Tout se tient blog

Blog di Tout se tient (ovvero: il blog SPERIMENTALE di Gian Maria Borrello & C.)

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giovedì, aprile 24, 2003

 Mastri artigiani e apprendisti stregoni

--- posted by Leone Montagnini ---

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Trovo che la discussione stia assumendo un notevole momento sul piano dialettico e mi sento trascinato, nonostante alcuni impegni che mi urgono, a spendere un po’ di tempo per confrontarmi con gli interessanti interventi di Bertolini e Borrello.
Il mastro artigiano che costruisce le cattedrali gotiche ha una tecnologia con un contenuto teorico non elevatissimo, anche se non lo sottovaluterei. Come sopperisce alla sua carenza di teoria? Non certo improvvisando, ma applicando moduli comportamentali tradizionali, cioè utilizzando tecnologie a bassa velocità di innovazione, e sovradimensionando i muri portanti, le travi ecc. Due aspetti che corrispondono, a ben vedere, ad un’applicazione ante litteram del principio di precauzione.
Questo però non è l’habitus del biotecnologo. I suoi metodi sono ad altissima velocità di innovazione, approntati in presa diretta con la produzione industriale, dove l’invenzione diviene quasi immediatamente innovazione e produzione di massa. In questa situazione sarebbe necessario - non so se sufficiente - aumentare il tenore teorico della proprie tecnologie e fare ciò significa creare teorie dei sistemi complessi.
Mi si permetta di avanzare l’ipotesi che la debolezza teorica riscontrata nel modo di esprimersi di Mr. Dickerson nel colloquio da me riportato in «Le patate transgeniche e i perché dei filosofi», non sia legata a malafede o alla considerazione che fare ricerca costi, soprattutto quando potrebbe condurre a cambiare i propri piani industriali. La tecnologia, infatti, storicamente ha spesso manifestato uno spiccato interesse a costruirsi una propria scienza teorica qualora non ne disponesse di una pronta all’uso. Le esigenze architettoniche hanno indotto a produrre nel tempo uno splendido armamentario di teorie per la progettazione funzionale, il calcolo e l’affidabilità delle strutture. Lo stesso è accaduto con la termodinamica, teoria che nacque per rispondere all’esigenza di ottimizzare i rendimenti delle macchine termiche.
Probabilmente, invece, le carenze di teoria che oggi riscontriamo dipendono almeno in parte dal clima culturale in cui biotecnologie ed informatica (tecnologie che accomuno perché sono quasi sorelle) sono maturate nell’ultimo mezzo secolo, in un ambiente scarsamente propenso alla sistemazione teorica come quello statunitense, anche se non del tutto insensibile a questa esigenza, come mostrano ad esempio le precocissime riflessioni di studiosi come Norbert Wiener, John von Neumann e Gregory Bateson. Non va inoltre sottovalutato il fatto che in questo contesto la stessa informatica è diventata il modo più pratico per affrontare la complessità, vicariando la teoria e contribuendo a depotenziare la tensione verso di essa.
Ora vi saluto e mi immergo nelle mie ricerche su Wiener per un po’ di giorni.
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mercoledì, aprile 23, 2003

 Meglio un uovo oggi che un OGM domani... ???

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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Sottotitolo: "le conseguenze dell'assenza di 'perché' (ovvero: quando la teoria latita...)"

Il cenno che Vittorio Bertolini fa ai costruttori di cattedrali mi ha rammentato un passaggio di un documento del '99 pubblicato anche nel sito della Fondazione Bassetti, in cui si ricordava come durante il medioevo le cattedrali venivano costruite pur in assenza di architetti e progetti. In quel caso l'esempio era usato in senso critico: la costruzione di una cattedrale viene sì intesa come rappresentativa di un sistema di responsabilità funzionante, ma ciò spinge "a contrario" ad osservare che oggi le organizzazioni complesse tendono a eludere (prima ancora che a negare) il problema della responsabilità e che, quindi, è su questo fatto che sarebbe necessaria una seria riflessione.

Jean Fouquet, 'La costruzione di una cattedrale', Quindicesimo secolo - cliccare sull'immagine per vederla ingrandita
Jean Fouquet, "La costruzione di una cattedrale", Quindicesimo secolo
(cliccare sull'immagine per vederla ingrandita)

Bertolini usa l'esempio per dire che è importante tener fede anche a un criterio pratico evitando di considerare l'esistenza di una teoria come condizione che quasi legittimi un'innovazione (nel senso che la comprovi e la renda approvabile sul piano del metodo scientifico, o su quello politico) e aggiunge che, anzi, può darsi che proprio la prassi sia terreno fertile per il germogliare di una teoria. La prassi non è da svalutare, soprattutto quando, essendo consolidata, fornisce sicurezza "perché nei fatti le cose funzionano".
Mi sembra che Bertolini consideri valido un criterio di giudizio che potremmo definire funzionalistico, recuperando, tuttavia, il senso della verifica teorica all'interno di una sorta di opportuna preoccupazione precauzionale (e nulla qui c'entra il "principio di precauzione"): bisogna vedere se una data innovazione effettivamente funzioni e se rientri in un quadro ermeneutico. Questa possibilità di ricondurre un fenomeno a un "quadro congetturale" Bertolini la qualificherebbe come apporto in senso precauzionale.
Sempre che io abbia ben interpretato la sua posizione, individuerei un punto di flessione quando da queste constatazioni, o da queste considerazioni, si passi a dedurre delle conseguenze sul piano politico. Per esempio, io sarei propenso a pensare che il "funzionamento" di un'innovazione può essere inteso in senso eminentemente soggettivistico, cioè come un qualcosa che sia funzionale a obiettivi stabiliti (da qualcuno): "la ruota funziona, perché gira nel verso giusto" (e allora il punto nodale è il significato di quel "giusto"). Oppure, ovviamente, penso che si possa parlare di "funzionamento" in senso più oggettivo, osservando cioè che l'applicazione tecnica fa effettivamente quel che chiunque si aspetta che faccia: "la ruota effettivamente gira, nessuno lo può negare". Ma in entrambi i casi è palese che la constatazione (più o meno improntata al soggettivismo) relativa al "funzionamento" presenta, sul piano della dialettica politica, delle vulnerabilità. Che il primo esempio di funzionamento, inteso nel senso di pertinenza agli scopi stabiliti, presti il fianco ad obiezioni è chiaro. Il secondo esempio si apre, d'altra parte, alla replica secondo cui il fatto che un'applicazione funzioni non significa nulla --o, per essere meno drastici, significa molto poco-- sotto il profilo del "da farsi", cioè dal punto di vista delle scelte politiche. A maggior ragione ciò varrebbe se tale funzionamento si rivelasse, anche solo in ipotesi, foriero di effetti dannosi (diretti o collaterali che fossero). Ed è a questa dimensione dell'ipotetico che coloro i quali hanno ufficialmente formulato il "principio di precauzione" intenderebbero riferirsi, dimensione che è poi quella entro la quale opera chi è costretto a confrontarsi con l'onere (o con l'onore) delle scelte politiche da prendere: il principio di precauzione nasce come strumento di orientamento teorico, come metodo di sistemazione teorica delle preoccupazioni suscitate da innovazioni di cui non è dato conoscere le conseguenze, come tecnica di approccio al problema delle conseguenze incerte di un'innovazione, come "tool" per il "decision making".
Per concludere, io individuo un punto critico, almeno sotto il profilo dialettico, nella fase del ragionamento in cui da constatazioni (o da considerazioni sui fatti) si traggano argomenti a supporto di una posizione politica. Da un lato, è vero che l'assenza di spiegazione di un fenomeno non è motivo sufficiente per frenare (o per vietarci, o per vietare) gli esperimenti (non ci si può opporre agli OGM semplicemente in base alla considerazione che le spiegazioni scientifiche del nesso "causa-effetto" presentano dei punti oscuri). Ma, dall'altro lato, quando questi esperimenti vengano ritenuti, entro ipotesi non balzane, forieri di effetti dannosi, che cosa dovrebbe fare il decisore politico? Dovrebbe autorizzarli o no? E' immediato osservare che buona parte della questione riguarda il qualificare, o meno, tali ipotesi come "balzane". Ma è altrettanto evidente che l'assenza di un "perché" (e qui mi rifaccio all'esempio della Monsanto fornitoci da Leone Montagnini) genera punti deboli. C'è poco da fare: bene o male, quando si è in grado di dimostrare "il perché" di un fenomeno indotto da una tecnologia si è meno esposti (tanto al prevalere di posizioni contrarie, quanto ad eventuali critiche). Dopotutto, quando la teoria latita non v'è da sorprendersi che trovino spazio (e che al limite prevalgano) impostazioni basate su un atavico timore del "novum", piuttosto che su posizioni saggiamente precauzionali. Non sembra anche a voi?
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domenica, aprile 20, 2003

 Scienza e tecnica: una contrapposizione ideologica

--- posted by Vittorio Bertolini ---

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In Feyerabend “Contro il metodo”, Feltrinelli 1979 leggiamo (nota pag.88): «Huygens sottolinea che sarebbe stata necessaria un’intelligenza sovrumana per inventare il telescopio sulla base della fisica e delle geometria disponibili. Dopo tutto, egli dice, non comprendiamo ancora il funzionamento del telescopio».
Questo esempio, che non è certamente unico, mostra chiaramente come la storia della scienza e della tecnica non è affatto lineare. Una scienza che indaga e spiega e una tecnica che realizza. Molte teorie sono nate sulla base di tecnologie che poggiavano su teorie scientifiche quasi inesistenti.
Noi oggi ammiriamo le cattedrali gotiche, ma i costruttori delle cattedrali non conoscevano la statica e le loro conoscenze sulla resistenza dei materiali erano solo empiriche.
Opporsi agli ogm sulla base che la biologia molecolare non è ancora una scienza normale (nel senso di Kuhn) riecheggia l’atteggiamento di quegli astronomi e teologi di matrice aristotelica che si rifiutavano di guardare nel telescopio di Galileo.
Ovviamente questo non toglie che di fronte al nuovo non si debba ricorrere a una qualche forma di precauzione. In primo che la nuova tecnologia funzioni, che cioè i suoi risultati rientrino entro un quadro congetturale più ampio. I copernicani hanno accettato subito il telescopio mentre i tolemaici no. E’ stata poi la storia successiva a confermare la teoria copernicana.
Le posizioni antitecnologiche alla Heidegger (solo un dio ci può salvare dalla tecnica), credo che vadano viste più all’interno di un quadro storico-sociologico che filosofico. Esse non sono altro, a mio parere, che il retaggio della contrapposizione fra “sapere” e “fare”, fra arti meccaniche e arti liberali, fra il sacerdote e l’ingegnere, ecc. Una contrapposizione che ha le sue radici in concezioni classiste della società (non importa che oggi siano portate avanti da intellettuali della sinistra).
Fino a che l’influenza della scienza e della tecnica nella società erano relativamente scarse, la contrapposizione sapere/fare trovava una sua composizione nel sistema sociale, vedi riforma Gentile, dove c’era una netta differenziazione fra percorsi del sapere e i percorsi del fare.
Oggi la ricomposizione va trovata ad altri (alti) livelli. E penso a "Rinnovare la filosofia” di J. Dewey , prefazione di Armando Massarenti, Donzelli 1998.
Vedi anche “Scienza fucina di libertà” di Armando Massarenti, e “Esperimenti per cambiare” di John Dewey, ambedue su Il Sole 24 Ore del 9 febbraio.
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sabato, aprile 19, 2003

 Informazioni

--- posted by Vittorio Bertolini ---

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Ha scritto Leone Montagnini:
>Però, dovrei confrontarmi con Pessina almeno con lo stesso numero di parole che egli usa e nella sede appropriata.

Il canale di comunicazione diretto verso il sito della FGB è: https://www.fondazionebassetti.org/contatti.htm#commento.
Ben vengano dei commenti!
E non è escluso che tra un po' ci sia un intervento dello stesso Pessina (è già stato contattato).
Martedì prossimo, intanto, è prevista la pubblicazione di alcuni commenti di Giuseppe O. Longo e di Elisabetta Volli.
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venerdì, aprile 18, 2003

 Le patate transgeniche e i "perché" dei filosofi

--- posted by Leone Montagnini ---

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Le Patate transgeniche e i “perché” dei filosofi
Di Leone Montagnini


Sei anni fa, il giorno 19 febbraio 1997, RAI 1 (nel programma “!Next?” di Videosapere) si occupò degli organismi geneticamente modificati. Mi colpirono soprattutto alcune battute di un’intervista a Chester Dickerson, presentato nel servizio come Responsabile del settore agricoltura della Monsanto. Ne riporto una trascrizione da me curata.
Ci si trova in un campo di patate, con tante pianticelle disseminate sul terreno. Dickerson mostra due piantine vicine: una tutta scheletrita, attaccata da una miriade di parassiti, l’altra, trattata geneticamente, è carina e rigogliosa. Ecco il dialogo:
Intervistatore: «Ma perché accade questo? Lei sa perché gli insetti sono tutti lì e nessuno è qui. Perché odorano qualcosa?!»
Dickerson: «No, davvero non lo so. Forse perché i primi che ci hanno provato sono subito morti e così gli altri hanno preferito non tentare e andare a mangiare l’altra pianta».
Intervistatore: «Ma ciò che uccide gli insetti non può essere pericoloso anche per l’uomo che mangia la patata? Perché?»
Dickerson: «No, perché abbiamo cambiato solo un gene ad una pianta che ne ha migliaia e migliaia, e questa tecnica è stata provata da diversi enti del governo americano e dopo tanti esami che sono stati condotti alla fine è stato trovato che questa pianta transgenica e questa pianta al naturale sono sostanzialmente equivalenti».

Non mi interessa qui entrare nelle discussioni pro o contro gli OMG. Voglio solo sottolineare il fatto che il Responsabile del settore agricoltura della Monsanto, che suppongo sia o almeno dovrebbe essere un biologo, non si era nemmeno posto la domanda circa il “perché” di quel fenomeno da loro provocato. Sembrerebbe che tutta la ricerca fosse andata avanti a tentoni, con un rozzo metodo per tentativi e errori, finché non si è giunti ad avere una pianta che resiste ai parassiti; una ricerca che evidentemente non contempla né una descrizione dettagliata del fenomeno, né la comprensione delle sue cause. Nessuno, prima del giornalista italiano (a parte forse gli insetti), sembrava essersi posto la domanda «perché quelle patate risultano così indigeste agli insetti»?
Quelle brevi battute sono paradigmatiche per capire cosa si intende quando si dice che la tecnica tende a rendersi autonoma dalla scienza, una tecnica che nemmeno si chiede “perché”. C’è internet. La usate. La usiamo. Ma vi siete mai chiesti “perché” è nata internet? Oppure, perché usiamo i protocolli Tcp/Ip anziché gli ISO OSI?
«Perché, perché, sempre a chiedersi perché, questi filosofi!», mi disse una volta un amico in ascensore. «Perché la curiosità è un sentimento innato nell’uomo», avrei dovuto rispondergli. E dobbiamo aver preso parecchio sonnifero se non ci viene più spontaneo chiederci perché!
Ecco perché anche quando si fa etica o sociologia io insisto sull’elemento di continuità. Quel che vale per Mr. Dickerson deve valere anche per noi, che abbiamo come oggetto di studio non le patate ma lo scienziato e l’industria che fanno patate. Ritengo che il nostro problema primo sia quello di capire. Ciò implica la descrizione accurata del come, la spiegazione del perché, e il tentativo – infine – di verificare se esiste la possibilità di cambiare strada, qualora ci si renda conto che si sta andando sulla via sbagliata. Insistere sui salti, senza tenere conto del prima e delle strutture di lunga durata, ci mette nella condizione scoraggiante di passivi osservatori che non possono far altro che registrare il fenomeno dell’avvento di un nuovo stato di cose in cui la tecnica (chiamiamola pure tecnologia, come piace a Pessina) si rende autonoma dalla scienza, un fenomeno spuntato all’improvviso come un fungo o giunto come un fulmine a ciel sereno, senza sapere come e perché.
Negli ultimi anni ha preso sempre più consistenza una epistemologia debolista che insiste sulle singolarità, l’imprevedibilità, l’incertezza, il caos, la complessità. Si tratta di un modo di pensare estremamente importante, a cui dedico ricerche assidue da dieci anni, in quanto vi riconosco molte virtù che non bisogna assolutamente trascurare. Esso ci ha insegnato che in molte situazioni, dell’universo naturale come di quello umano, il principio di continuità (che, non lo dimentichiamo, fu introdotto da Leibniz come una versione del principio di ragion sufficiente) non può essere applicato, perché sono impreviste e imprevedibili. Ma questo – grazie al cielo – non è vero sempre. Per cui non dobbiamo rinunciare mai a cercare di spiegare i fenomeni.

Leone Montagnini

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giovedì, aprile 17, 2003

 Sulle apparenze e Sulla tecnica tra continuità e novità

--- posted by Leone Montagnini ---

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Sulle apparenze
Io amavo rispondere a quelli che dicevano: “occorre guardare al di là delle apparenze”. Certo che è vero; ma tolte le apparenze ci saranno altre apparenze, altrimenti non vedrete niente! Perciò, occorre rendersi conto che oltre il cerchio delle apparenze non ci è possibile andare: il problema non è abolire le apparenze, ma di riuscire ad usare saggiamente i nostri occhi.

Sulla tecnica tra continuità e novità
Ho letto le parti dell’articolo di cui parlava Borrello, riportare sul sito della Fondazione Bassetti, e le ho trovate molto interessanti e stimolanti. Però, dovrei confrontarmi con Pessina almeno con lo stesso numero di parole che egli usa e nella sede appropriata.
In generale, comunque, su alcune cose concordo pienamente col discorso di Adriano Pessina. In cui tra l’altro si evidenziano molti punti di contatto con quello di Giuseppe O. Longo. Condivido l’idea che attualmente ci si trovi di fronte ad una nuova fase della tecnica, che tende quasi a rendersi autonoma affrancandosi dalla scienza (capire bene cosa significa questo non è facile. Era uno dei punti più delicati del Forum con Giuseppe O.Longo, su cui è intervenuto anche Marcello Cini, che preferiva usare la crasi “scienza-tecnica”), come pure condivido l’idea che la tecnologia tende a modificare il modo di vedere il mondo, o l’idea dell’incrocio simbiontico di biologico e tecnologico. In tutto ciò va scorta molta novità, novità con cui occorre confrontarsi. Condivido con Pessina anche l’accento etico.
Però ritengo che se si recuperasse l’aspetto continuistico, l’idea cioè che l’uomo è un animale tecnico - proprio quello che nell’esordio dell’articolo Pessina mette fuori gioco - potremmo capire molte più cose sulla attuale società tecnologica. Non ritengo che tale asserzione conduca inevitabilmente, come sostiene Pessina, al neutralismo etico sulla tecnica. Il mio richiamo alla continuità non è una negazione del momento di salto, ma un appello a cercare la struttura che permane al di sotto delle novità, per costruire una fenomenologia diacronica del rapporto tra uomo e tecnica sulla base della consapevolezza del viscerale, intrinseco, essere tecnico dell’uomo, in grado di pervenire ad una comprensione meno esteriore di ciò che sta accadendo.
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giovedì, aprile 17, 2003

 A proposito de "la verità" (alcuni estratti dal saggio di Pessina: v. post precedente)

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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«Per la scienza sperimentale la verità si trova al termine del processo sperimentale e non all'inizio: questo modello teorico è oggi pervasivo»

«Il valore del sapere dipende dal saputo»

«Tre modelli epistemologici, tre approcci alla realtà.
Possiamo, in estrema sintesi, indicare tre modelli epistemologici, che potremmo, con qualche forzatura, far coincidere anche col "senso" comune presente in tre diverse epoche storiche: il primo, che afferma l'equivalenza tra la verità e l'essere delle cose, il secondo, che indica invece in ciò che è fatto il luogo della verità, il terzo, che segna l'inizio della cultura tecnologica, che attribuisce al fattibile il connotato della verità. Detto in altri termini: ad un modello speculativo che riconosce la verità della realtà (l'intelligibilità appartiene al reale e non è il prodotto dell'attività conoscitiva umana), si sostituisce progressivamente un modello operativo, che ritiene di poter garantire valore alla conoscenza là dove l'uomo ha a che fare con qualcosa di costruito e di costruibile (l'intelligibilità è l'operazione con cui l'uomo attribuisce senso alla realtà che lo circonda perché è in grado di costruire modelli teorici ed operativi che spiegano la realtà); da ultimo, l'intelligibilità viene identificata con la progettualità e questa non ha modelli predeterminati perché si innesta nelle possibilità che continuamente si aprono attraverso l'incremento degli esperimenti.
Questi tre approcci alla realtà possono essere anche letti secondo queste categorie: il primo appartiene alla tradizione metafisica occidentale ed è proprio della cultura ebraico-cristiana, che pone nel creazionismo la fonte dell'intelligibilità del reale; il secondo, ascrivibile alla rivoluzione scientifica moderna, appartiene alla prima stagione dello sviluppo scientifico; il terzo, invece, caratterizza l'attuale situazione scientifica, nella quale cade, almeno a livello delle scienze sperimentali, la netta separazione tra tecnica e scienza e si assiste ad un incremento reciproco ed interdipendente.»

«L'assorbimento della questione della verità nella prassi e quest'ultima nella prassi tecnoscientifica porta a considerare ogni approccio ulteriore e differente come puramente soggettivo, emotivo, confessionale, nel senso di frutto di pura opzione esistenziale.»
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giovedì, aprile 17, 2003

 Continuità...

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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Leggendo gli estratti dal saggio di Pessina pubblicati nel sito della Fondazione Bassetti mi è tornato alla mente quanto diceva Montagnini nel forum di febbraio connesso al seminario di Longo: «C'è un problema che mi affligge da tanto tempo: non sopporto che si insista sui salti senza guardare alle continuità.»
Pessina, professore di bioetica alla Cattolica di Milano, ritiene che: «Chi ama sottolineare le continuità storiche tende a vedere nella tecnologia un semplice incremento della tecnica e a far sorgere quest'ultima con la storia dell'uomo, che è da sempre, se così si può dire, un "animale" tecnico, cioè un vivente che sopperisce alle sue carenze istintuali con l'invenzione di utensili atti a garantirgli la vita.».
Mi chiedevo, quindi, se Montagnini ha letto quegli estratti e che opinione si è fatto in merito alla posizione espressa da Pessina.

- Interventi di Leone Montagnini al Forum della Fondazione Bassetti intitolato "Progresso e responsabilità" (Febbraio 2003):
      - "Per una critica delle tecnologie dell'informazione"
      - "Sul genere prossimo e la differenza specifica"
      - "Il Protreptico ovvero l'Esortazione"
      - "In onore di Geymonat e della pesantezza degli attuali manuali"

- Estratti dal saggio di Adriano Pessina intitolato "Il senso del possibile e l'orizzonte del limite nella civiltà tecnologica" ("Hermeneutica", Morcelliana, 2001): sito della Fondazione Bassetti, sezione "Argomenti", Marzo 2003
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mercoledì, aprile 16, 2003

 Re (bis): L'OBBLIGO MORALE DI FILOSOFARE SULLA VERITA' [ovvero: dell'arancia e altre storie]

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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Mi è venuto in mente un appunto che presi tanto tempo fa, da un'intervista ad Antonioni pubblicata su una rivista di cinema o sul numero a lui dedicato de Il Castoro Cinema. Mi sembrava di averlo trascritto col pc, somewhereinthespace and somewhereinthetime: per cui ho cercato in uno degli hard disk la parola "arancia" (vedrete poi perché).
L'ho trovato: l'avevo riutilizzato per una nota che scrissi un po' di tempo fa (meno del primo tempo fa) a proposito del regista. Apparteneva alla versione originale del "Tout se tient" (che ancora non ho spiegato cosa sia) e, superando il pudore che mi dovrebbe trattenere dal farlo, ve la "sottopongo": l'ho "uploadata"  qui .
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mercoledì, aprile 16, 2003

 Re: L'OBBLIGO MORALE DI FILOSOFARE SULLA VERITA'

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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Ringrazio Montagnini riguardo ai riferimenti in tema di manipolazione delle informazioni.
Ho usato il termine "loicismo" come sinonimo di "logicismo" ("loico", come Montagnini ha inteso, è un arcaismo di "logico"). Essendo un "ismo" è usato allo stesso modo in cui si fa ricorso ad altri "ismi", anche se non del tutto canonici.
Il ragionamento sulla verità soffre secondo me di eccessivo rigore logico, ma è una tesi e coglie peraltro un punto di vista che può risultare efficace.
Il tema filosofico della "verità" al momento però mi "spaventa".
Preferisco limitarmi a dire che se qualcuno mi dicesse: "guarda che i soldi che hai nel portafoglio sono i miei", la mia prima reazione sarebbe di chiedermi perché lo dice (sta scherzando? è un truffatore? ha ragione? è un fesso? mi prende per fesso? ecc.). Se aggiungesse: "...perché la verità è sempre relativa", tirerei dritto.
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martedì, aprile 15, 2003

 L'OBBLIGO MORALE DI FILOSOFARE SULLA VERITA' (di Leone Montagnini)

--- posted by Leone Montagnini ---

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Borrello, come al solito, con i suoi interventi, è particolamente stimolante e spenderei delle ore a discutere delle cose che lui mi chiede. Sulla manipolazione delle informazioni intanto vorrei rimandare a un interessante articolo intitolato Il reporter va alla guerra, che trovo in calce all’articolo su I principi base per educar(ci) all'uso dei media di Alvaro Duque e Tiziana Montaldo sul sito http://italy2.peacelink.org/mediawatch/articles/art_126.html). Si trova all’interno del sito MEDIAWATCH - OSSERVATORIO SULLE MENZOGNE DI GUERRA, che è in generale un sito ricchissimo e molto interessante.
Credo sarebbe anche interessante leggere il libro MERLINO, Jacques, Les vérités yougoslaves ne sont pas toutes bonnes à dire, Paris, Albin Michel, 1993, che riporterebbe (riporto quel che si legge in internet, perché io il libro non l’ho mai letto) l’intervista a tal James Harff, direttore della Rudder-Finn Global Public Affairs, una compagnia privata di pubbliche relazioni che si sarebbe incaricata di “curare” l’immagine di croati e musulmani di Bosnia, riuscendo a rimuovere dalla memoria collettiva il fatto che, durante la II Guerra mondiale, costoro avessero collaborato fattivamente con i nazisti per lo sterminio degli ebrei, permettendo così – di questo si sarebbe vantato – di consentire l’equazione serbi=nazisti, nonostante che al contrario i serbi avevano generosamente aiutato gli ebrei che vivevano in Serbia. Tal Mike Digel, dell’agenzia di relazioni pubbliche Hilí & Knowlton, avrebbe invece curato il look del Kuwait ai tempi della prima guerra del golfo contro l’Irak. (cfr. http://www.geocities.com/or4521/manipulacion.htm). Mi limito a citare le fonti che ho.

Il mio ragionamento sulla verità soffre di loicismo? (Chiedo venia a Borrello, ma mi potrebbe spiegare meglio che significa “loicismo”, che mi pare una bella parola e che credo di capire, ma che non ho trovato sul mio caro dizionario Garzanti). Comunque. La verità è una, le menzogne infinite. Non è per questo motivo che si fanno gli interrogatori cercando di indurre l’interrogato a contraddirsi? Oppure, che si fanno i confronti all’americana? Per questo i due giudici della storia biblica di Susanna si contraddicono. D’altro canto sottoscrivo completamente anche quanto scrive Borrello: va tenuto conto del caso in cui «chi mente possa essere convinto (o possa convincersi) della propria versione. Se io, sapendo di mentire, sostengo che la mela è gialla, posso poi auto-convincermi che essa è effettivamente gialla (e il processo di auto-convincimento può essere anche inconsapevolmente strisciante). A quel punto sarà molto difficile che mi contraddica».
Personalmente vorrei infierire ancor di più contro la mia tesi - che comunque continuo a sostenere - portando alla vostra attenzione due casi che complicano ancora di più la questione. Ci sono situazioni in cui si hanno più versioni dello stesso accadimento, ed altre in cui si dispone di molte versione coincidenti. Ebbene: ci potrebbe essere nel secondo caso solo una forte manipolazione, tanto da ridurre al silenzio tutti i dubbi e le voci di dissenso; per cui ci sarebbe più verità dove abbondano versioni divergenti, non dove c’è una sola versione. Ma c’è anche un altro caso più complicato: quello delle situazione polimorfe. Esempio: si ammetta di avere una mela rossa che è da una parte e verde dall’altra. In questo caso dire «La mela è rossa» è una affermazione vera, anche se parziale, e lo è anche «La mela è gialla». Potrebbe accadere che qualcuno la veda solo dalla parte rossa, e un altro solo dalla parte verde. Si potrebbe anche litigare avendo ragione entrambi. I peggiori conflitti sorgono quando entrambi hanno ragione non quando è facile stabilire chi è il colpevole: perché in quel caso è il processo di verifica che conferma entrambi i contendenti nelle loro diverse posizioni.

Nonostante sia diffusa l’idea che la “verità non esiste” (A questa affermazione è stato recentemente dedicato un bellissimo libro: D’AGOSTINI, Franca, Le disavventure della verità, Torino, Einaudi), siamo tutti “utenti” della verità, cioè di categorie e di procedure veritative: il medico, lo scienziato, il magistrato, l’avvocato, il giornalista, il lettore, il politico, il contabile, ecc. compiono verifiche, dicono è vero ecc. Se qualcuno ci dicesse: guarda che i soldi che hai nel portafoglio sono i miei perché la verità è sempre relativa, come reagireste?
Ho sempre pensato che sarebbe interessante studiare con i metodi del sociologo le concrete procedure veritative della vita di tutti i giorni. E farlo con gli strumenti del scientifici del sociologo sarebbe davvero filosofico!
Interrogarsi sulla verità. Per anni ho pensato che sarebbe stato interessante, oggi ritengo sia obbligatorio.
Cari Saluti a tutti
Leone Montagnini
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martedì, aprile 15, 2003

 Lies, Language, and Ethics

--- posted by Sylvie Coyaud ---

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Il 21 maggio a Parigi, la Bibliothèque Nationale organizza uno dei suoi incontri internazionali. Stavolta il tema è Lies, Language, and Ethics. Con J Derrida, E Fox Keller, R Hoffmann e altri.
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martedì, aprile 15, 2003

 Re: Blog e giornalismo: analisi (e autoanalisi)

--- posted by Sylvie Coyaud ---

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A proposito di informazione creativa, vedi l'articolo di Seymour Hersh "Who Lied to Whom", The New Yorker, 31 marzo 2003.

Ma cambia qualcosa che le informazioni siano esatte o no?
L'idea che le interpretiamo logicamente - superando criteri soggettivi, giudizi e pregiudizi sulla fonte, interessi, credenze, fantasie ecc - serve agli economisti, ma ne ridono anche loro, no?
Il signore di prima aveva riportato una presunta notizia scientifica (scoperta di un pianeta extrasolare). Si sarà reso conto che l'assenza di fonti privava tutti della possibilità di giudicarne, o soltanto di controllare se l'ha creata da sé.
Chissà se pensa di essere credibile lo stesso, e se sì in base a che cosa?

Detto questo, ieri il Corriere titolava "Polmonite atipica: scoperto il DNA", lasciando pensare che una malattia abbia un DNA; Il Giorno intervistava con la massima serietà il premio Nobel per la chimica Kary Mullis, come se lui non avesse scritto della propria condizione psichica a dir poco particolare, mentre La Repubblica parlava della scienza della felicità
Oggi ho fatto sciopero dei giornali.
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lunedì, aprile 14, 2003

 Re: Blog e giornalismo: analisi (e autoanalisi)

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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> Borrello mi sembra porre alla nostra attenzione un problema delicatissimo, cioè quello della manipolazione delle informazione giornalistiche ed in generale quello della costruzione sociale della realtà, con blog o senza blog.

Vero.

> Ma troppo lungo sarebbe il discorso ora.

Vero anche questo. Ma forse può aiutarmi con una sintesi della sua posizione, cioè: lei, facendo riferimento a quelle opere e a quegli autori, che cosa pensa?

>potrei citare numerosi esempi tratti dalla storia della scienza ed alcune riflessioni epistemologiche in proposito sulla dialettica tra dogmatismo e innovazione nella scienza, non sempre a favore dell'innovazione

Senza impegno da parte sua, sarebbe molto interessante conoscerle, soprattutto con riferimento all'attività della Fondazione Bassetti: potremmo citarle nel sito.

>La verità è difficile che si mostri agli uomini, forse è impossibile. Ma la menzogna è per fortuna ancora più evidente, perché alla lunga si dimostra contraddittoria.

L'esempio sulla menzogna pecca, secondo me di loicismo. Infatti, da un lato è convincente, ma dall'altro non tiene conto di un aspetto che, a mio parere, è invece molto rilevante. E cioè: il fatto che chi mente possa essere convinto (o possa convincersi) della propria versione. Se io, sapendo di mentire, sostengo che la mela è gialla, posso poi auto-convincermi che essa è effettivamente gialla (e il processo di auto-convincimento può essere anche inconsapevolmente strisciante). A quel punto sarà molto difficile che mi contraddica. Salvo che... non voglia nuovamente mentire. Il caso, io credo, è meno teorico o surreale di quanto sembri. E poi: se non c'è dolo, mento ancora o il caso viene "derubricato" in altro modo? E' chiaro che non pongo l'interrogativo come fine a se stesso: basta trasporlo all'attività del giornalista.

La storia di Susanna e dei Vegliardi mi incuriosisce: cercherò di leggerla (prima devo trovarla).

Grazie e a presto
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lunedì, aprile 14, 2003

 Derrick De Kerckhove sui blog

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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Intervista a Derrick De Kerckhove:
«L’informazione atipica dei blog come
antidoto alla spettacolarizzazione della guerra»

7 aprile 2003

di Stefano Porro

LA STAMPA

Il testo dell'articolo è pubblicato in http://www.lastampa.it/redazione/news_high_tech/ngverit%E0.asp
(se il testo verrà messo off-line, potete richiedermelo)

Segue l'estratto relativo ai blog.
[...]

- Rispetto alla prima Guerra del Golfo, oggi chi vuole trovare notizie “alternative” rispetto a quelle diramate dalle fonti ufficiali può servirsi della rete, e soprattutto dei war-blog. Ritiene che questo sia un tipo di informazione valido e affidabile?

La validità dei blog è direttamente proporzionale a quella della comunicazione tra la gente. Quando una o più persone parlano tra loro, realizzano una condivisione di forze che va a vantaggio di ogni singolo partecipante alla discussione, durante la quale si tenderà a dare maggiore credito a chi comunica le informazioni più interessanti. Lo stesso accade con i blog, i cui gestori si guadagnano la reputazione sul campo: se da un lato le notizie da loro diffuse non hanno nessun tipo di filtro, dall’altro si auto-garantiscono in base all’affidabilità di quello che scrivono. Nel caso del conflitto bellico, questo aspetto è ancora più importante. Solo i blog che sono in grado di diffondere informazioni e opinioni realmente alternative, favorendo aspetti di guerra che i media tradizionali non lasciano passare (aspetti personali, materiale fotografico non allineato, documentazioni riservate…) conosceranno un successo di critica e di pubblico.

- Ma questo dovrebbe essere il compito svolto dai giornalisti. Sta forse dicendo che i blog stanno sostituendo i professionisti dell’informazione?

Non c’è niente di più diverso tra un giornalista e un blogger. Il primo svolge una mansione editoriale formalizzata da pratiche e procedure. Il secondo invece comunica attraverso la rete attraverso processi del tutto informali, molto simili ai rapporti inter-personali, che ben poco hanno a che vedere con la professione giornalistica. I weblog sono la realizzazione di quella che, alcuni anni fa, ho definito come “intelligenza connettiva” della rete.
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giovedì, aprile 10, 2003

 Tornano "Le Oche di Lorenz"

--- posted by Sylvie Coyaud ---

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Dal 5 maggio "le oche di Lorenz" tornano col titolo "il volo delle oche" su Radio24 dal lunedì al venerdì alle 13 05 in diretta, alle 23 30 in differita e riascoltabile sul sito della radio. Stessi temi - la ricerca di base - sponsor, consulenti e conduttori, con qualcuno di questi dall'esterno perché migrato nel frattempo.
per le frequenze cf www.radio24.it/fre_pag.htm

["Le Oche di Lorenz" nel sito della Fondazione Bassetti (cliccare) -- 10 aprile 2003, G.M. Borrello]
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martedì, aprile 08, 2003

 Re: Blog e giornalismo: analisi (e autoanalisi)

--- posted by Leone Montagnini ---

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La citazione di Gian Maria Borrello mi sembra molto importante per la sua attualità (ho anche letto l'articolo di Carotenuto che merita essere letto). Borrello mi sembra porre alla nostra attenzione un problema delicatissimo, cioè quello della manipolazione delle informazione giornalistiche ed in generale quello della costruzione sociale della realtà, con blog o senza blog.
Sarebbe interessante ragionare con calma su questo discorso seguendo il percorso filosofico dalla pistis (credenza) della "Repubblica" di Platone fino a "Verità e metodo" di Gadamer (che recupera il ruolo del pregiudizio nella conoscenza). Oppure l'itinerario della psicologia sociale, da quella europea di inizio secolo - da cui presero spunto sia Goebbels che Hitler stesso (consiglierei in proposito di leggere lo stesso Mein Kampf, da poco ripubblicato in una versione critica che ritengo preziosa; magari insieme a "Psicologia di massa dei fascismi" di Reich; Se questo è un Uomo di Primo Levi) fino alla interessantissima psicologia sociale americana, rinata negli Stati Uniti da Kurt Lewin in poi. In sociologia un interressantissimo percorso è stato avviato dai sociologi che si sono ispirati in vario modo a Husserl (soprattutto l'Husserl del mondo della vita della "Crisi delle scienze europee"), tra questi Berger e Luckmann nel loro stupendo libro su "La realtà come costruzione sociale". Ma troppo lungo sarebbe il discorso ora.
Devo confessare che non ho capito quel che dice Sylvie Coyaud, secondo la quale «Il paragone tra notizia scientifica e bellica è molto ingenuo». Il modo in cui si gestisce la "verità" nella scienza è estremamente complesso, certamente la scienza ha bisogno di una buona dose di conservatorismo e di fede per esistere (potrei citare numerosi esempi tratti dalla storia della scienza ed alcune riflessioni epistemologiche in proposito sulla dialettica tra dogmatismo e innovazione nella scienza, non sempre a favore dell'innovazione). Comunque negli ultimi anni sono emersi dei veri e propri casi di manipolazione intenzionale della notizia scientifica. Proprio a proposito dell'astrofisica. Ricordate la storia del meteorite in Antartide che si diceva contenesse dei reperti fossili di organismi marziani? Ebbene, ho letto - mi pare, ma dovrei controllare - sul Tuttoscienze della Stampa, che si trattava di una bufala, costruita a bella posta probabilmente per propagandare le rinascenti ricerche spaziali riguardanti marte (es. pathfinder). D'altra parte mi spiegate come è possibile stabilire che una roccia trovata sulla terra venga da Marte? e per di più come si può determinare che un micro-organismo fossile trovato su quella roccia sia di origine marziana. Si dà il caso che, essendo la terra piuttosto densamente popolata da materiale vivente ed essendo il meteorite arrivato come una palla di fuoco (così il National Geographics lo descriveva) avrebbe potuto benissimo contaminato di vita terrestre dopo l'impatto, o no?
Ho anche letto che era un'altra bufala anche la storia del lago che si sarebbe improvvisamente formato in Antartide. Quando uno legge queste cose dovrebbe poi raccoglierle e confrontarle, come fa il protagonista di "1984" di Orwell, che scopre un pezzo di giornale che contraddice una diversa versione e comincia a capire.
La verità è difficile che si mostri agli uomini, forse è impossibile. Ma la menzogna è per fortuna ancora più evidente, perché alla lunga si dimostra contraddittoria. Vi spiego perché: prendo una mela rossa, la vediamo tutti che è rossa, molto probabilmente è rossa. La verità - o almeno la presunta verità che la mela sia rossa - è UNA, invece la sua negazione è costituita da un numero molto grande di proposizioni possibili: "la mela è gialla", "la mela è verde" ecc. Così è non è molto difficile stanare il bugiardo, perché si contraddice. Una volta ti dirà: sì l'ho vista, la mela era verde; un'altra sì l'ho vista, la mela era gialla e così via. Leggete la storia di Susanna e i Vegliardi nella Bibbia, ha qualcosa di molto interessante da insegnarci su questo nostro problema.
Grazie dell'attenzione e cari saluti a tutti.
Leone Montagnini
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lunedì, aprile 07, 2003

 Re: Blog e giornalismo: analisi (e autoanalisi)

--- posted by Sylvie Coyaud ---

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Il paragone tra notizia scientifica e bellica è molto ingenuo. La "notizia" di astrofisica, così com'è descritta, sta nella pubblicazione di certe misure. Parlare di "verità del fatto" è strano. La pubblicazione è il fatto, la sua "verità" sta nella correttezza delle procedure usate per ottenere le misure - matematica, strumenti ecc. L'interpretazione non è una notizia né un fatto né una verità: è una proposta di spiegazione delle misure che sarà paragonata ad altre possibili dai lavoratori del settore.
Funzioni e ambiti di riferimento della comunicazione sono diversi, stupisce che siano così confondibili. Il signore Carotenuto, se sta a Roma e deve venire qui e gli dico che a Milano c'è il sole, che fa? Prende il treno, viene a controllare, poi torna a Roma a prendere l'ombrello?
(mi preoccupa un tantino questa visione della "notizia scientifica", credevo fosse un abbaglio esclusivo dei capiredattori e direttori di giornali!)
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venerdì, aprile 04, 2003

 Blog e giornalismo: analisi (e autoanalisi)

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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[BackTracking: www.mantellini.it => www.bookcafe.net/blog/blog.cfm?id=82 => www.fub.it/telema/TELEMA4/Caroten4.html]

QUOTE
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"Il giornalista lavora in tempo reale con fonti che riportano la verità di altri. Ma è un problema meno nuovo di quanto sembri. Nella scienza, per esempio, la maggior parte dei ricercatori fa riferimento a esperimenti realizzati da altri, a fatti non controllati in prima persona e, tuttavia, dati per acquisiti. La notizia, recente, della scoperta di nuove galassie e di pianeti la cui composizione potrebbe essere simile a quella della Terra è un dato scientifico ovviamente non verificabile non soltanto per i profani ma anche per la maggior parte degli scienziati. Convenzionalmente ci si fida. A meno di non ipotizzare una congiura di alcuni membri della comunità scientifica che avrebbero deciso di diffondere informazioni non veritiere, si è per forza di cose passivi dinanzi a questo genere di notizie e la verità del fatto viene sistematicamente delegata. A questo proposito, ricordiamo cosa può succedere nei regimi dittatoriali in cui l'informazione è pilotata dal gruppo dirigente. Nella Germania nazista Goebbels usava dire che una bugia, purché venga ripetuta in continuazione, diventa fatalmente una verità. Ora quello che può accadere e di fatto accade è che il giornalista, sommerso dalle informazioni, non controlla più nulla di quello che scrive perché la verità di un'informazione sembra dipendere dal fatto che sia stata comunicata."

-- (Aldo Carotenuto su Telema, citato da Giuseppe Granieri in http://www.bookcafe.net/blog/blog.cfm?id=82) --
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mercoledì, aprile 02, 2003

 Più di un milione di blog

--- posted by Gian Maria Borrello ---

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"La rete in guerra"

Alla metà degli anni novanta molte persone che avevano a cuore il futuro del giornalismo erano in fermento a causa di una teoria che prevedeva la “morte del redattore”.

di David Randall (*)

Estratti
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«Alla metà degli anni novanta molte persone che avevano a cuore il futuro del giornalismo erano in fermento a causa di una teoria che prevedeva la “morte del redattore”.

La tesi era che internet, mettendo i lettori in contatto diretto tra loro e dando a tutti accesso alle fonti delle notizie, avrebbe reso superflua la mediazione dei redattori. Come tutte le teorie su ogni nuovo mezzo di comunicazione, anche quella era destinata a mancare il bersaglio, e di molto. È raro, infatti, che le invenzioni si comportino come prevedono i loro artefici o i loro sostenitori, ed è proprio per questo che mi sono sempre rifiutato di fare pronostici sui possibili effetti di internet sul giornalismo. Ma oggi credo che nel mondo dell’informazione stia succedendo qualcosa di strano: forse stiamo cominciando a scorgere il primo effetto duraturo della rete sul giornalismo. Ad accelerare questo processo è la crisi diplomatica sull’Iraq e la guerra imminente.

(...) Così il processo attraverso cui ogni giornalista prende spunto dagli articoli dei colleghi e li approfondisce – processo un tempo limitato ai giornali dello stesso paese – si sta globalizzando.

(...) Prendiamo per esempio il fenomeno dei blog, cioè quei siti dove un utente mette in rete i link che ha trovato su un determinato argomento. Molti di questi blog rimandano a pagine web che non hanno nulla a che vedere con i media tradizionali, e offrono un misto di spigolature scritte dalla persona che cura il blog e testi inviati da lettori. Alcuni blog riguardano l’attualità, altri trattano argomenti molto specifici. Tutti sono contraddistinti da un’intimità che i media tradizionali non hanno.

In mancanza di una definizione migliore, dirò che sono giornali online non convenzionali, e si stanno diffondendo a un ritmo incredibile. Ne esistono già un milione e 400mila, e centinaia di blog sono ormai diventati una tappa quotidiana obbligata per i lettori di tutto il mondo. Il motore di ricerca Google è talmente interessato alle loro potenzialità che ha comprato una delle imprese che produce software per i blog.»

(*) David Randall
Giornalista britannico nato a Ipswich, in Inghilterra, nel 1951. Nella sua carriera ha collaborato con giornali britannici, africani, statunitensi e russi. Dal 1998 scrive per l'Independent on Sunday di Londra. È l'autore di The universal journalist, che sarà pubblicato in Italia da Laterza.

Questo articolo
È stato pubblicato sul numero 478 di Internazionale, 6 marzo 2003


-- Testo integrale nel sito de L'Internazionale , traduzione di Marina Astrologo --
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