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Introduzione Non cè stato certamente bisogno della tragedia delle Twin
Towers per comprendere che la percezione del rischio e dellinsicurezza pervade gran
parte della nostra società. Viviamo ormai nella "società del rischio" (il
testo già classico di Ulrich Beck con questo titolo risale alla metà degli anni '80). |
Interventi
3 dicembre 2001
From: Marlene DI COSTANZO
Subject: Re: Tematiche del Forum
Nella risposta a Daniela Mainardi si dice che non è affatto scontato che è ovvio,
riferendosi al fatto che i mass media "ovviamente" influiscono sulla percezione
che ci facciamo del rischio. Non voglio entrare nel merito, anche perchè il tutto mi
sembra un gioco di parole fra ovvio e scontato. Quello che mi interessa rimarcare è che
si dia per scontato che per "rischio biotecnologico" si intenda solo ciò che in
qualche modo attenta alla salute umana. Non nego che in gran parte ciò sia vero, non
dobbiamo dimenticare però che esistono anche casi in cui il rischio biotecnologico (ma
forse non solo biotecnologico) viene inteso in un altro modo.
In questo momento sto raccogliendo materiale per una tesi sulla clonazione; ebbene non
c'è nessuno (escluso Antinori) che non dica che la clonazione sia un rischio. Però...
mentre molti scienziati si oppongono alla clonazione per timore delle conseguenze sulla
salute dell'individuo clonato, molti altri invece paventano il rischio che il clonato si
troverebbe in uno stato di dissociazione della propria identità personale, altri ancora
nella clonazione vedono il rischio di una società di replicanti dove la massificazione
viene portata alle estreme conseguenze.
Tre condizioni di rischio decisamente diverse che implicano soluzioni e responsabilità
diverse. Infatti mentre nel primo caso il rischio che il soggetto clonato possa nascere
con malformazioni rapidamente invalidanti probabilmente potrà essere sanato con il
progresso della biomedicina, nel terzo caso il rischio è invece assoluto.
Poiché, se ho capito bene, scopo del focus è quello di analizzare la dinamica della
percezione del rischio nella società dell'informazione ma anche delle biotecnologie,
credo che una riflessione sui vari concetti di rischio sia necessaria. In fin dei conti
quando a proposito di ogm si parla di principio di precauzione abbiamo due
interpretazioni. La prima che ci dice che in ogni sperimentazione dobbiamo utilizzare il
massimo della cautela, la seconda che in pratica afferma che le cautele non sono mai
troppe.
Credo che nella dialettica fra associazioni di consumatori e scienziati e imprese, una
definizione un po' più precisa del concetto di rischio applicata ai singoli casi possa
essere un aiuto non indifferente per la "governance" del rischio.
Distinti saluti
Di Costanzo Marlene
(Laureanda in filosofia del diritto, Università di Bologna)
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Opinioni riguardo al servizio mandato in onda dalla trasmissione RAI "Report" nella puntata del 5 novembre 2000 |
10 dicembre 2001
From: Gian Maria BORRELLO
Subject: Re: Opinione sul servizio di Report
Ringrazio Foschini e Lanfranchi per il loro contributo. [vedi]
L'intervento di Foschini contiene una frase che, io credo, è il nodo di congiunzione col
FOCUS sulla PERCEZIONE DEL RISCHIO: «E' importante che la gente sia convinta di poter
controllare gli eventi, non tanto che sia effettivamente in grado di farlo».
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Segue dagli interventi precedenti |
10 dicembre 2001
From: Domenico LANFRANCHI
Subject: Viviamo in una società del rischio?
Viviamo in una società del rischio? Può essere, ma allora come dobbiamo chiamare la società preindustriale? Chiunque abbia anche solo un'infarinatura di demografia storica sa che prima della rivoluzione industriale le condizioni di vita erano terribili e che la speranza di vita media di rado arrivava a trent'anni (oggi supera i 60 anni a livello mondiale e si sta avvicinando agli 80 nei paesi industrializzati). Scrive A. Bellettini: "I documenti che ci sono pervenuti dimostrano che normalmente un quarto dei nati moriva entro il primo anno di vita; ma non di rado l'eliminazione raggiungeva e superava un terzo delle nascite, mentre la metà dei nati di una generazione non superava il quinto anno di età". Confrontata con una situazione del genere appare rosea persino quella attuale di paesi come l'Afganistan o il Mozambico.
Perché allora ci sembra di essere tanto minacciati, se invece l'umanità non ha mai avuto in passato probabilità di sopravvivenza paragonabili a quelle attuali?
Prima di tutto è proprio la nostra attuale sicurezza che ci fa avvertire di più il rischio: quando l'esistenza era talmente precaria che sì e no un quarto dei nati arrivava all'età adulta, il rischio faceva talmente parte della quotidianità da non essere più avvertito come tale, o meglio da essere accettato come un elemento strutturale ed ineliminabile della vita, che era il più delle volte affrontata con uno spirito di rassegnato fatalismo.
Inoltre il passato è avvertito in generale come più sicuro perché l'abbiamo superato e siamo arrivati fino ad oggi; l'insicurezza che riguarda le prospettive future è viva e presente, l'insicurezza del passato è un lontano ricordo (se e quando c'è!), ce n'è abbastanza per mitizzare il passato, specialmente se è lontano e se nessuno ne ha memoria diretta; aiutati anche da una pubblicità compiacente, si favoleggia così di un epoca in cui i cibi erano genuini, tutti si aiutavano e non c'erano tutti i pericoli che ci sono oggi; ma chi ricorda o sa che fino a 50 anni fa certe strade appenniniche erano ancora infestate da banditi di strada che fermavano le corriere e rapinavano i passeggeri? che se il cancro era meno diffuso ciò dipendeva in buona parte del fatto che la maggior parte della gente moriva prima che si potesse sviluppare? che le ragazze fino ai primi decenni del secolo scorso riservavano un vestito bianco per seguire i funerali dei "morticini"?
Bisogna poi aggiungere che ciò cui siamo abituati tutto sommato ci spaventa di meno, anzi in generale non ci spaventa affatto. Quasi nessuno ha paura di viaggiare in auto, quasi tutti di viaggiare in aereo. Molti sono preoccupati per i rischi ipotetici degli OGM, ben pochi per i rischi reali del tabacco. Qui conviene aprire una parentesi, perché il caso del tabacco è emblematico: il tabacco fa sicuramente male (si parla di più di 60.000 morti l'anno in Italia), il mercato è controllato da multinazionali che operano per puro scopo di profitto, il terreno agricolo destinato al tabacco viene sottratto a coltivazioni alimentari, insomma ci sarebbero tutti gli ingredienti per una campagna di boicottaggio nei confronti delle multinazionali del tabacco, perché invece i no-global se la prendono con la soia ed il mais transgenici? Che siano tutti fumatori? O forse, più semplicemente, il tabacco è vecchio e lo conosciamo bene, gli OGM sono nuovi e non li conosciamo affatto. La paura è quasi sempre paura dell'ignoto. L'innovazione tecnico scientifica fa paura proprio perché tende a produrre l'ignoto.
Vediamo ora in dettaglio alcuni rischi specifici, in primo luogo il rischio alimentare.
Per secoli ci si è nutriti senza timore di cibi potenzialmente pericolosi, forse facendo di necessità virtù - perché la fame non consentiva di scartare nulla - si è giunti a considerare delle ghiottonerie cibi inquinati dai vermi, come il formaggio con le larve della Piophila casei potenziali portatrici di numerose infezioni (che qualche montanaro magari offre ancora agli amici con aria di cospirazione, insinuando che il divieto alla commercializzazione non derivi da ragioni igienico-sanitarie, ma dalla perversa volontà di proteggere i prodotti industriali, nei quali comunque "non si sa che cosa mettono dentro") o da metalli velenosi, come il grana dalle sfumature verdognole, un tempo tanto apprezzato nella bassa lodigiana (gli estimatori però ignoravano che il colore caratteristico derivava dai sali che si formavano durante la permanenza del latte in recipienti di rame); siccome il cibo era usato da tempo ed il rischio ignorato, ci si sentiva sicuri.
Se poi leggiamo ciò che scriveva il Muratori verso la metà del '700, il tempo in cui i mulini erano bianchi ci si presenta sotto una luce non propriamente rassicurante: "i deputati alla sanità hanno sommamente da vegliare che la farina e il pane, destinato all'uso del popolo, non sia loglioso, onde non si perturbi lo stomaco e la mente di chi se ne ciba. Questo sarebbe un vendere veleno. Lo stesso è da dire delle farine di frumento guasto, fava e frumentone marcio. Non sono mancati fornai e farinotti di corrotta coscienza, che a dispetto delle buone leggi di ciascuna città, vogliono e sanno smaltire il loglio e la mondiglia per buon grano e pregiudicar con ciò alla sanità del pubblico. A chi rivelerà simili assassini, s'ha da proporre premio, da ricavarsi dal gastigo de i delinquenti. Gran disordine di quel paese è, dove la povera gente si truova talvolta allogliata, senza che alcuno se ne prenda pensiero".
Non parliamo poi dei casi in cui le conoscenze erano scarse o nulle. Si pensi al dibattito sulla pellagra che si svolse in Italia nell'Ottocento: si era capito che la malattia era legata ad un'alimentazione quasi esclusivamente a base di polenta, ma non si riusciva a capire se ciò fosse dovuto a qualche sostanza nociva presente nel mais o alla mancanza nel mais di qualche elemento fondamentale. Qualcuno arrivò a pensare di proibire la polenta (chissà che cosa avrebbe suggerito il principio di precauzione). Oggi sappiamo dei nostri cibi molto più di quanto non sapessero le generazioni precedenti, ma non sappiamo ancora tutto. Che le nostre capacità d'intervento vadano oltre le nostre capacità di previsione, non è una prerogativa esclusiva del nostro tempo; accadeva anche in passato, probabilmente in misura anche maggiore di oggi. Il problema è che oggi questo ci risulta inaccettabile, vorremmo che tutto fosse sotto controllo, vorremmo essere garantiti preventivamente dell'assoluta innocuità di tutto ciò che ci riguarda, se questo non è possibile ci sentiamo in pericolo.
A risultati analoghi arriviamo se analizziamo i rischi connessi all'approvvigionamento energetico. Premesso che ci mancano dati attendibili relativi agli incidenti connessi all'energia eolica ed a quella idraulica in età preindustriale, sappiamo abbastanza bene che l'uso della legna come fonte energetica ha comportato in passato un pesante tributo di vittime per il taglio ed il trasporto, oltre all'emissione di gas serra che hanno contribuito a modificare l'andamento climatico del pianeta; analogo è il discorso per il petrolio o il carbon fossile (anche se apparentemente l'attività estrattiva comporta un più elevato tributo di vite umane, forse rapportato al potere calorico questo non risulta più pesante rispetto a quello della legna); né probabilmente il discorso è molto dissimile per quanto concerne l'energia idroelettrica e quella nucleare (almeno in termini di vite umane). Molto diverso però è l'impatto sull'opinione pubblica: 100 vittime fanno molta più impressione in un solo grande incidente che in tanti piccoli (è un altro motivo per cui l'aereo fa più paura dell'auto), spesso poi il piccolo incidente non trova eco fuori dell'ambito locale; ancora maggiore è l'impressione se le vittime sono "gente comune": l'incidente nei boschi o il disastro di Marcinelle mettono in pericolo solo gli addetti ai lavori, la "casalinga di Voghera" sarà addolorata, ma non si sentirà minacciata, non così invece per catastrofi come il Vajont o Chernobyl, che minacciano, almeno potenzialmente, tutti; più evidente risulta poi in questi casi (come anche in quelli di incidenti alle petroliere) il danno ambientale. Anche una fonte energetica relativamente pulita come il metano, non è esente da rischi, ce lo ha purtroppo ricordato la cronaca di questi giorni, ma siccome è più probabile il piccolo incidente che non la grande catastrofe, il rischio è meno avvertito. Nutriamo tutti grandi speranze nelle energie rinnovabili (solare, eolica, biogas, idrogeno, ecc.), che in teoria, per quanto siamo riusciti a prevedere finora, dovrebbero presentare rischi ridotti. Ma, poiché a priori nessuno può stabilire con assoluta certezza che queste nuove fonti di energia saranno esenti da rischio, dobbiamo forse per precauzione sospendere ogni sperimentazione fuori dai laboratori? Non si tratta di ipotesi di scuola, si pensi per esempio ai problemi di sicurezza di un impianto ad energia solare che produca idrogeno dall'acqua marina e della relativa rete di distribuzione ed a quello che potrebbe succedere nel caso di un grave evento meteorologico o di un attentato terroristico.
Un rischio particolarmente sentito è quello medico-sanitario, in quanto ci sembra inaccettabile che un'attività volta a far recuperare la salute possa contemporaneamente metterla in pericolo; le cure del passato erano forse inefficaci, ma non presentavano particolari pericoli. Anzi nella maggior parte dei casi in passato "curare" significava solo "prendersi cura", non certo prendere misure idonee a guarire il paziente; è appena il caso di ricordare che una malattia come la scarlattina, oggi considerata banale, poco più di un secolo fa poteva facilmente essere mortale. Il progresso tecnico scientifico ha fatto conseguire alla medicina successi strabilianti, ma ha fatto spesso trascurare il "prendersi cura", che pure è un necessario complemento anche delle terapie più efficaci (ciò spiega fra l'altro perché tante persone si rivolgano a presunte "medicine alternative", dall'omeopatia alla cura Di Bella, la cui inefficacia è ormai ampiamente provata); l'efficacia terapeutica ha però come contraltare anche controindicazioni ed effetti collaterali che non sempre è possibile prevedere in anticipo. In un certo senso si può dire che ogni nuova terapia rappresenta una scommessa: è una scommessa quella di E. Jenner, che decide di inoculare il vaiolo umano al bambino cui due mesi prima aveva inoculato quello vaccino, non c'è nessuna garanzia che l'esperimento abbia successo. È una scommessa quella del dottor Sabin che decide di provare su di sé il vaccino della poliomielite. Dopo aver condotto a termine con successo la sperimentazione sugli animali, Sabin sa che questo è solo un indizio, non una prova dell'innocuità del suo vaccino, l'inizio della sperimentazione sull'uomo presenta un notevole margine di rischio e decide di affrontare il rischio in prima persona. La scommessa di Sabin si può considerare vinta: ORA sappiamo che si presenta 1 caso di complicazioni gravi su 700.000 vaccinazioni, un rischio ragionevole a fronte delle centinaia di vittime che si registravano annualmente nella sola Italia per la poliomielite, ma PRIMA non c'erano prove, che le cose sarebbero andate così bene. Ora ci sono buoni motivi per ritenere che la poliomielite sia ormai eradicata e che la vaccinazione non sia più necessaria, anche questa è in una certa misura una scommessa, nessuno può avere una prova certa di ciò che accadrà. Dobbiamo forse in nome del principio di precauzione continuare a vaccinare tutti?
Proprio il caso della medicina ci offre l'occasione per riflettere su che cosa significhi valutare i rischi: non tutto può sempre essere previsto, se si può però prevedere di salvare un numero rilevante di vite umane, può essere ragionevole correre il rischio di metterne in pericolo qualcuna, ponendo comunque in atto tutti gli accorgimenti che consentono di ridurre al minimo i pericoli. Correre rischi mortali per conseguire vantaggi estetici (o migliori prestazioni atletiche) non ha invece niente di ragionevole.
Anche negli altri ambiti dell'agire umano il modo di procedere dovrebbe essere analogo, fare un'attenta analisi dei rischi e dei benefici, correndo dei rischi solo quando il beneficio che si ricava li giustifica. Se da una lato è necessario operare per ridurre i rischi al minimo, dall'altro bisogna anche avere chiaro che il rischio zero non esiste e che pretendere certezze assolute prima di introdurre un'innovazione assomiglia molto alla pretesa dello scolastico ricordato da Hegel che voleva imparare a nuotare prima di buttarsi in acqua.
Certo l'impatto emotivo di certi messaggi mediatici può giustificare la diffusa sensazione di pericolo nell'opinione pubblica, chi però possiede un'adeguata cultura storica, epistemologica e scientifica dovrebbe valutare la situazione con maggiore serenità.
Gli ecologi sanno molto bene che una determinata riserva naturale può nutrire solo un certo numero di individui di ciascuna specie presente in quell'area: se anche per qualche tempo una specie può proliferare al di sopra di quelli che sembravano i suoi limiti, la penuria di risorse ristabilirà ben presto gli equilibri.
Links: |
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Noi facciamo parte di una specie animale che da circa un centinaio di secoli ha cominciato con la tecnica a superare i propri limiti ecologici, che è progressivamente riuscita a sottrarsi ai suoi predatori ed alla penuria, producendo risorse sufficienti per la sopravvivenza di un sempre maggior numero di individui di questa specie. Non poche volte si è raggiunto un limite che sembrava invalicabile e si sono verificate spaventase catastrofi demografiche, l'ultima verso la metà del XIV secolo, ogni volta l'innovazione tecnologica ha consentito il superamento della crisi e la ripresa della crescita. Tutto ciò NATURALMENTE è avvenuto a scapito di altre specie animali e vegetali ed ha comportato profonde alterazioni nell'ambiente. Oggi siamo 6 miliardi; con gli attuali ritmi di crescita l'umanità potrebbe raddoppiare nell'arco dei prossimi 40 anni, alla fine del secolo potremmo essere 20 miliardi. La crescita però non può essere infinita, il rapporto sui limiti della crescita redatto un po' meno di 30 anni fa da Meadows e altri per il Club di Roma, mantiene buona parte della sua validità e pone problemi ineludibili per chi non voglia fare della pura accademia. Abbiamo più o meno un secolo davanti a noi per evitare il collasso del sistema-mondo, ogni intervento mirante ad evitare la catastrofe comporterà sicuramente dei rischi, ma quali sono i rischi del non intervento?
10 dicembre 2001
From: Corrado DEL BO'
Subject: Risposta a Lanfranchi
Caro Domenico,
ho molto apprezzato il suo paper.
Siccome sono d'accordo con lei su quasi tutto, proprio per questo le vorrei porre due
domande sui punti non dico di dissenso, ma sui quali nutro alcuni dubbi. Presento queste
questioni in maniera schematica, e di questo spero voglia perdonarmi.
Chi mantiene un approccio laico, scientifico e, diciamolo pure, costruttivista (in senso
popperiano) all'esistenza, come credo accada al sottoscritto, non puo' pensare di
eliminare il rischio dall'esistenza. Si tratta, e mi sembra che il suo paper mettesse in
luce (anche) questo, di *calcolare* questo rischio e valutare, in definitiva, se il gioco
vale la candela. Quello che mi chiedo, e che chiedo a lei, e' se possiamo far rientrare
nella categoria del *rischio calcolato*:
1. quegli atti (o quelle tecnologie) che potrebbero avere impatti drammatici sul - e al
limite distruttivi del - pianeta, come potrebbe essere per il nucleare;
2. quegli atti (o quelle tecnologie) per i quali non sono chiari i vantaggi. Penso qui in
particolare agli Ogm, che vengono spacciati come utili per combattere la fame nel mondo
quando basta aver letto Sen per sapere che quasi sempre le carestie non sono causate dalla
scarsita' di cibo ma dall'impossibilita' di avervi accesso, spesso anche per vere e
proprie *barriere* legali.
10 dicembre 2001
From: Vittorio BERTOLINI
Subject: Breve commento a Lanfranchi e Del Bò
Pur condividendo tutto, anche i dubbi di Del Bò, il problema della governance del
rischio è come si riesce a convincere un talebano a concedere che una donna afghana possa
andare in giro senza il burqua. Il "rischio calcolato", ma anche
l'imprevedibità di cui parla Neresini [vedi], o
i diversi tipi di rischio di cui parla la Di Costanzo[
vedi], esistono solo all'interno di un sistema di
credenze.
La difficoltà nel realizzare la governance è che ciascuno di noi tende a considerare il
proprio sistema di credenze come l'occhio di Dio. Per esempio personalmente sono convinto
che le caratteristiche di un "prodotto" dipendano dai suoi componenti in geni,
proteine, molecole ecc. e non dal modo in cui è stato generato. Chi si rifa a una
filosofia scientifica alla Goethe crede che il modo della generazione influisca sulle
caratteristiche del "prodotto".
Di fronte al rischio del colera nei primi decenni dell'800 c'erano due paradigmi. Quello
del contagio, che imponeva posti di blocco, lazzaretti ecc. per circoscrivere e isolare i
focolai di infezione (a me è piaciuto molto il film "L'ussaro sul tetto").
L'altro paradigma era quello epidemiologico, che riportava la diffusioni della malattia
alle condizioni di disagio ambientale, fogne a cielo aperto, ambienti insalubri, ecc.
Quello che ci dobbiamo chiedere è fino a che punto (con buona pace di Kuhn) i paradigmi
siano reciprocraemente esclusivi. Io penso che un paradigma possa essere traducibile in un
altro paradigma, se non in modo diretto almeno attraverso un continuo di approssimazioni.
10 dicembre 2001
From: Domenico LANFRANCHI
Subject: Risposta a Del Bò
Grazie prima di tutto per l'apprezzamento ed anche per le domande, che mi sembrano
mettere in luce un tratto, se non proprio di debolezza, almeno di non sufficiente forza
della mia argomentazione e mi costringono a cercare di rafforzarla.
Comincio da questo punto: lei traduce in "rischio calcolato" quello che io ho
chiamato "rischio ragionevole"; quando l'ho letto mi è tornato alla memoria il
"calculemus" leibniziano, l'aspirazione a risolvere ogni sorta di problema con
una serie finita e determinata di operazioni su simboli; il sogno leibniziano è figlio
della scienza moderna e del presupposto, implicito in quasi tutte le sue interpretazioni
sei-settecentesche, che la ragione coincida sostanzialmente con la ragione matematica e
sia pertanto riducibile a calcolo; opino (ma sono un debole opinante) che tra le
conseguenze del teorema di Goedel ci sia anche l'archiviazione del sogno di Leibniz. Non
mi sento pertanto di accettare questa riduzione, non mi sento di ridurre il "rischio
ragionevole" a "rischio calcolato", mi trovo però in difficoltà se mi si
chiede di chiarire che cosa allora io intenda per "rischio ragionevole". Le
risposte che finora sono riuscito a trovare, mi sembrano approdare a forme di pensiero
debole che non corrispondono alle mie aspirazioni; tuttavia non riesco al presente a
vedere altre prospettive. Per chiarire riprendo l'esempio di Sabin: noi ora siamo in grado
di calcolare il rischio insito nella vaccinazione antipolio, Sabin non aveva (e non poteva
avere) i dati per calcolare nulla, aveva una serie di indizi convergenti che fecero
maturare in lui quella che possiamo chiamare una "certezza morale"; questa
certezza lo indusse a ritenere ragionevole il rischio ed a sperimentare il vaccino su di
sè (e, se non ricordo male, anche sui propri figli). Tanto nella nozione di certezza
morale, quanto in quella di rischio ragionevole, ravviso ampi margini di soggettività (i
sistemi di credenze cui si riferisce Bertolini), che mi disturbano per quel tanto che
hanno di a-razionale, ma che non riesco ad eliminare, d'altro lato non mi sembra che si
possano considerare nozioni arbitrarie.
Vengo ora allo specifico delle sue domande:
1. temo che ogni tecnologia possa presentare risvolti drammatici o al limite distruttivi;
riprendo l'esempio dell'idrogeno, che potrebbe costituire la risposta ecologica a tutti i
problemi energetici del pianeta: si può ricavare dall'acqua del mare sfruttando l'energia
solare (dunque riserve potenzialmente infinite), ricombinandosi con l'ossigeno genera
energia e produce vapore acqueo (dunque niente gas serra, niente polveri, o altri
inquinanti dannosi alla salute), rimane il grave problema della sicurezza; in anni ormai
lontani rimasi sconvolto dalla visione di un cinegiornale d'epoca sulla fine del
dirigibile Hindenburg, tutte le volte che penso alla realizzazione di grandi serbatoi di
idrogeno, e ad una rete di distribuzione del gas mi tornano alla mente quelle immagini.
Gli "esperti" (per modo di dire, perchè finora in materia c'è molta teoria e
poca esperienza) dicono che gli attuali standard di sicurezza impediscono il ripetersi di
simili sciagure, ma se sbagliassero? Se si facessero prendere la mano dall'entusiasmo per
la loro creatura? Temo che non ci sia alternativa alla fiducia nella comunità
scientifica. Non certo una fiducia cieca. Una fiducia vigile, che cerca di discutere
tutto, di capire se ci sono fattori esterni che possono inquinare il punto di vista degli
scienziati, ma alla fine di questi ci dobbiamo fidare; non voglio con questo dire che la
decisione debba essere presa dagli scienziati, ma chiunque sia a prendere una decisione
(un dittatore o un parlamento, un consiglio d'amminiztrazione o un popolo) dovrà fidarsi
della consulenza di qualcuno. Il parere può anche essere errato; oppure può essere
corretto, ma non tenere conto di alcuni dati di fatto al momento ignoti (è il caso del
parere dei dotti di Salamanca sull'impresa di Colombo: se non ci fosse stata l'America, la
spedizione sarebbe finita in pasto ai pesci), ma ci sono alternative ragionevoli?
2. Sugli OGM mi ritengo pragmatico e possibilista: non so se contribuiranno alla soluzione
dei problemi alimentari dell'umanità, ma mi chiedo perchè ci dobbiamo precludere questa
possibilità; quest'anno per il secondo anno consecutivo la produzione di grano è
inferiore alla necessità stimata (cfr.: http://www.lescienze.it/index.php3?id=4334)
e ciò dipende in buona parte da fattori economici e meteorologici; da un lato produrre
grano conviene poco perchè chi ne ha bisogno, non lo può pagare; dall'altro
l'agricoltura di autoconsumo non è possibile nelle zone aride: per produrre una
tonnellata di grano ce ne vogliono mille di acqua; se l'ingegneria genetica consentisse di
produrre varietà di grano che abbiano bisogno della metà di acqua, non si sarebbe
ottenuto un risultato importante? Alle soglie dell'età moderna un'agricoltura
completamente naturale arrivava a produrre 5 quintali di grano per ettaro; oggi
un'agricoltura meccanizzata che fa ampio uso di prodotti chimici arriva a produrne 50;
come pensiamo di fronteggiare il raddoppio della popolazione mondiale? raddoppiando la
superficie coltivata a cereali? o raddoppiando la produttività? Non abbiamo molto tempo
per pensarci.
10 dicembre 2001
From: Luigi FOSCHINI
Subject: Viviamo in una società del rischio? - Un'aggiunta
Ho letto con attenzione e apprezzato molto i vostri interventi, in particolare il
saggio iniziale di Lanfranchi. Sono in linea di massima in accordo con quanto espresso
fino a ora, ma vorrei fare qualche aggiunta al dibattito in corso, riprendendo una
considerazione fatta nel mio primo intervento e che Borrello aveva sottolineato nel suo
["Re: Opinione sul servizio di Report" vedi], cioè: "è importante che la gente sia
convinta di poter controllare gli eventi, non tanto che sia effettivamente in grado di
farlo". Il succo della questione è che la moneta che paga l'inconscio non sempre è
visibile, ma occorre tenerne conto nel bilancio del "calcolo del rischio". Non
so se il termine che uso io per inconscio è ciò che Bertolini intende quando parla di un
"proprio sistema di credenze". Per quanto mi riguarda, vorrei dire che ciò che
interviene quando una persona valuta il rischio non è sempre visibile, a volte anche alla
persona stessa.
Un esempio di valutazione abbastanza visibile posso farlo pensando al dopo 11 settembre:
molti hanno smesso di volare, atterriti dal rischio terroristico; molti altri hanno
continuato, perché il lavoro lo imponeva. Magari volavano con le mani tese aggrappati al
sedile oppure imbottiti di tranquillanti, ma il rischio di perdere il lavoro per avere
rifiutato una missione o mancato a un appuntamento importante, alla fine, ha prevalso
sulla paura dell'attentato. Non ho statistiche sottomano, ma penso che se andassimo a
farle ci accorgeremmo che probabilmente sono crollati i voli turistici, mentre quelli di
lavoro non hanno subito variazioni così drastiche.
Un esempio di valutazione più "sfumata" è invece l'esempio - fatto da
Lanfranchi - del ricercatore che prova su di sè un vaccino: corre certamente un rischio,
ma la soddisfazione che ne deriverebbe in caso di successo può fare pendere la bilancia a
favore del tentare la sorte. Il rischio qui è più forte rispetto alla paura di un
attentato dopo l'11 settembre (c'è da dire che noi ricordiamo i casi di successo, ma
tendiamo a dimenticare i fallimenti che l'hanno preceduto: per ogni Orville Wright che si
è staccato dal suolo, quanti sono stati gli Icaro che ci hanno "rimesso le
penne"?), ma è anche più forte la motivazione che spinge il ricercatore a provare:
per un ricercatore, la scienza *è* la vita, per cui il non fare scienza comporta già una
specie di "morte". Si tratta quindi di scegliere tra una morte mentre si fa
scienza, mentre cioè si vive la propria vita, e una morte forse non fisica, ma forse
anche peggiore, che consiste nel non vivere.
Proprio in questi giorni sto leggendo e apprezzando la biografia di Fermi da poco uscita
in libreria: F. Cordella, A. De Gregorio, F. Sebastiani, Enrico Fermi - Gli anni italiani
(Editori Riuniti). A pagina 111, trovo una citazione di Carlo Bernardini molto
interessante. Il fisico italiano nota che "la scienza sovrasta in tal modo i pensieri
di chi la pratica ai più alti livelli che, anche in quanto attività assai lontana da
sentimenti, emozioni e concezioni ideologiche, essa finisce per creare una sorta di guaina
impenetrabile e per cancellare spesso i coinvolgimenti e la consapevolezza delle personali
responsabilità civili e sociali". Anche se dissento dall'opinione che la pratica
scientifica sia lontana dalle emozioni e dai sentimenti, mi interessa puntare l'attenzione
sulla creazione di una sorta di "guaina impenetrabile", che finisce anche col
dare anche una percezione del rischio differente rispetto al non-scienziato. Il fare
scienza è così importante per uno scienziato che il non farla costituisce una specie di
morte.
Non so se lo scienziato è convinto di poter controllare o meno gli eventi, per tornare al
discorso iniziale, però forse la spinta a fare scienza ha il sopravvento in questo caso.
E questa "spinta" è qualcosa di personale, non calcolata, non programmata,
neanche ragionevole (come tutte le passioni). In fondo, tutti noi siamo
"ragionevoli" quando la cosa che dobbiamo affrontare non ci tocca
particolarmente.
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