La Stampa, 8 gennaio 2002
Fondi per la ricerca, l'Italia come il Terzo mondo
Piccoli Marconi emigrano
di Riccardo Viale [*]
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Nell'immediato dopoguerra una delle più importanti università
americane, il Mit, viene chiamata a contribuire al rilancio economico
del New England. 
Insieme ad altre istituzioni dà origine a un'impresa, l'Ardc, che
avrà il compito di finanziare e creare nuove imprese sulla base delle
conoscenze prodotte dai laboratori universitari. 
Nasce così un nuovo modello del rapporto tra università e impresa,
chiamato successivamente Mit-Stanford, che progressivamente verrà
adottato dalle più importanti università americane. 
Il miracolo tecnologico americano degli ultimi venti anni sembra
dipendere proprio da questa mutazione della missione dell'università. 
L'università «imprenditoriale» che non solo produce conoscenza di
frontiera da trasferire al mondo industriale, ma è generatrice e
finanziatrice essa stessa di nuove imprese hi-tech, è ormai diventata
il motore dello sviluppo tecnologico e industriale dei paesi più
industrializzati. 
Chi ha il motore più potente riesce ad andare più veloce degli altri.
Chi ne è privo si dovrà accontentare di rimanere nelle retroguardie.
Non si capisce bene cosa voglia fare l'Italia. Tutti si riempiono la
bocca dell'importanza della conoscenza per la competitività
industriale del nostro paese. 
Nei fatti il governo non è capace di aumentare i fondi per la
ricerca, la cui quota ormai ci avvicina ai paesi del Terzo mondo. 
Le università e gli enti di ricerca italiani frenano rispetto alla
creazione di un vero sistema competitivo della ricerca che vedrebbe
le varie sedi accademiche in concorrenza rispetto ai fondi pubblici e
privati. 
Il mondo dell'impresa continua a investire poco nella ricerca e si
oppone alla nuova legge sulla proprietà intellettuale dei brevetti da
parte dei ricercatori che, con l'attuale immobilismo accademico, è
l'unica che può garantire il potenziamento della ricerca applicata e
del trasferimento tecnologico. 
Il problema è che siamo un paese che non ha il coraggio di fare
scelte impopolari per investire sul futuro. Meglio togliere i soldi
per la ricerca che scontentare i sindacati tagliando qualche spesa
assistenziale. 
Meglio tutelare l'inamovibilità della corporazione accademica che
aprire il sistema della ricerca pubblica alla concorrenza e al
mercato. 
Meglio continuare a comprare sottobanco e con quattro soldi le poche
invenzioni dei laboratori pubblici che incentivare con la proprietà
brevettuale individuale la ricerca pubblica a orientarsi verso i
bisogni dell'impresa. 
Fa piacere sentire il capo del governo citare Guglielmo Marconi come
esempio paradigmatico dell'importanza della scienza per lo sviluppo
del paese. 
Non scordiamoci però che Marconi, vista la sordità e miopia del
governo di allora e del sistema industriale italiano, partì per
l'Inghilterra dove l'invenzione del sistema antenna-terra ebbe ben
altra fortuna e diede origine alla «Marconi's wireless telegraph and
signal company». 
Sono passati tanti anni, ma la situazione della ricerca italiana è
rimasta la stessa. Quanti piccoli Marconi sono obbligati a emigrare o
a illanguidire nei laboratori pubblici? 

[*] Direttore della Fondazione Rosselli