme complesso di
variabili interpretabili sulla base di una razionalità condivisa, è
possibile solo se la resistenza del singolo è nel medesimo tempo resistenza
dei molti, solo se l'interpretazione dei segnali di un pericolo di
catastrofe avviene con l'uso del linguaggio che accomuna e preserva la
moltitudine. [...]

Ma in che modo nella società postfordista la razionalità del comportamento
mimetico riesce a proteggere la comunità della moltitudine dai falsi allarmi
e dalle rappresentazioni stereotipate di panico che i mass media mettono
continuamente in scena? [...] Sia la crisi asiatica che il millennium bug
dimostrano perlomeno questo, che gli scenari di crollo finanziario e di
catastrofe informatica non hanno provocato comportamenti panici. Nel corso
della crisi asiatica gli analisti sono stati sorpresi dalla saggezza di
milioni di risparmiatori che, pur bombardati da segnali di rischio
sistemico, non si sono precipitati a ritirare i loro averi dai fondi
pensione o di investimento. Il clima di catastrofe imminente creato dalla
sindrome del millennium bug non ha creato quel comportamento contagioso che
si poteva legittimamente temere e che, indipendentemente dalla verità o
falsità del pericolo, avrebbe di fatto provocato la catastrofe.
L'euforia dei mercati borsistici, da Alan Greenspan definita nel 1994
irrational exuberance, mette anch'essa in scena la possibilità del crollo
finanziario mondiale. Gli indicatori economico-finanziari e i confronti con
l'andamento borsistico degli anni '20 autorizzano a temere un crollo di
grandi proporzioni. In situazioni del genere, la ragione di coloro che,
nell'aumento dei valori dei titoli azionari, vedono riflessa non
l'irrazionale esuberanza della speculazione, ma l'aumento reale della
produttività sociale, non basta affatto a proteggersi dal rischio di
catastrofe. Non si vince mai contro la folla, se rari sono gli esempi di
coloro che riescono a vincere contro la logica delle "aspettative razionali"
del mercato.
Il problema non riguarda nemmeno più il rapporto tra oggettività e
soggettività, tra analisi dell'economia reale e del sistema finanziario a
essa corrispondente, da una parte, e il cambiamento della "semantica del
rischio", dall'altra. La diffusione sociale dell'orientamento al rischio, la
coazione al rischio in un'economia monetaria in cui la "crescita senza
inflazione" costringe a dirottare i capitali direttamente sulle imprese
quotate in borsa, rende sempre più difficile la distinzione di Luhmann tra
rischio e pericolo, sistema e ambiente, operazione e osservazione. Chi si
espone ai rischi elevati derivanti dalla propria decisione di investire in
titoli azionari dovrebbe, secondo la sociologia del rischio luhmaniana,
reagire in modo del tutto diverso al pericolo di danni al suo portafoglio
risultanti dall'euforia della borsa e dalla logica mimetica che la sottende.
Se così fosse, le manovre della banca centrale per ridurre i pericoli di un
ambiente borsistico inquinato dovrebbero contribuire a ridurre la
propensione al rischio dei singoli partecipanti al gioco della borsa.

Il problema è che, anche volendo fissare una proporzione diversa tra valori
reali e valori finanziari, l'aumento dei tassi di interesse da parte della
banca centrale sembra non bastare a convincere gli investitori a cambiare
idea, a spostare i risparmi su titoli meno remunerativi ma più sicuri. Per
ristabilire la relativa autonomia delle autorità monetarie (cioè dello
Stato) è necessario che la moltitudine si pieghi di fronte all'unicità degli
indicatori monetari. Per "normalizzare" i mercati, per regolarli dall'alto
delle autorità centrali, è necessario provocare una catastrofe, generare un
panico tale da uniformare il comportamento dei molti, tale da trasformare la
moltitudine in popolo unito dalla medesima logica.

From: ilpolitecnico  <ilpolitecnico@t...>
Date: Mon Jan 29, 2001 6:20pm
Subject: R: Mercato e diritto

 

Le due lettere di Andrea Tatafiore e Sonia Cambursano rappresentano due
punti di vista sul rapporto fa mercato e polis quale si sta delineando nella
società contemporanea.
Quando lo Stato ed le istituzioni internazionali mostrano tutti i loro
limiti nello svolgere i compiti loro affidati e si dimostrano funzionali ad
interessi particolari anzichè all'interesse collettivo occorre ripensare i
principi stessi che ne fondano la legittimità.
La vicenda blu, la mucca pazza, l'uranio impoverito, l'amianto e gli esempi
potrebbero continuare ad libitum dimostrano una inadeguatezza del sistema
politica/istituzione nei confronti del mercato che sembra essere
strutturale. Il sistema Statale che dovrebbe essere posto a tutela del terzo
si rivela invece come un elemento di perversione del mercato.
Occorre io credo ripensare la funzione ed i principi stessi che fondano il
funzionamento dello Stato e delle istituzioni internazionali. Occorre
ritornare allo spirito dell'illuminismo che è alla loro origine.
Il controllo del cittadino sullo Stato che era immaginato come compito dei
gruppi politici organizzati ( i partiti, le associazioni) viene vanificato
nel momento in cui i partiti politici sono sussunti all'interno
dell'organizzazione statale e ne diventano padroni ma anche prigionieri ed
ostaggi.
Occorre quindi ripristinare il controllo del cittadino sullo Stato al di
fuori dei partiti politici che debbono rimanere solo nella loro funzione
formale di salvaguardia dell'alternanza degli uomini nei ruoli di governo.
Occorre anche ripristinare la possibilità per i cittadini di essere
attivamente legislatori al di fuori della mediazione data dai partiti
politici. Ma occorre altresi ridurre di molto la produzione legislativa.
Molte delle leggi promulgate non sono leggi ma regolamenti camuffati da
leggi e molti di questi interferiscono nell'uguaglianza dei cittadini
servono cioè per favorire i clientes. Molte delle persone che si richiamano
a Keynes non fanno un buon servizio a Keynes dicendo di ispirarsi a lui per
coprire i propri interessi.
Il ruolo stesso dello Stato e delle istituzioni internazionali deve essere
ridotto al minimo necessario. ogni compito e quindi ogni potere che viene
attribuito allo Stato ed alle istituzioni internazionali senza reale
necessità è un danno grave per tutti. Lo Stato non è un bene ma un male
necessario. Tocqueville diceva che gli inglesi si rallegrano quando vengono
derubati. perchè essere derubati significava per loro non avere polizia e
quindi non avere padrone. gli inglesi pensavano forse anche che è più
conveniente mantenere un ladro anzichè dover mantenere un ladro ed un
poliziotto.
Dal lato del mercato ho già accennato in altri interventi come dovrebbe
strutturarsi la possibilità del cittadino astratto (il terzo) di essere
reale controparte dell'imprenditore al di la della mediazione dello Stato.
Sono trascorsi 200 anni dalla nascita di Carlo Cattaneo e credo che il modo
migliore per ricordarlo sia di continuare il suo pensiero.
Giuseppe Cattaneo

From: ilpolitecnico  <ilpolitecnico@t...>
Date: Tue Jan 30, 2001 11:35am
Subject: R: New Economy: gli effetti sociali

prendo a pretesto questa lettera in cui Gian Maria Borrello riporta alcuni
brani di dell'analisi di Robert Reich sulla New economy per osservare che
l'america e la new economy sono lontane. Spesso si discute di temi che sono
per noi fantascientifici come quello dei licenziamenti nella new economy o
degli schiavi della new economy perchè è più facile fare dell'accademia
sull'america che occuparsi dell'italia. io non ho modo di tenermi aggiornato
perchè i miei interessi sono molti e dispersivi ma non ricordo di aver non
dico letto ma visto in libreria un libro che analizzi la situazione
economica e sociale dell'italia di oggi senza intenti di propaganda politica
di una o di altra parte. Può darsi che mi sia sfuggito ma credo che questa
mancanza sia un cattivo segno. Come cattivo segno considero nella mia citta
il proliferare incontrollato di supermercati COOP che hanno prezzi più alti
non della Standa che è allineata ma dei supermercati privati di tipo
tedesco. Mi dispiace che la COOP sia diventata la massima espressione del
supermercato all'americana in italia. chi deve fare i conti con le mille
lire ovviamente va nei supermercati tedeschi. Ma questo forse è segno di un
mutamento sociale più profondo. quelli che un tempo erano severi e razionali
quartieri operai oggi sono diventati ludici e commerciali quartieri borghesi
mentre una dissennata edilizia pubblica ha prodotto per le classi più povere
quartieri ghetto dagli elevati costi di costruzione e dalla manutenzione
impossibile. il tentativo di realizzazione concreto delle teorie di Keynes e
Le Corbusier ha dovuto pagare un pedaggio altissimo allo scarto fra il genio
e la banalità. Forse aveva ragione Kojeve nel considerare il modello
americano come quello finale della storia, salvo l'improbabile affermarsi
del formalismo giapponese.
Allo stesso modo vedo con dispiacere il proliferare su internet a spese
della comunità di siti inutili di enti inutili dove non c'è innovazione ma
solo autoincensamento e propaganda. la moltilpicazione degli enti diceva
qualche filosofo non è solo inutile ma dannosa.
Forse in italia nella new economy non ci siamo ancora entrati, per ora
abbiamo solo tradotto del software e dei siti prodotti da altri, neppure
abbiamo tradotto ma ce li hanno tradotti! ma forse per favorire lo sviluppo
della new economy abbiamo un mezzo: assumere i 23.000 disoccupati previsti
nella baia di san francisco.
Giuseppe Cattaneo

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