Rassegna stampa
commentata da Vittorio Bertolini [ * ]

Dicembre 2001

Le ‘felici sorti e progressive’ dell’innovazione tecnologica italiana?

Robert Reich è un docente di politica economica che ha alternato la cattedra universitaria agli scranni del Congresso degli Stati Uniti, fino a ricoprire l'incarico di Ministro del lavoro durante la prima investitura di Bill Clinton alla Casa Bianca. Pochi mesi dopo il suo insediamento al ministero del lavoro, mandò nelle librerie un libro che fece scalpore al di là dell'Oceano. La supremazia americana, sosteneva allora Reich nel volume L'economia delle nazioni (pubblicato in Italia dal Sole 24ore), non è più data dal potere politico e militare, ma dall'immensa capacità di produrre innovazione tecnologica. (cfr. Benedetto Vecchi, il manifesto del 28 novembre).

Su Il Sole 24 Ore del 15 novembre Luca Paolozzi intervista due esperti in information and communication technology (ICT), Paul David e Hal Varian, "Finita l'euforia hi-tech, resta la vera innovazione". David e Varian concordano nell’affermare che l'ICT ha innalzato le potenzialità di sviluppo, «una migliore distribuzione del reddito globale passa attraverso una maggiore dotazione di infrastrutture tecnologiche dei Pvs». Ed anche se alcune disavventure della new economy richiedono del tempo per essere sanate, «rimane la conoscenza incorporata nelle persone, il maggior capitale umano pronto a essere utilizzato in altre attività, magari in città lontane dalle capitali della nuova economia».

Discorso sostanzialmente non difforme sul ruolo della "rivoluzione informatica" (ma più in generale si potrebbe parlare di tutto l’insieme delle tecnologie innovative) viene avanzato da Sergio Cofferati in un articolo apparso su ‘il manifesto’ del 18 novembre (Franco Carlini, "Elogio della new economy").

Ovviamente il leader del maggior sindacato italiano, nel suo discorso cerca di accentuare il ruolo (non si sa bene se con i riti e i paradigmi della old o della new economy) delle organizzazioni dei lavoratori in una trasformazione in cui il ruolo del lavoro muta radicalmente. Si veda per esempio l’intervista su Avvenire del 2 novembre, "La felicità sta nel modem", al professor Eugenio Sarti, docente di Controlli automatici all'università di Bologna. «L'informatica consente oggi un modo di lavorare più umano e più creativo. Però il 70 % delle risorse che bruciamo non servono al nostro vero benessere» scrive il docente bolognese. D’altra parte lo stesso Varian avanza il dubbio che la «maggiore produzione portata dalle nuove tecnologie nasce anche dalla loro pervasività nel tempo di vita, che conduce a superare la netta separazione tra tempo di lavoro e tempo libero».

A smorzare però le speranze per le ‘felici sorti e progressive’ dell’innovazione tecnologica italiana è apparso su Il Sole 24 Ore del 21 novembre l’editoriale di Carlo Maria Guerci: "Innovazione, un Paese fuorigioco".

Guerci, professore ordinario di Economia politica all'Università di Milano e consulente in materia di analisi di business, politiche industriali e strategie aziendali, in questo editoriale, come già il titolo chiaramente anticipa, svolge un’analisi decisamente impietosa sullo sviluppo nel nostro Paese di fronte ai processi innovativi.

Le considerazioni di Guerci prendono l’avvio dal fatto che in un concorso indetto dal Wall Street Journal Europe per le migliori innovazioni tecnologiche europee, non c’è nessun nome italiano. Il dato in se stesso può essere irrivelante se non fosse accompagnato, come rileva Guerci, «dai dati sui brevetti italiani, dalla scarsità delle nostre esportazioni nei settori e segmenti più tecnologici, e per contro dall'elevatissimo numero di pubblicazioni dei nostri ricercatori, tra i più verbosi del mondo ma anche tra i meno citati».

A conferma di queste affermazioni nella pagina "Indicatori di innovazione nei Paesi europei" reperibile nel sito dell’Airi (Associazione Italiana per la Ricerca Industriale) si sintetizzano i dati riportati con: «Come si vede l’Italia è al di sotto della media europea per tutti gli indicatori salvo quelli relativi al numero di PMI innovatrici e alle vendite di prodotti "nuovi per il mercato". Nei commenti vengono identificati per ogni Paese i punti di forza ed i punti deboli: per l’Italia quelli forti sono quelli suddetti, quelli deboli sono: R&S enti pubblici, istruzione, brevetti alta tecnologia, finanziamenti dell’innovazione. Dal calcolo (sperimentale) di un indice analitico dell’innovazione (SII) rispetto alla media europea, l’Italia si pone a –5,9, mentre, per esempio, Germania è a 0 (media europea), Francia a -0,6, Regno Unito a +4,4.»

Dopo aver distinto l’invenzione dall’innovazione, il prof. Guerci individua alcune delle ragioni che situano il nostro paese fra quelli che "consumano" o "adottano" l'innovazione rispetto a quelli che "producono" innovazione.

Poiché in generale le invenzioni e le innovazioni premiate sono state realizzate in imprese di ridotte dimensioni, l’Italia, per il forte tessuto di piccole imprese disseminate in una rete pressoché continua di distretti specializzati. Contrariamente però alle aspettative il fulcro dei processi innovativi si trova in poche imprese come STmicroelectronics, Pirelli, Olivetti, Fiat, Ausimont, Cselt (Telecom). Questo non è affatto in contrasto con l’affermazione fatta sopra che il nostro Paese ha un numero di PMI innovatrici superiore alla media europea. E’ semplicemente la conseguenza del fatto che in Italia la densità delle piccole imprese è decisamente superiore. E’ proprio la struttura organizzativa, la dimensione culturale e la capacità finanziaria delle pmi a spostare la ricerca innovativa nella direzione di poche grandi imprese. I distretti, infatti, il più delle volte sono sorti per imitazione attorno ad un polo originario, e la loro crescita è stata influenzata più da fattori ambientali che legati al processo produttivo.

Ciò non significa sminuire il ruolo che i distretti hanno avuto nello sviluppo territoriale e per il miglioramento delle condizioni di reddito e sociali; per verificare la vitalità del loro modello propulsivo si veda su Il Sole 24 ore dell'11 marzo "La via dei distretti supera il ‘nanismo’", su quello del 9 settembre 2001 "Distretti a tre dimensioni" e su quello del 29 settembre 2001 "Prodi: «Distretti preziosi»".

La penetrazione di attrezzature sofisticate ha seguito, nella maggior parte dei casi, più il modello della sostituzione dei fattori meno efficienti e/o più costosi, che quello dell’innovazione di processo, mentre, com’è naturale per imprese in cui è prevalente la pratica dell’outsourcing, è assente l’innovazione di prodotto.

«Le nostre imprese minori sono spesse volte molto competitive, ma ottengono il vantaggio comparato su nicchie particolari, sfruttando adattamenti e miglioramenti di tecnologie più o meno note. Nella cultura della nostra impresa minore la tecnologia non è ancora divenuta una leva competitiva prioritaria».

Tra gli altri elementi che Guerci prende in considerazione vi sono la netta separazione tra sistema imprenditoriale e università e istituti di ricerca in genere e la scarsità di venture capital.

Nel primo caso il fenomeno si evidenzia attraverso la debolezza dei flussi di laureati in discipline tecnico scientifiche nella direzione del sistema dei distretti (si confronti per una iniziativa in controtendenza Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2001, «Più rischi senza ricerca»), che sembra più orientato a potenziare le strutture di marketing e amministrative che quelle legate all’innovazione tecnologica. Implicitamente questo conferma la tendenza del venture capital verso le "bolle speculative", a finanziare, come scrive Guerci, «le idee più assurde quando era di moda la New economy ma è restio a assumersi i rischi di iniziative tecnologiche, che conosce e forse ama poco».

Emerge il quadro di un sistema paese in cui esistono sì punte di eccellenza e spinte all’innovazione, anche di singole individualità (cfr. "La signora che ha messo i tappi alla filosofia", La Repubblica del 3 dicembre 2001), però scarsamente permeabile alla cultura dell’innovazione. Nella cultura della nostra impresa minore la tecnologia - ovviamente vi sono splendide eccezioni - non è ancora divenuta una leva competitiva prioritaria, specialmente nelle sue componenti politiche.

Su Il Sole 24 Ore del 28 luglio il rettore del Politecnico di Milano, Adriano De Maio, ha scritto un articolo dal titolo significativo "Proposta al governo - Progettiamo l'innovazione" di cui vale la pena riportare il seguente passo: «Ritengo che si possa vivere bene e ci si possa sviluppare economicamente, culturalmente, socialmente anche se non si fa più parte del gruppo degli innovatori ma è indubbio che, in questo caso, il ruolo che compete è quello dei trainati e non dei trainanti. Non si sarà più in grado cioè di decidere, con un certo grado di autonomia, del proprio destino ma si sarà sempre più etero-governati. Un ambiente scarsamente innovativo, poi, non solo non attrae risorse esterne ma fa fuggire quelle già presenti. La situazione quindi richiede interventi profondi.».

Non è questa la sede per discutere della proposta di De Maio, tuttavia ciò non esime dal notare che o perché fine luglio non è la data più adatta per fare proposte, o perché si era ridosso dei fatti di Genova o per qualsiasi altro motivo, fatto sta che la proposta, a quanto mi risulta, non ha suscitato molto interesse, nemmeno quello di promuovere un ampio dibattito pubblico.

Merita infine di segnalare su Il Sole 24 Ore del 5 dicembre un articolo del presidente dell’Airi (vedi sopra), Renato Ugo, "L'innovazione alla base dello sviluppo", scritto per la presentazione del rapporto biennale "Repertorio delle tecnologie prioritarie per l'industria". Scopo del repertorio è di definire delle strategie prioritarie per l’innovazione separando nettamente «i ruoli e i tempi dell'innovazione tecnologica rispetto a quelli della ricerca di base, le tecnologie analizzate nel Repertorio considerano un periodo di sviluppo di tre-cinque anni, ben differente dai dieci-quindici anni dell'orizzonte della ricerca di base».

Infatti «E’ pur vero che è molto più appariscente il risultato di un gruppo di ricerca che identifica un nuovo gene, che forse ci permetterà di curare una grave malattia. Ma è pur vero che è il faticoso e oscuro lavoro di centinaia di formichine, cioè dei ricercatori industriali, a permettere di lanciare sul mercato prodotti innovativi: dai nuovi farmaci salvavita ai telefoni cellulari di ultima generazione, dai computer sempre più potenti ai software sempre più sofisticati, dai processi puliti della chimica sostenibile ai nuovi sistemi dell'optoelettronica per le telecomunicazioni avanzate».

(7 dicembre 2001)

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[*]Vittorio Bertolini (right-sfondochiaro.gif (838 byte)Scheda biografica) collabora con la Fondazione Giannino Bassetti

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