Recensione di Vittorio Bertolini [ * ]
del libro di Massimiano Bucchi "Scienza e società"

«La rivoluzione del modo di produzione dell'industria e dell'agricoltura resero necessaria la rivoluzione dei trasporti» scrive Marx nel libro I de "Il capitale"".

 Links: 

right.gif (841 byte)L'eolipila di Erone [su www.museoscienza.org]

right.gif (841 byte)James Watt [su www.museoscienza.org]

Anche se nessuno dubita che l'intervallo di ben due millenni fra l’eolipila di Erone e la macchina a vapore di Watt sia dovuto al fatto che la società greco-romana del primo secolo aveva molto meno bisogno di energia dell’Inghilterra della prima rivoluzione industriale, non altrettanto unanime è la condivisione del rigido determinismo fra struttura sociale e innovazione tecnico scientifica, implicito nel testo marxiano.

Aver posto sullo sfondo l’influenza del mutamento sociale sulla scienza per porre al contrario in primo piano la complessità delle regole che governano la comunità scientifica e dei modi con cui gli scienziati si rapportano con la società, è uno dei pregi maggiori dell’agile volume, "Scienza e società" edito da Il Mulino 2002, con cui Massimiano Bucchi, che insegna Sociologia della Scienza all’Università di Trento, fa il punto sulle interazioni, ogni giorno sempre più intense, fra i problemi di carattere scientifico e tecnologico e le questioni dell'interesse pubblico.

L’approccio di Bucchi consente una lettura de-ideologicizzata della figura dello scienziato, sottraendola allo stereotipo di agente consapevole o inconsapevole del nuovo ordine capitalistico, ed esaltandone invece la responsabilità di fronte alle esigenze sociali, ai vincoli economici e alle pressioni politiche che sempre più investono il mondo della ricerca scientifica.

Attraverso case studies che vanno dall’esperimento di Pasteur sul carbonchio fino alla mappatura del Genoma umano, Bucchi mostra come la scienza sia oltre che un’attività cognitiva anche un’attività sociale, nel senso che i suoi successi e insuccessi sono connessi ad esigenze socio-economiche il più delle volte estranee alla ricerca della conoscenza. Ciò che non significa, però, restituire alla scienza un qualche dimensione sovrastrutturale. Se è vero infatti che «Non possiamo prendere i batteri di Pasteur senza prendere la società e la politica francese dell’Ottocento, o la lampadina di Edison senza l’economia americana», è altrettanto vero che «le strategie politiche oggi sono troppo piene di embrioni e cellule staminali per poterle ridurre agli interessi». L'interazione fra interessi e ricerca è troppo complessa perché quest'ultima possa essere facilmente ridotta a quelli. Se le scoperte nel campo della polimerizzazione che hanno fruttato il Nobel a Giulio Natta possono essere per un certo verso riconducibili allo sviluppo dell'industria chimica italiana del dopoguerra, sarebbe molto difficile ricondurre a un interesse diverso da quello della conoscenza scientifica, la scoperta nel 1953 di Crick e Watson della struttura "a doppia elica", una ricerca che anche se sviluppata in un piccolo laboratorio, si è rivelata poi decisiva sul piano dell’affermazione economica delle applicazioni della microbiologia.

Bucchi ripercorre la storia della sociologia della scienza dai primi studi di Robert. K. Merton che collegavano «lo sviluppo istituzionale della scienza alla diffusione di particolari valori religiosi, così come aveva fatto Max Weber per la nascita del capitalismo», fino all’actor-network theory di Bruno Latour e Michel Callon e agli Science and Technology Studies: «Un enunciato o un risultato scientifico può procedere... solo se una complessa rete di attori - a cominciare dai colleghi che citano il vostro risultato oppure che lo criticano - se lo passa di mano in mano».

Credo importante, inoltre, sottolineare come la lettura in chiave sociologica di autori come Nagel, Kuhn, Feyerabend consente di azzardare l’ipotesi che una certa difficoltà alla comprensione della scienza, nonostante la copertura sempre più diffusa dei "fatti scientifici" da parte dei media, sia dovuta al fatto che nell’opinione pubblica la concezione epistemologica prevalente sia quella vetero-positivista. In altre parole, il cosiddetto "analfabetismo scientifico" è più da ascrivere all’ignoranza delle "ragioni" e dei "modi" della scienza che dei "fatti" scientifici. Altrimenti non si riuscirebbero a spiegare casi come l’esperimento beffa di Alain Sokal (in cui il fisico newyorkese riuscì a far pubblicare da una rivista di studi umanistici un saggio pieno di errori scientifici) o, per restare in un ambito più provinciale, il caso Di Bella.

Scrive Bucchi, a proposito della difficoltà per la sociologia della scienza a sciogliere il nodo fra "natura" e "cultura", che è appunto prima di tutto una questione squisitamengte epistemologica: «di qua i fatti, i microbi, i missili, i prioni. Di là la società, le preoccupazioni degli ecologisti, gli interessi delle aziende farmaceutiche, le intenzioni dei capi di stato. Di qua Boyle, che vede una garanzia di accordo comune nella sua pompa per il vuoto. Di là Hobbes, per il quale è inconcepibile un accordo sulla conoscenza che prescinda dalla dimensione politica». E se il passato ha visto la vittoria di Boyle, nel presente sia l’"affaire Sokal" che il "caso Di Bella" (ma possiamo aggiungere anche l’esperimento sulla fusione fredda di Pons e Fleichmann), evidenziano che non possiamo trascurare Hobbes.

 Link: 

right.gif (841 byte)L'affare Sokal di Nicola Caleffi e Luciano Floridi [sul Sito Web Italiano per la Filosofia - http://lgxserver.uniba.it/lei/]

Gli editori di "Social Text" hanno accettato acriticamente il testo beffa di Sokal perché "suonava bene e lusingava i loro preconcetti ideologici"; nel caso Di Bella l’opinione pubblica è stata sollecitata recuperando l’immagine del medico "paternalista e personalistico" rispetto alla freddezza e alla asetticità della medicina tecnicizzata; l’esperimento della fusione fredda è caduto in un contesto in cui, dopo gli shock petroliferi e il disastro di Cernobyl, il timore del blocco energetico era in prima fila nell’agenda politica.

Come la ricerca scientifica si confronta con le aspettative e i timori dell’opinione pubblica è il fulcro del capitolo in cui Bucchi analizza le modalità di comunicazione della scienza. Se nel passato la comunicazione scientifica seguiva una struttura a cascata in cui il paper, denso di dati empirici e tabelle e diagrammi, veniva tradotto in un testo per "periodici ponte" come "Nature" e "Science" per poi raggiungere la stampa quotidiana, assistiamo oggi ad una inversione di tendenza, in cui pare prevalere prioritariamente un modello di comunicazione che privilegia l’uso dei media più popolari, che proprio per la loro natura devono fare affidamento su «una maggiore quantità di immagini metaforiche e una marcata attenzione a problemi riguardanti la salute, la tecnologia e l’economia». Poiché questo mutamento è una conseguenza del fatto che senza un’adeguata copertura giornalistica, garantire una posizione privilegiata nella distribuzione delle risorse per la scienza, è evidente che il tipo e il modo della comunicazione non è neutrale rispetto agli indirizzi della ricerca scientifica. Sottoporre il lavoro alla stampa quotidiana significa anche pubblicare in gran fretta, senza attendere i tempi della peer-review (la revisione e il controllo di un articolo svolta da parte di colleghi esperti) significa raggiungere prima gli opinions e policy makers, producendo un processo di "deviazione" che legittima un contenuto scientifico ancora indefinito a livello specialistico. «Nell’immagine, ampiamente pubblicizzata del "buco dell’ozono" [gli scienziati che sostenevano la relazione tra Cfc --cioè il gas delle bombolette spray e di altre apparecchiature-- e assottigliamento dello strato di ozono] trovarono un modo per allertare ricercatori, politici, ambientalisti… che portò indirettamente a rafforzare [nell'opinione pubblica] lo stato di conoscenze che a livello specialistico erano ancora ampiamente dibattute».

«Scienza, politica e business sembrano ormai inestricabilmente collegate e in grado di influenzarsi reciprocamente» cosi si esprime Bucchi nell’ultimo capitolo che significativamente porta il titolo "Una nuova scienza?". Se Craig Venter e il caso Celera sono emblematici dello scienziato che si fa imprenditore, a livello più generale assistiamo al fenomeno di una ricerca in cui il finanziamento pubblico viene sostituito dal finanziamento privato; con riferimento alla realtà americana abbiamo che "la percentuale di ricerca accademica finanziata dal governo federale è passato nel frattempo dal 68% del 1980 al 56% del 1993".

Ma questo non significa che la scienza abbandoni il paradigma mertoniano di attività disinteressata, significa solo un mutamento nella dialettica scienza-società. Se negli scorsi decenni la ricerca scientifica era segnata dalla preponderanza degli interessi politico-militari nella direzione della big science, la nuova scienza appare caratterizzata «da una maggiore vicinanza ai contesti applicativi, da una maggiore interdisciplinarità, da un’eterogeneità degli attori e delle istituzioni coinvolte e infine da quelle che i commentatori definiscono "riflessività" e "responsabilità" sociale».

Una delle parole che ricorre con più frequenza nel testo di Bucchi è "negoziazione". Lo scienziato non gode di una centralità a priori, ma deve negoziare il proprio ruolo attraverso un confronto continuo con i consumatori, i politici, gli imprenditori, i sindacati, i poteri locali e le varie forme di partecipazione in cui si organizza la società.

Ciò ci consente di stabilire un parallelismo abbastanza stretto con alcuni elementi del sondaggio Fondazione Bassetti-Poster. Il grande pubblico ha molta fiducia nella scienza, ma un po’ meno negli scienziati, e d’altra parte ha molta fiducia in quegli attori che più di altri sembrano rappresentare l’interesse pubblico (associazioni consumatori ecc.). Questo significa che lo scienziato deve uscire dall’autorefenzialità e mettersi nella logica che la sua attività vada continuamente negoziata sia nei suoi fini che nei suoi metodi.

(5 aprile 2002)

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[*]Vittorio Bertolini (right-sfondochiaro.gif (838 byte)Scheda biografica) collabora con la Fondazione Giannino Bassetti
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