Rassegna stampa
commentata da Vittorio Bertolini [ * ]

Settembre - Ottobre 2001

 Correlazione: 

Enrico Fermi
(sottotitolo: "Beati gli scienziati che non hanno bisogno di essere eroi")

Il centenario della nascita di Enrico Fermi è stato ricordato nella stampa quotidiana, pressoché unanimemente, ripercorrendo le varie fasi della sua vita scientifica. All’indirizzo Il Centenario di Fermi ho raccolto alcuni di questi articoli e non è perciò il caso di riprendere qui come Fermi abbia intuito (a onor del vero controintuito) che il nucleo atomico vada bombardato con neutroni "lenti" o le avventurose vicende che hanno accompagnato il primo riuscito esperimento di fissione nucleare il 2 dicembre del 1942.

Questo centenario deve servire per una riflessione che, partendo da quanto Fermi è riuscito ad essere protagonista nell’innovare il modo di fare ricerca, riesca a cogliere alcune delle principali problematiche relative al ruolo della scienza e dello scienziato nella modernità.

«Ha avuto il merito di avere gettato le basi di quella che viene chiamata big science, cioè grandi progetti di ricerca a cui partecipano centinaia di scienziati», dichiara Stefano Fantoni, professore di fisica teorica della Scuola Superiore di Studi Avanzati di Trieste all’Unità. Su Avvenire del 27 settembre, Antonio Iannacone, parla di «talento insieme fisico e ingegneristico».

Nicola Cabibbo, ricordando su Avvenire quanto nel 1955, dopo quasi vent’anni da quando Fermi era emigrato in America, ancora «la sua personalità fosse presente nell'Istituto di Fisica di Roma», scrive: «Imparavamo che un fisico non è veramente tale se non è in grado di concepire e di costruire gli strumenti che gli servono».

Nell’articolo di Iannacone citato si legge anche: «A cent'anni dalla nascita, molto si sa del Fermi fisico e poco o nulla del Fermi "metafisico". Ovvero, letteralmente, di tutto quanto il premio Nobel pensasse al di là della scienza». In sostanza si tende a contrapporre all’archetipo dello scienziato filosofo l’archetipo dello scienziato ingegnere. A parte che la sua statistica quantica può essere una base ontologica alla pari del principio di indeterminazione di Heisenberg, nell’approccio ingegneristico di Fermi è esplicita una epistemologia chiaramente improntata ad una visione che rimanda al pragmatismo. Lo sperimentalismo di Fermi non è infatti né quello di Edison né quello di Guglielmo Marconi; la sua preparazione e il suo interesse alla modellizzazione matematica (si veda il suo interesse per i calcolatori, allora appena all’inizio del loro tumultuoso sviluppo) ne sono la controprova. L’intuizione - o la controintuizione - che conduce all’esperimento è sempre ancorata ad una forte base teorica e ne rappresenta il necessario complemento. A Fermi non interessa la "verità" della teoria, ma la sua applicabilità.

Questa integrazione fra teoria ed esperimento porta Fermi ad essere l’anticipatore o l’antesignano del nuovo modello di ricerca scientifica in cui conoscenza teorica, verifica sperimentale e applicazione tecnologica sono connesse da legami inscindibili.

La scoperta dell’interazione debole nella prima metà degli anni ’30 e l’intuizione della fissione nucleare immediatamente successiva, la realizzazione della "pila atomica" nel 1942 e la partecipazione al successivo progetto Manhattan che ha portato alla realizzazione della bomba atomica (cfr. Pietro Greco, Unità), seppure in modo approssimativo rappresentano i tre momenti salienti (teorizzazione, sperimentazione, realizzazione tecnologica) della moderna big science.

Già nella seconda metà degli anni ’30 Fermi aveva intuito che la ricerca scientifica d’équipe, dove diverse competenze confluiscono per realizzare progetti di lungo respiro, che si dipanano lungo percorsi temporali pluriennali non solo rappresentava la nuova frontiera della ricerca, ma altresì richiedeva risorse straordinarie, al di là di quelle a cui possono accedere gli istituti universitari. Perciò, come scrive Daniela Bortesi su Il Gazzettino, «nel 1936 Fermi cerca invano, di reperire i fondi per la realizzazione di un Istituto nazionale di radioattività, dotato di una macchina acceleratrice molto più potente di quella già realizzata nell’Istitito di fisica della Città Universitaria". Ed è probabile che la decisione di accettare la proposta della Columbia University e di allontanarsi dall’Italia, vada ricollegata, oltre all’emanazione delle leggi razziali che indirettamente lo colpivano, alla delusione nel veder frustrati i propri programmi di ricerca e i tentativi di mantenere la ricerca italiana ad un livello d'eccellenza.

La sfortuna ha voluto che il primo esperimento di big science, in cui Fermi è stato qualcosa di più di un comprimario, fosse confuso con la "scoperta" della bomba atomica. Ma forse era proprio necessaria la mobilitazione bellica per coagulare attorno al progetto Manhattan quell’ingente insieme di risorse che ha fatto decollare la ricerca sul nucleare.

Anche se successivamente la big science ha mobilitato risorse e intelligenze in direzioni, dall’astrofisica alla biologia molecolare, estranee all’utilizzo bellico, nell’immaginario collettivo i grandi progetti scientifici riportano alla memoria (in alcuni casi anche artatamente recuperata) di Hiroshima e Nagasaki.

Per analogia, anche Enrico Fermi viene ricordato come "padre della bomba". E di qui il discorso sulla responsabilità della scienza e dello scienziato, della tecnica che da oggetto diventa soggetto, ecc (cfr. Il Mattino e Il Gazzettino).

Sia nell’articolo di Bernardini su L'Unità che in quello di Bottazzini su Il Sole 24 Ore, di Odifreddi su Repubblica e di Titti Marone su Il Mattino vengono sufficientemente descritte le fasi della partecipazione di Fermi sia al progetto Manhattan, come pure le sue perplessità sulla realizzazione della bomba H.

L’affermazione "padre della bomba" è perciò ridicola, perché la realizzazione della "bomba" è la conseguenza di un progetto tecnico-scientifico in cui decisioni politico-militari hanno pesato almeno tanto quanto quelle della ricerca, se non di più. Ma anche perché è fuorviante voler valutare oggi, a più di cinquant’anni di distanza, le responsabilità morali di Fermi e degli altri scienziati che hanno partecipato all’esperimento di Los Alamos.

Scrive Carlo Bernardini: «Fermi era bravo, straordinariamente bravo; al punto che ogni distrazione dalla sua capacità di capire i problemi della scienza gli appariva intollerabile. Dobbiamo ripetere che null'altro lo interessasse oltre la fisica? No, ogni talento prodigio ha una perfetta coscienza di sé e si chiude nei suoi pensieri come in un bozzolo»

Aggiunge Bottazzini nel suo articolo su Il Sole che di fronte al problema della bomba H, Fermi, pur ritenendo opportuno che si addivenisse ad una moratoria internazionale, riteneva che "in caso di fallimento si dovesse procedere, con rammarico, nello sviluppo dell’arma".

Da queste citazioni, insieme a quelle del rifiuto della metafisica riportate prima, mi pare emerga la figura di un Fermi che riteneva sua responsabilità primaria l’interesse per la ricerca scientifica, ma che, pur intravedendo alcune conseguenze delle sue ricerche, ne trasferiva la responsabilità al potere politico.

Su questo estraniarsi ciascuno potrà emettere le proprie valutazioni, ma, prima di qualsiasi giudizio, una breve considerazione, che non vuole essere né una storicizzazione della responsabilità, né tanto meno una giustificazione, ma né più né meno che una riflessione aperta.

Visto che siamo in giorni di premi Nobel, ma anche di tensioni internazionali paragonabili, per le poste di civiltà in gioco, a quelle di 60 anni fa, fingiamo un'ipotesi fra il fantascientifico e la fantapolitica.

Supponiamo che sia realistico, come afferma Stefano Fantoni su il Manifesto, arrivare a "costruire dei veri e propri laser atomici". Di fronte alla possibilità di liquidare Bin Laden e le centrali terroristiche con operazioni veramente "chirurgiche", risparmiando vite umane e ingenti costi materiali da dirottare verso "veri" interventi umanitari, quale decisione dovrebbero assumere i premi Nobel Eric Cornell, Carl Wieman e Wolfgang Ketterle?

Parafrasando il Brecht di «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi» forse oggi qualcuno vorrebbe scrivere «Beati gli scienziati che non hanno bisogno di essere eroi».

(12 ottobre 2001)

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[*]Vittorio Bertolini (right-sfondochiaro.gif (838 byte)Scheda biografica) collabora con la Fondazione Giannino Bassetti

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