Interventi al Forum nel mese di Settembre 2001

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La governance della società:
il ruolo della politica e quello dell'impresa


30 settembre 2001
From: Andrea AMATO
Subject: Governance: se, quanto, come

ABSTRACT

In questo intervento mi soffermo sul tema della responsabilità e dei compiti dell’imprenditore, intesi come possibile contributo alla governance della società, vista nel suo complesso.

Nell’attuale temperie di rinnovamento viene, innanzi tutto, da chiedersi se la governance sia possibile, ossia se stia maturando una condizione emotiva tale da giustificare l’assunzione di una progettualità autentica. La sua praticabilità, comunque, richiama un triplice ordine di problemi, in ordine: ai possibili soggetti di governo; alla natura stessa della governance; alle sue forme.

Può, però, l’imprenditore, in quanto soggetto forte, candidarsi ad un ruolo decisionale e propositivo complessivo? Lo può nella misura in cui riesce a confrontarsi positivamente e propulsivamente con le attuali tendenze economiche a mio avviso più importanti, vale a dire: l’accentuazione della spinta consumistica; i processi di globalizzazione; l’affermazione di una nuova struttura delle professionalità.

Misurarsi con tali tendenze significa avanzare una nuova progettualità, di cui va definito lo spessore, più circoscritto, perché non esaustivo, ma ugualmente propulsivo, in quanto fornisce una diversa intelaiatura istituzionale ed un nuovo quadro di riferimento generale.

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"Governance: se, quanto, come" (con note a margine di Vittorio Bertolini)

[Nota a margine di Vittorio Bertolini:
Le chiose con cui ho voluto annotare il testo di Amato non vogliono essere una critica, ma, piuttosto, indicazioni per approfondire una tematica in cui l'intuizione teorica si interseca in continuazione con la verifica empirica. Probabilmente chi cercasse in queste chiose un filo conduttore resterebbe deluso e non ho difficoltà ad ammettere che sono parecchie se non proprio le incoerenze almeno le incertezze. A mia giustificazione, ma anche di Amato, sta il fatto che il tema trattato è in continua evoluzione, e se a volte riusciamo a cogliere la direzione di questa evoluzione, non è detto che questa direzione sia sempre lineare. Per esempio è stato rupetuto, fino a iosa, che dopo l'11 settembre tutto non è più come prima. Ma cosa significa questo? Al di là delle conseguenze sulla congiuntura economica (spostamento dei consumi e del prelievo fiscale nella direzione antirischio), ci troviamo di fronte ad una svolta dove il potere politico recupera quegli spazi che la globalizzazione gli aveva sottratto? Mi auguro che sia il testo di Amato, sia le mie chiose possano innescare una discussione, anche limitata a singoli punti, che possa contribuire a fare più e chiarezza su molte delle questioni messe sul tappeto.]

Il tema dei compiti e delle responsabilità imprenditoriali non si può affrontare se prima non si definisce, nelle sue grandi linee, la posizione che l’imprenditore occupa nella società.

Questi, considerato nella sua specifica sfera di attività, esprime una sua particolarità, un suo interesse particolare. L’imprenditore, da questo punto di vista, si comporta come un qualunque individuo, il quale, in qualsiasi ambito operi, si pone obiettivi propri e valuta i mezzi adeguati per raggiungerli. In generale, se ciò non accadesse avremmo una società assolutamente piatta, standardizzata e priva di significative articolazioni. L’interesse particolare rappresenta il presupposto per l’esistenza della società civile. La modernità vive e si avvantaggia della dialettica tra società civile ed istituzioni.

[Vittorio Bertolini:
Dire che
«L’imprenditore si comporta come un qualunque individuo» può sembrare banale, tuttavia a volte, ad evitare fughe in qualche "ismo", banalizzare è importante. Prima o poi infatti verrà fuori qualcuno a dirci che ha scoperto il gene dell'imprenditore. Negli anni '50 e seguenti usava interpretare i comportamenti umani riconducendo tutto alle pulsioni dell'inconscio, successivamente dal determinismo psicoanalitico siamo passati al determinismo socio-economico e poi culturalistico. Ora è di moda trovare nei geni la risposta a tutto. Importante perciò è la sottolineatura che l'imprenditore non gode di uno statuto speciale per quanto riguarda la propria responsabilità morale. Se funzione primaria dell'imprenditore è di organizzare in modo ottimale le risorse, egli in primo luogo va valutato in base a questa capacità e ciò non toglie che non possa e non vada giudicato anche sulla base della responsabilità morale. L'imprenditore che ottimizzasse le risorse utilizzando il lavoro schiavistico, incontrererebbe una riprovazione gemerale indipendemente dal successo della propria impresa.
Personalmente non amo la dizione "società civile", è molto ambigua e autoreferenziale. Ogni gruppo organizzato, che intende in qualche modo contrapporsi al politico, si definisce società civile. A differenza delle società organicistiche del passato con i loro Leviatani, la modernità, più che avvantaggiarsi, si esprime nella dialettica fra gruppi di interesse (associazioni imprenditoriali, sindacati, consumatori, ecc.) e il politico-istituzione. Semmai nella postmodernità dobbiamo chiederci se e fino a quando il politico-istituzione sia rappresentato, secondo tradizione, dai governi nazionali (parlamenti, partiti, ecc) o dalle orgnizzazioni internazionali e sovranazionali organizzazioni (Fao, Banca Mondialem ,WTO, ecc, ) e dalle associazioine non govewrnative transnazionali (Greenpeace, Amnesty, ecc.)]

In questa ottica, la posizione di base dell’imprenditore non presume né una sua moralità di fondo, né una sua immoralità. L’imprenditore diventa tendenzialmente e potenzialmente immorale se si prefigge il guadagno massimo, se si propone di raggiungere un profitto speculativo e non soltanto un profitto equo. Comunque, l’imprenditore considera giustificata l’azione delle istituzioni volta ad incanalare l’iniziativa economica entro l’alveo del giusto profitto. Egli preferirebbe ottimizzare al massimo i suoi utili, ma, siccome si rende conto di vivere in un contesto ampio, accetta una regolazione delle sue attività, purchè non sia lesiva della sua libertà di programmazione e purchè sia compatibile con i suoi interessi. Come direbbe Heidegger, dentro e fuori non sono mai separabili. L’imprenditore intuitivamente conosce questo assunto filosofico; anzi, egli lo pratica correntemente, dato che il suo stesso modo d’essere lo porta ad esporsi nel mondo, a praticare il mondo, ad intervenire nel mondo.

[Vittorio Bertolini:
Qual è il guadagno massimo? Come riusciamo a distinguere fra profitto speculativo e profitto equo? Ottimizzare significa massimizzare. In una economia di mercato l'equità del prezzo (e perciò anche del profitto) è determinata dal mercato. Ammesso che ci si voglia riferire ad economie pianificate (l'istituzione che limita e indirizza l'autonomia imprenditoriale) il discorso non cambia molto, al posto del mercato reale è stato introdotto un modello matematico. Se sia più equo il prezzo definito dal mercato o quello stabilito dal pianificatore è almeno discutibile. E' indifferente che l'imprenditore si renda conto o no. Il rendersi conto implica una interpretazione psicologistica dell'imprenditore, direi invece che l'imprenditore registra certe situazioni e adatta il proprio comportamento. Se Mc Donald's ribalta la filosofia del monoprodotto per inserire anche tipologie alimentari locali non è perché si è reso conto del "valore" delle tradizioni locali, ma in quanto le tradizioni locali sono entrate nella matrice delle preferenze del pubblico. Il mercato non è solo il luogo in cui si formano i prezzi, ma è anche dove vengono introitati preferenze, tradizioni, valori morali ecc. ]

Perciò, l’imprenditore, e qui mi rifaccio ad una classificazione introdotta da Laszlo, di per sé, non è del tutto passivo, né attivo o organico, l’imprenditore per sua natura è interattivo. Solo su questo fondamento può installarsi la distinzione proposta da Laszlo. Infatti, la stessa passività, a rigor di termini, presuppone una relazione con l’esteriorità, rispetto alla quale si assume di conseguenza un eventuale atteggiamento passivo. Solo stando nel mondo, quello specifico economico e quello esistenziale tout-court, si può essere passivi, attivi, organici. L’insediamento mondano, in quanto preliminare stato di interazione, precede qualsiasi decisione in ordine al proprio modo di porsi. In pratica, si è prima imprenditori e poi un certo tipo di imprenditore.

Dal punto di vista sociale, il problema che però si pone è quello di conciliare i diversi interessi particolari e, nello stesso tempo, di avanzare un qualche interesse generale, che, nella concezione liberale classica, aveva soltanto una finalità di raccordo, difensiva rispetto ai pericoli di eventuale disgregazione della società, ma che oggi non può che assumere una qualche valenza positiva e propulsiva, per quanto non eccessivamente invasiva.

[Vittorio Bertolini:
Credo che Amato abbia il timore di pronunciare la parola "politica". Chi può conciliare i diversi interessi particolari e avanzare un qualche interesse generale? Il nodo della questione, oggi, è se rispetto al paradigma socialdemocratico (concertazione macroeconomica) possiamo recuperare una concezione liberale classica (quella del laissez faire coniugata con una forma di riformismo perequativo). Cosa si intende infatti per non eccessivamente invasiva? Quello che oggi non è molto chiaro è chi sia il soggetto politico.]

In genere, si determina una situazione alquanto varia, fatta di condizionamenti più o meno subiti (riguardo ai comportamenti e alle preferenze dei consumatori, ad esempio), di vincoli istituzionali più o meno tollerati, di condizioni accolte più o meno consensualmente, di soluzioni consapevolmente proposte. Quando questo insieme di comportamenti, tutti ugualmente presenti, si stabilizza storicamente, allora si addiviene ad una visione delle cose democraticamente condivisa, ossia ad una civiltà o ad uno stato di normalità, che dir si voglia.

Le "procedure" e i "codici di comportamento"relativi alle "responsabilità meta-economiche", di cui parla Bassetti (si veda il suo saggio: "Quale impresa per la sfida evoluzionista?", apparso nella sezione "Documenti" di questo sito), rientrano in una condizione del genere. Riguardo ad essi, in una fase di innovazione come l’attuale, quando si deve procedere alla loro elaborazione, risulta valida la considerazione svolta da Bassetti, secondo il quale le forze sociali, gli scienziati ed i tecnici dovrebbero essere coinvolti nella formulazione delle nuove regole. Stabilire le forme di scambio tra istituzioni e forze sociali rappresenta, così, la prima questione formale e procedurale da affrontare.

[Vittorio Bertolini:
La responsabilità morale dell'imprenditore nasce nel momento in cui si misura con gli altri soggetti sociali. Pensiamo al suo rapporto con dipendenti, clienti, fornitori, azionisti, stakeholders. La formulazione dei vari codici etici alla fin fine non è altro che il modo di realizzare tale responsabilità in una società complessa in cui i rapporti interpersonali di carattere fiduciario sono diventati impraticabili.
E' opportuno precisare che codici etici, protocolli di qualità, carte dei valori, storicamente sono sorti per definire dei livelli di responsabilità all'interno dell'impresa e solo successivamente sono stati interpretati come un possibile vantaggio competitivo, con quale guadagno per la responsabilità è da verificare.]

Nell’attuale situazione di sommovimento, dunque, si pone il triplice ordine di problemi: a) di quali possano essere i soggetti di governo; b) della natura stessa della governance; c) di come questa debba essere espletata.

In realtà, se per governance intendiamo il fine di una direzione o, perlomeno, di un orientamento dell’intera società, allora, preliminarmente alle predette questioni, andrebbe verificata la sua stessa praticabilità nelle attuali condizioni storiche.

Una tale possibilità diventa realizzabile se, data una situazione storica contraddittoria, si determina una condizione emotiva tale ("lo stato d’animo fondamentale" di cui parla Heidegger) da spingere gli uomini ad uscire dal loro modo d’essere consolidato per dotarsi di un progetto di rinnovamento, il quale riesca ad offrire uno sbocco positivo e propulsivo alle forze materiali e alle inquietudini ideali intanto affacciatesi.

Finora, a fronte dell’oggettiva necessità di un intervento più incisivo dell’uomo e rispetto allo stato di disagio sempre più esteso, si registra una fin troppo debole capacità progettuale ed una marcata chiusura corporativa o, in alcuni casi, dogmatica dei possibili soggetti storici, i quali sono combattuti tra disorientamento ed euforia (l’ambivalenza contraddistingue fin qui la posizione dell’uomo di fronte alla modernità).

[Vittorio Bertolini:
Sarà per un certo condizionamento neopositivista e popperiano che mi rende incomprensibile Heidegger, ma tutto il ragionamento mi sembra confuso. Non è che dai tre problemi posti "dalla" e "sulla" governance si vuole passare ad un discorso "urbis ed orbis" sul malessere della società contemporanea? Ritorniamo alla definizione di imprenditore data sopra: "organizzatore di risorse". La conoscenza tecnico-scientifica, così come il capitale umano, fa parte di queste risorse e dato che queste risorse sono parte imprescindibile di una società complessa ne deriva che la governance fa parte delle responsabilità dell'imprenditore. Il problema è come viene esercitata questa governance specialmente in riferimento ad un "nuovo" soggetto politico-istituzione.]

In questa situazione complessiva, chi può proporsi come promotore del cambiamento? Ed, in particolare, cosa può spingere l’imprenditore a subire, accogliere, farsi portavoce di nuove regole? Che interesse ha l’imprenditore a cambiare uno schema già trovato?

[Vittorio Bertolini:
L'imprenditore non può essere che promotore dell'innovazione, pena la sua emarginazione. Un'impresa si afferma sul mercato solo nella misura in cui i suoi prodotti riescono ad imporsi grazie alle caratteristiche innovative. E' interessante studiare l'evoluzione dei distretti industriali. Prima un imprenditore innovativo, grazie ad innovazioni di prodotto e di processo, fa nascere un polo industriale, poi, per imitazione, sorgono altre realtà produttive, fino a che il prodotto o processo da innovativo diventa maturo ed ha inizio la decadenza (che può anche essere splendida) del distretto]

In realtà, ammesso che non vi abbia un interesse diretto ed immediato, è la stessa incertezza prodotta dal cambiamento in atto ad indurlo, perlomeno, ad interrogarsi su una possibile, diversa strutturazione dei rapporti complessivi. L’imprenditore, del resto, non può sottrarsi alla individuazione e alla statuizione di nuove condotte, perché egli stesso con il suo intervento produce effetti sociali inediti e conseguenze a largo raggio.

[Vittorio Bertolini:
L'imprenditore che organizza le risorse in modo innovativo produce conseguenze inintenzionali, non "non prevedibili". Per es. più di trent'anni fa in un settore a basso contenuto tecnologico venne inserito un modello produttivo che anticipava una qualche sorta di outsorcing. Questo esperimento oltre a favorire i profitti imprenditoriale (intenzionali) ha avuto ricadute sul benessere della zona ecc. ecc.(inintenzionale)]

Ma, qualora l’impresa si facesse carico di un compito più generale, dal punto di vista sociale, converrebbe che gli imprenditori assumano una responsabilità così ampia e profonda? In altri termini, è opportuno che un potere tanto forte si autoinvesta, o venga investito, di un ruolo decisionale o propositivo complessivo, da esercitare direttamente o tramite delega?

[Vittorio Bertolini:
Il ruolo sociale dell'imprenditore non è un fatto costituzionale, ma è nei fatti. Deriva dalla sua posizione. L'imprenditore farmaceutico non può non farsi carico della sicurezza del prodotto in quanto il mercato, che ha internalizzato comportamenti contro il rischio, lo penalizzerebbe. Così l'imprenditore che accetta protocolli ecocompatibili, risponde alle esigenze del mercato, ma la conseguenza è che la politica dell'ambiente non è più competenza dell'istituzione politica, ma è determinata dal rapporto dialettico fra imprenditore e cittadino-consumatore. Un possibile recupero della politica-istituzione si concretizza con l'entrata in politica di imprenditori? Il caso Berlusconi è emblematico. Le ultime elezioni hanno evidenziato chiaramente un rapporto Berlusconi-associazione imprenditoriale che si configura in un modo del tutto diverso rispetto ai casi precedenti. Non è più l'imprenditore che scende in politica per motivi personali (ambizione, senso del dovere, protagonismo ecc) e nemmeno il politico che si mette al servizio dei poteri costituiti, ma l'imprenditore che vuole portare l'imprenditoria al governo. Il processo presenta ancora molti chiaroscuri ma la direzione è evidente. D'altra parte se il caso italiano è emblematico, non è che non comincino già ad emergere gli epigoni.]

Che un soggetto storico, prima o poi, emerga sugli altri e si ponga come punto di riferimento e di raccordo, non solo è inevitabile, ma, sotto certi aspetti, anche auspicabile, pena il progressivo deterioramento della situazione e la incalzante frantumazione dell’articolazione sociale. Tuttavia, l’incertezza attuale, la conseguente apertura a diversi possibili esiti e, soprattutto, il dato ormai strutturale della proliferazione dei fattori storici e delle componenti sociali, proprio della modernità... tutti questi elementi, presi insieme, consigliano di istituire intanto una fase di confronto tra progetti e gruppi sociali diversi (ma, naturalmente, al di là di un auspicio non si può andare, visto che la storia non si fa mai a tavolino). In ogni caso, andrebbe evitata una meccanica sovrapposizione all’intera società di progetti complessivi.

[Vittorio Bertolini:
A integrazione e correzione della nota precedente. L'imprenditore che si fa politico non diventa poi anche politico? Ritornando al caso Berlusconi, nell'imprenditore che si fa politico prevale la responsabilità sociale e verso l'innovazione dell'imprenditore, oppure prevale il gioco della "vecchia" politica? In assenza di una chiara modificazione istituzionale è notevole il rischio che la responsabilità sociale dell'imprenditore slitti nel lobbismo (legittima ma che ha poco a che fare con la governance).]

Tenendo conto di queste avvertenze, che una funzione trainante venga assunta, in particolare, dal mondo imprenditoriale, in linea di principio, non dovrebbe spaventare. Non è stata forse la borghesia a promuovere la rivoluzione francese, ossia un avvenimento che ha spostato in avanti le condizioni di tutta la società dell’epoca?

Ovviamente, un precedente storico non autorizza ad indebite estensioni, né, tanto meno, legittima ad arbitrarie rivendicazioni di priorità o di privilegio.

[Vittorio Bertolini:
La primazia dell'imprenditore deriva dal suo ruolo di produttore di beni in una società dominata dai consumi (nel Medioevo era il cavaliere o l'ecclesiastico), ma è destinata a modificarsi con la crescita di nuovi sistemi di produzione dove diventi sempre più importante il ruolo del capitale umano e dove le barriere all'entrata saranno determinate dalle conoscenze. All'epoca della prima rivoluzione industriale, la rivoluzione politica non è avvenuta in Inghilterra, il paese della rivoluzione industriale, ma in Francia, dove la borghesia imprenditoriale era dedita più al commercio e all'agricoltura che al settore della produzione manifatturiera.]

A questo proposito, vanno chiariti due aspetti. Innanzi tutto, che i rapporti sociali si decidono prevalentemente sul piano delle idee, le quali possiedono una propria dimensione autonoma anche quando scaturiscono o traggono spunto dalle effettive condizioni materiali e dai concreti rapporti di forza. In secondo luogo, pur nella nostra società moderna, il fattore economico fondamentale non è costituito dal denaro, bensì dal lavoro, considerato a tutti i suoi livelli e in tutte le sue forme. Proprio la new economy, con la sua accentuazione dei livelli di professionalità, conferma la validità di questo dato. Un’economia che non si basasse sul lavoro si porrebbe come parassitaria e, perciò, sarebbe destinata, prima o poi, al collasso.

[Vittorio Bertolini:
Siamo proprio sicuri che l'economia si basi sul lavoro e non sulla produzione? Fino a ieri le due cose coincidevano, oggi forse, domani chissà. Se la fabbrica automatica può essere ancora un'utopia robotica, i sistemi esperti già oggi riescono a rendere il lavoro umano marginale in molte produzioni (in un certo senso all'uomo è delegata la funzione del controllo: che la macchina non si fermi, che la catena di alimentazione non si fermi ecc.). In questo schema, fondamentale non è il lavoro in sé, ma la qualità del lavoro.
Come ho detto nella nota precedente, la primazia dell'imprenditore deriva dal suo ruolo di produttore di beni in una società dominata dai consumi (nel Medioevo era il cavaliere o l'ecclesiastico), ma è destinata a modificarsi con la crescita di nuovi sistemi di produzione. Se diventa sempre più importante il ruolo del capitale umano, soprattutto dove le barriere all'entrata siano determinate dalle conoscenze, anche la funzione imprenditoriale è destinata a democratizzarsi.]

Queste considerazioni portano a dire che nessun ceto sociale, per quanto forte esso sia, può ritenersi automaticamente abilitato ad esercitare funzioni direttive preminenti. Il proprio ruolo lo si conquista sul campo ed in modo democratico.

Fatte queste premesse di carattere generale, occorre ora spostarsi sul terreno dell’analisi dell’attuale situazione storica per cercare di capire quali compiti impone l’innovazione in corso alla società ed, in modo particolare, agli imprenditori. Va, perciò, verificato se si stiano manifestando tendenze tali che possano affermarsi e stabilizzarsi, tanto da segnare durevolmente la nostra condizione mondana.

Per quanto mi riguarda, ne indico tre: l’accentuazione della spinta consumistica; i processi di globalizzazione; il consolidamento di una nuova struttura delle professionalità.

Come dice A. Smith (citato da Correale nel suo scritto: "Un commento a ‘Business Ethics’ di E. e C. Laszlo", presente su questo sito nella sezione "Documenti"): "il consumo è il solo fine e scopo di ogni produzione".

Questa affermazione, presa in sé, è giusta, giacchè si produce per vendere e si vende solo se qualcuno consuma, ossia se si crea un mercato. Su un piano diverso, però, si pone la spinta al sovracconsumo, la quale caratterizza l’esito consumistico assunto dall’economia capitalistica.

Il consumismo, al tempo stesso, rappresenta l’espressione ed il fattore di rafforzamento di un rivolgimento antropologico verificatosi nel modo d’essere dell’uomo moderno, sempre più connotato dalla centralità del desiderio. Questo fenomeno spiega anche la deriva individualistica degli attuali rapporti sociali ed intersoggettivi.

Dal punto di vista strettamente economico, il consumismo, se portato all’esasperazione, rischia di avvitarsi su se stesso, determinando il circolo vizioso inflazione-deflazione.

Paradossalmente, proprio la globalizzazione degli scambi può costituire un’alternativa al rigonfiamento drogato dei consumi, dato che la creazione di nuovi mercati può sopperire alla crescita artificiosa di quelli già esistenti. Si tratta, però, solo di una possibilità, la cui realizzazione dipende da una libera e consapevole decisione degli operatori economici, singolarmente presi, nel caso dei colossi produttivi, associati, nel caso di piccoli e medi produttori. Assumere un atteggiamento lungimirante o meno rappresenta una responsabilità degli imprenditori.

D’altro canto, la globalizzazione, ove conduca all’eccessiva concentrazione delle attività economiche su scala mondiale, finisce col destare serie preoccupazioni. A questo proposito, il compito più urgente che si pone è quello di salvaguardare perlomeno un equilibrio tra poteri economici e poteri istituzionali, oltre che assicurare una qualche forma di partecipazione da parte delle organizzazioni che sono espressione della società civile. Nel caso si creasse una disparità profonda e strutturale tra economia, stato e società civile si porrebbe immediatamente un problema di democrazia. Lo stesso tema dell’uguaglianza rimanda ad una preliminare questione democratica. Per ora non sussistono pericoli imminenti e drammatici, ma ciò non toglie che si stanno manifestando spinte subdole e preoccupanti. Rispetto a queste ultime, non basta rivendicare la tutela del consumatore, come dato di per sé dirimente, occorre difendere il pluralismo economico come scelta strategica, in quanto carica di molteplici e profonde implicazioni. Così mi sembra che si stia muovendo il commissario europeo Monti.

[Vittorio Bertolini:
La globalizzazione ha portato a riconsiderare la legge di Say (la produzione genera il proprio consumo). Attraverso il marketing ovviamente il sistema imprese cercherà di indirizzare i consumi nella direzione più semplice allo sbocco dei propri prodotti. Se negli anni '60 il dibattito sulla programmazione verteva su come dirottare le risorse in modo da indirizzare i consumi nella direzione del pubblico (strade, ospedali, ecc) rispetto al privato (televisione a colori, automobili e così via), oggi nell'economia globale il problema si pone in tutt'altri termini. Dobbiamo perciò chiederci se deve rientrare nella responsabilità dell'imprenditore indirizzare a consumi meno consumistici. O a chi altri compete? E chi definisce i consumi meno consumistici.
Se, per esempio, nel Pil venisse misurato il grado di istruzione o la sicurezza urbana, questo avrebbe una certa influenza sul modo dei consumi. Ma chi determina il Pil? E se spetta al politico, a quale politico? Si ritorna al nodo della governance della politica e dell'impresa: a un rischio di sovraesposizione della figura imprenditoriale (coinvolgerlo è diverso dal farne il soggetto unico).]

Infine, ultimamente si è andata costituendo una nuova struttura delle professionalità, caratterizzata da una più elevata competenza specifica, a tutti i livelli dell’organizzazione lavorativa. Lo stesso imprenditore ne viene investito, perciò Tronchetti Provera, parlando delle sue recenti operazioni industriali, ha indicato nella professionalità e nell’audacia le due principali qualità che l’imprenditore deve possedere. I puri capitani di ventura sono superati, il rischio, se non si basa su un’adeguata preparazione professionale, deborda in avventatezza.

[Vittorio Bertolini:
Che debba esistere un'adeguata preparazione professionale è ovvio; non altrettanto ovvio è che la preparazione professionale sia sempre indirizzata verso la responsabilità sociale dell'impresa. I tycoon sono senz'altro preparati professionalmente, ma la loro responsabilità sociale ha come società di riferimento solo se stessi.]

Il fenomeno della accentuata specializzazione del lavoro, in tutte le sue fasi, comporta una serie di conseguenze. In particolare, il passaggio dal lavoro in catena alla costituzione di unità lavorative più autonome ha segnato la fine della rigida sequenzialità. L’attuale organizzazione del lavoro, pur ripartendo i percorsi produttivi, non li frantuma, bensì li interconnette, mentre la precedente strutturazione li poneva in una successione fissa. A questo punto, per coniugare la divisione del lavoro, che persiste, con l’esigenza di integrazione si rende necessario far ricorso a nuove figure professionali, il cui compito consiste nel coordinare e nel raccordare i diversi momenti dell’organizzazione lavorativa. Perciò, nell’impresa moderna vince l’accoppiata sapere tecnico + sapere organizzativo.

[Vittorio Bertolini:
Il postfordismo ha condotto ad una gerarchizzazione delle responsabilità più orizzontale che verticale. Significativa l'esperienza dei Circoli di qualità, dove tutti i membri del gruppo, indipedentemente dai livelli gerarchici, sono tutti ugualmente responsabilizzati nel far avanzare i processi innovativi. Sarebbe interessante sapere perché questa esperienza non è poi sufficientemente decollata. Nell'accoppiata "sapere tecnico"-"sapere organizzativo" vedo il pericolo della burocratizzazione. Il sapere organizzativo tende a imporre il proprio modello statico rispetto alla dinamicità della tecnica. Si è passati dai circoli di qualità ai manuali della qualità, dove la responsabilità si esaurisce nell'ottemperare alle procedure. Sarà da verificare se i modelli produttivi basati sui sistemi esperti sapranno recuperare la responsabilità individuale.]

Da un altro punto di vista, la più elevata competenza rende un po’ tutti degli intellettuali, per cui ognuno, in virtù della propria preparazione, chiede un’adeguata valorizzazione. Cosicché, mentre la maggiore professionalità avanza una richiesta di riconoscimento della propria creatività, la relativa autonomia delle varie strutture produttive l’afferma e l’assegna concretamente. Rispetto a tutto ciò, in maniera ancora confusa, emerge una straordinaria capacità da parte dell’impresa di rivedere i propri modelli organizzativi, nel senso di una maggiore flessibilità, mobilità e, in determinate forme, di una positiva utilizzazione della creatività individuale. A ben vedere, tutte queste caratteristiche dell’organizzazione dell’impresa, se diversamente finalizzate e se opportunamente adeguate, rappresentano dei validi criteri per una diversa sistemazione dei rapporti generali tra individuo e società. Come dice Bassetti, oggi l’impresa costituisce "una fucina di Vulcano", un laboratorio sociale di grande interesse.

In questo contesto, il ruolo sempre più decisivo assunto dall’espressione intellettuale dell’individuo, a partire dai processi produttivi, può indurci a prefigurare un’alleanza strategica tra imprenditoria, scienza e tecnica, con compiti di una più generale governance? In altri termini, i valori proposti dall’economia e dal sapere scientifico possono essere considerati come di per sé validi ed efficaci per l’organizzazione dell’intera società?

[Vittorio Bertolini:
Impresa e scienza-tecnica sono i due poli attorno a cui ruota la nuova società complessa. Se però la governance venisse lasciata a uno solo di essi, o ad ambedue insieme, si creerebbero rapporti asimmetrici rispetto alla società. L'impresa, anche per motivi di sbocchi della produzione, deve limitare la società degli esclusi, ma per far questo deve allargare il fronte delle proprie alleanze. Un nuovo contratto sociale impresa - scienza-società.]

Ancora una volta, in linea di principio, un’ipotesi del genere non può essere esclusa a priori, anche se va discussa adeguatamente.

Intanto, una collaborazione tra impresa e tecnologia comunque si realizza e costituisce un dato inevitabile. La eventuale proiezione sociale, seppure non puramente meccanica, della struttura di relazioni instauratesi tra questi due fattori dipende dalle finalità che una tale interazione si propone, proprio a partire dall’ambito economico. Occorre, dunque, verificare se il rapporto tra economia, scienza e tecnica si costituisce intorno al solo obiettivo di accrescere l’efficienza e la produttività, o se, invece, si fa contestualmente carico del raggiungimento dell’efficacia dei servizi offerti, del miglioramento della qualità dei prodotti immessi sul mercato, della difesa dell’equilibrio psico-fisico dei dipendenti, della limitazione delle implicazioni sociali negative connesse alla produzione, a cominciare dall’impatto ambientale. Nella seconda ipotesi, l’impresa chiede alla scienza di collaborare alla definizione di un modello produttivo e di un tipo di sviluppo più rispettosi dell’uomo e della natura e, di fatto, si pone come nucleo dirigente dell’intera società, dal momento che assume come propria mission e come propria responsabilità la valutazione di quei fenomeni connessi alla contestualizzazione più ampia delle sue attività.

In caso contrario, si potrebbe creare un circolo vizioso, in base al quale scienza ed economia si alleerebbero per alimentare un facile consenso sociale nei confronti della loro crescita. A questo punto, scienza ed economia sarebbero impegnate a dare un volto ingenuamente rassicurante, ognuna di sé e ognuna dell’altra, perché solo così la scienza potrebbe ottenere i fondi necessari e, di converso, solo così l’economia potrebbe far leva su un clima favorevole per procedere nei suoi programmi, senza intralci di tipo morale e senza preoccupazioni per un più profondo e vasto avanzamento teorico. Se, però, la scienza si lega ad un’imprenditoria chiusa in una visione miope e corporativa, si assoggetta alla sua volontà di dominio e, nel contempo, la condivide. In questo modo, nel mentre estende il suo campo di influenza, compromette la sua stessa autonomia, se la intendiamo come possibilità di pervenire a scelte autentiche. Del resto, se è vero che la scienza, già oggi, rappresenta anch’essa un potere, tuttavia bisogna considerare che nei rapporti tra poteri diversi non tutti possiedono la stessa forza.

[Vittorio Bertolini:
Ho qualche dubbio che il binomio scienza-economia possa innescare un facile consenso verso quello che, alla Galbraith, potremmo definire la tecnostruttura. Per esempio, certi interventi sull'ambiente hanno modificato la sensibilità verso i problemi ecologici, oppure riguardo al consumismo, la percezione del marchio non viene più percepito come garanzia di un prodotto, ma come stile di vita innescando perciò, con buona pace della Klein, un rigetto. E' un dato reale che i clienti dei discount appartengono alle classi medio alte]

L’assunzione, invece, di un orizzonte ampio ed aperto comporta inevitabilmente il riconoscimento dell’autonomia e della legittimità dei diversi interessi costituiti (almeno in via presuntiva e fino a prova contraria). Questo richiede una mediazione tra di essi, non tanto, o non soltanto, nel senso di raggiungere un compromesso tra di essi, quanto e soprattutto nel senso di inquadrarli in un disegno programmatico complessivo, seppure non globale. Questo compito può essere svolto solo da istituzioni democraticamente legittimate, la cui presenza resta ancor oggi fondamentale, per quanto se ne debbano ridefinire i poteri.

Il ruolo delle istituzioni liberamente costituite, il riconoscimento del valore del pluralismo sociale e la riduzione e la revisione della portata progettuale, tutti insieme, contraddistinguono la democraticità di un sistema moderno.

In particolare, vanno discussi lo spessore e le caratteristiche che deve possedere un progetto di governo che si rivolga all’intera società.

Filosoficamente parlando, l’esigenza di dotarsi di un progetto minimale è stata posta dal pensiero post-moderno. Il presupposto teorico di questa posizione risiede nella constatazione dell’impossibilità di ricondurre ad un progetto esaustivo quella che viene definita la moltiplicazione delle differenze, fenomeno quest’ultimo assunto come dato ormai imprescindibile del nostro tempo e come valore irrinunciabile. In alcune sue versioni, questa corrente filosofica non ignora i pericoli di implosione o di entropia in cui incorre la società, ma confida comunque nella capacità autoevolutiva dei sistemi olistici.

Per parte mia, accolgo la necessità della valorizzazione delle differenze, tranne a stabilire poche, particolari eccezioni, così come riconosco la impossibilità di una loro ricomposizione organica, ma non rinuncio alla individuazione di un ruolo propositivo e propulsivo dell’uomo e, nello stesso tempo, non mi rassegno ad una concezione meccanicistica e fideistica della storia. D’altro canto, laddove il pensiero post-moderno disegna l’ultima trincea soggettivistica nella capacità automatica dell’uomo a convivere, o a ritrovare una convivenza con l’insieme delle possibilità prospettate dal mondo contemporaneo, io ritengo illusoria e pretenziosa una tale prospettiva. Dal mio punto di vista, il rapporto uomo-mondo rinvia sempre ad una qualche autonoma forma e misura progettuale dell’uomo, per quanto ridimensionate. Sotto certi aspetti, con il pensiero post-moderno, ammetto che bisogna essere meno hegeliani, ovvero che occorre rinunciare definitivamente alla pretesa di una sintesi totale e di un progetto esaustivo, in sé compiuto, ma, contro quel movimento filosofico, ricerco la possibilità di essere, oggi più che mai, kantiani, facendo appello alla capacità critica dell’uomo. La vera sfida consiste nel rendere, per quanto possibile, ancora propulsiva l’inevitabile contrazione del nostro ruolo storico.

[Vittorio Bertolini:
Possiamo dire che la complessità alla fine si risolve nel fattore umano. Nella dialettica fra uomo, impresa, scienza e tecnica sta la sede di un nuovo umanesimo? ]

Volendo trasporre questo ragionamento sul piano istituzionale, ne deriva l’esigenza di una graduazione e di una ridefinizione della potestà d’imperio esercitata dalla società organizzata, a seconda dell’ambito di intervento e delle finalità che essa si prefigge.

Il potere autoritativo dovrebbe assumere una funzione propulsiva e andrebbe esplicato non solo per garantire la proprietà, la sicurezza, l’integrità e la dignità dell’individuo, così come vuole la concezione liberale classica, ma anche per realizzare alcune, non troppe, priorità programmatiche, considerate rilevanti per la qualità della vita del cittadino e ritenute essenziali per la promozione delle sue potenzialità. In ciò si esplicherebbe il potere direttivo delle istituzioni.

Alcuni comportamenti individuali ed intersoggettivi, come, ad esempio, quelli inerenti i rapporti di coppia, andrebbero, invece, disciplinati secondo criteri regolativi e non direttivi. Allo stesso modo, alcune questioni relative alla medicina e alle biotecnologie potrebbero essere regolamentate con leggi quadro, aventi una validità temporanea, da sottoporre, quindi, a revisione periodica, in accordo con il carattere aperto e probabilistico di determinati risultati scientifici. Questo rappresenterebbe il potere regolamentare delle istituzioni (alla stregua di quei modelli di organizzazione del lavoro più flessibili e più interattivi).

Inoltre, certe competenze sarebbero decentrate ai poteri locali, mentre alcuni servizi di carattere urbano e suburbano potrebbero essere affidati in autogestione, coinvolgendo la società civile in compiti di governo. Si attuerebbe, così, un processo inverso rispetto a quello sinora realizzatosi, secondo una delega di poteri dal centro verso la periferia e verso forme associative autonome. In un’ottica di compartecipazione, invece, si potrebbe pensare a forme di consultazione e di collaborazione tra istituzioni e specifiche organizzazioni sociali per definire le più importanti questioni connesse all’innovazione del sistema, almeno nei loro criteri regolativi.

[Vittorio Bertolini:
Questi due punti meriterebbero una riflessione a parte (ma non è un invito a farla). Il primo, "rapporti di coppia" ecc., rientra in quella che possiamo definire la problematica dell'etica pubblica. Il secondo, sulle istituzioni locali, ha bisogno di una verifica empirica. Il locale infatti sta recuperando una funzionalità che non è più quella del "piccolo ma bello".]

Infine, la società, nel suo complesso, dovrebbe cercare di individuare dei valori, largamente condivisi, i quali assicurino la civile convivenza e la libera espressione dei singoli. In tal modo, la società espleterebbe una funzione di orientamento, offrendo un orizzonte comune all’agire dei singoli e dei soggetti organizzati in essa operanti (un po’ come la mission di un’azienda).

Secondo questo schema di massima, contenuti forti si affiancherebbero a contenuti più flessibili e più circoscritti, mentre il formalismo democratico, giuridico e civile in parte sopperirebbe alla normativizzazione compiuta, in parte la sosterrebbe.


30 settembre 2001
From: Vittorio BERTOLINI
Subject: Re: Governance: se, quanto, come

Alcune note a margine dell'intervento di Andrea Amato.

[Ndr: le note sono state inserite nel corrispondente intervento]

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