La Repubblica del 137/11/2007
Vaclav Havel 
I Don Chisciotte del XXI secolo

La responsabilità, ed intendo la responsabilità nel senso più ampio e più profondo 
della parola, quindi "la responsabilità per il mondo", è una delle caratteristiche 
umane più interessanti e al contempo più misteriose. Tutti sappiamo cosa significa 
questa parola e nessuno sa da dove proviene. La responsabilità non è una caratteristica 
qualunque tra le caratteristiche umane. La psicologia o le altre scienze non sono 
sufficienti in questo campo. Essa infatti li eccede, non si riferisce solo al nostro 
ambiente circostante, non è quindi un mero riguardo a cosa penserà la gente.

Ma è fatalmente legata a ciò che è "oltre' ogni "oltre": all'assoluto, all'intera 
memoria dell'esistenza, all'ultimo e supremo giudizio, al senso di tutto ciò che 
esiste. La sola cosa importante per la nostra responsabilità è quale traccia 
lasceremo. Tutto il resto è superfluo. Quando ero in carcere e molti mi chiedevano 
perché mi ci trovavo, quando bastava così poco per non esserci, ho rifettuto molto 
sulla responsabilità e le ho dedicato molta attenzione nelle mie lettere a casa. 
Finalmente di ritorno, ho scritto un saggio intitolato Responsabilità come destino. 
Si tratta di una rifessione sul Dizionario dei sogni di Vaculik, che a quei tempi 
era un bestseller ufficioso e che mi sembrava in primo luogo un libro su un uomo 
infastidito, annoiato e enormemente frenato dalla propria responsabilità (da 
dissidente) dalla quale non riusciva a liberarsi, probabilmente proprio perché lo 
vincolava, come un suo destino, nelle sfere più profonde del mondo profano che ci 
diverte, che ci incomoda, che ci sorprende, che ci irrita, che ci frena o che ci 
disturba.	
Oggi, dopo ventiquattro anni, ho letto nuovamente quel saggio, e ho constatato che 
1)ci sono alcune divagazioni 2) che forse parlavo più di me che di Vaculik 3) che 
riguarda una questione che sorprendentemente mi, pongo tuttora, vivendo in un 
periodo totalmente diverso, e che mi pongo quasi con la stessa urgernza  di allora.
Cosa posso aggiungere oggi all'idea che la responsabilità per il mondo è 
semplicemente un pezzo del destino umano, indifferentemente da come ognuno di noi 
la percepisce o la assume?
Mi sento tuttavia di aggiungere o sottolineare altre due cose.
In primo luogo esiste un confine molto labile tra forzata responsabilità per il 
mondo e ossessione. E talvolta, molte volte troppo tardi, l'ammirazione per 
l'immensa volontà altruistica di aiutare il mondo si trasforma nell'orrore di uno 
strano bagliore che sprizza dagli occhi dell'ammirato. E l' orrore delle catastrofi, 
ove il bisogno dell'ossessionato di compiere il bene può far precipitare l'umanità 
alla luce di ciò che lui stesso intravede in questa parola, "modellare" il mondo.
In secondo luogo: come evitare che un ammirabile altruista diventi uno spaventoso 
maniaco? C'è un solo modo: la leggerezza. Quanto più gli obiettivi che persegue 
l'uomo sono impegnativi, tanto più dovrebbero essere visti da una prospettiva 
più alta. L'uomo dovrebbe essere in grado di percepire le dimensioni grottesche 
delle proprie azioni, saperci riflettere e valutarIe con distacco, ironia, 
scetticismo, con la consapevolezza di fondo, che comunque tutto è assurdo. Il mondo 
deride sempre gli eroi, gli idealisti, i sognatori, gli operatori umanitari o 
gli attivisti sindacali (termine orribile). L'importante è che sotto tale pressione 
essi stessi non diventino troppo seri, non comincino a commuoversi per l'ingratitudine
del mondo per la loro difficile sorte e, di conseguenza, a rinchiudersi in se stessi, 
tra se stessi, ad imprigionarsi nella sensazione di un'eccezionalità incompresa e 
a scivolare così dal mondo degli altruisti al pericoloso mondo dei maniaci.
Credo semplicemente che gli altruisti, avvertendo la responsabilità per tutto il 
mondo e gettandosi ripetutamente, accompagnati dalle beffe, nelle proprie avventure 
donchisciottesche, nell'interesse proprio e in quello generale, dovrebbero saper 
ridere di se stessi. D'altronde, quando l'ironia del deridente viene confrontata
con quella del deriso, spesso dal volto si spegne il sorriso per lasciar posto 
alla smorfia.