Chernobyl, l'incubo infinito - REPORTAGE

dal nostro inviato ALBERTO STABILE  (La Repubblica 17/6/2000)

www.repubblica.it/quotidiano/repubblica/20000617/commenti/01baden.html

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CHERNOBYL 
L'ARIA risuona del canto degli uccelli. Le api si posano sui
fiori. Il bosco emana un piacevole alito di frescura. Non ci
sono macchine in giro. Rari i passanti. Un piccolo paradiso
risparmiato dagli abusi della civiltà, si direbbe a prima
vista. Invece è l'inferno che vorremmo cancellare dalla nostra
mente.
Quattordici anni dopo il disastro più grave nella storia
dell'energia nucleare, entriamo - non senza patemi - nella
centrale di Chernobyl ormai segnata da un annuncio di morte.
Il reattore numero Tre, il solo rimasto in funzione, dei
quattro che componevano l'impianto, sarà spento il 15 dicembre
prossimo. La centrale, diventata il simbolo di una sconfitta,
sarà messa in disuso. Ma l'incubo non si dissolverà in quella
data. "Il peggio - sento ripetere lungo il viaggio verso
Chernobyl - deve ancora venire".
Cosa ci può essere di peggio rispetto alle decine di migliaia
di morti, di invalidi, di ammalati provocati dall'esplosione? 

RISPETTO alle centinaia di migliaia d'ettari di terreno
contaminati, ai fiumi avvelenati, ai boschi pietrificati?
Rispetto all'evacuazione di intere città, allo sradicamento di
milioni di persone condannate all'impoverimento,
all'alienazione della speranza, alla perdita dell'identità?
"Il peggio - dicono gli esperti delle Nazioni Unite che con
pochi mezzi tengono sotto osservazione gli effetti della
catastrofe - verrà tra il 2006 e il 2010 quando le conseguenze
sulla salute di tre milioni e mezzo di persone raggiungeranno
il picco più alto". Basta vedere il dato sui casi di cancro
alla tiroide che colpisce i bambini di Chernobyl. Entro
l'inizio del millennio erano stati previsti 1500 casi, 6600
entro il 2006. Oggi, invece, superano già gli undicimila.
"Il peggio - ammonisce il professor Anatolij Romanenko,
direttore del Centro di ricerca per la Medicina delle
Radiazioni - verrà, se verrà, quando i bambini che erano in
fasce o nella pancia della mamma al tempo dell'esplosione
cominceranno a loro volta a procreare. Solo allora si potrà
sapere se oltre al cancro, all'abbassamento del livello
immunologico della popolazione e a tutte le patologie
sviluppatesi dopo l'incidente, l'esplosione ha provocato anche
alterazioni genetiche".
La strada per Cernobyl corre diritta fra due quinte d'alberi
che alla fine dovranno essere abbattuti, i tronchi sepolti nei
cimiteri di scorie radioattive. Questi castagni giganteschi,
questi pini altissimi rappresentano una bomba innescata. Se
dovesse svilupparsi un incendio, con la cenere e il fumo, si
propagherebbero anche le sostanze radioattive su cui riposano
le loro radici. "Attenzione, evitare di accendere fuochi",
gridano i cartelli sulla strada. Sotto lo sguardo a un tempo
gelido e solidale di alcuni poliziotti, attraversiamo la
barriera che delimita la "zona dei dieci chilometri", il cuore
dell'area contaminata. Chernobyl sembra una di quelle città di
retrovia che si incontrano in prossimità di una guerra: scuole
trasformate in dormitori, case sbarrate, uomini in tuta
mimetica, donne alle mense. Degli undicimila abitanti che
vivevano a Chernobyl prima della tragedia, ne sono rimasti
poche centinaia, soprattutto anziani che non ce l'hanno fatta
a lasciare la loro casa. Il resto della popolazione è
costituita da pendolari, addetti ai servizi creati dopo la
catastrofe, burocrati e manovali dell'emergenza per i quali è
stata costruita un'altra città, Slavutich, a 50 chilometri di
distanza. Vanno e vengono ogni giorno.
La centrale si raggiunge in un baleno, attraversando due
luoghi simbolici. A sinistra c'è il campo degli elicotteri con
la lapide in onore dell'equipaggio che perì per la troppa
improvvisazione prima ancora che per le conseguenze del
disastro. Nel tentativo di spegnere le fiamme che si
sprigionarono dal reattore numero Quattro fu mandato un
elicottero che avrebbe dovuto far cadere dall'alto una certa
quantità di sabbia. Se non che gli strateghi dei soccorsi
pensarono che era il caso di proteggere l'equipaggio con una
pesante lastra di cemento posta sotto la fusoliera.
L'elicottero riuscì ad alzarsi e a compiere alcune missioni ma
al ritorno, per il peso eccessivo, urtò contro un cavo
elettrico è precipitò. Tutti morti.
Sul lato destro della strada, un altro monumento ricorda il
sacrificio dei 14 vigili del fuoco (solo quattordici) che si
opposero, in sostanza a mani nude, all'urto di un'esplosione
considerata cento volte più potente della bomba sganciata su
Hiroshima. Due morirono subito. 
Gli altri nell'arco di pochi giorni. "Se oggi siete vivi -
reca la scritta - in parte lo dovete al nostro sacrificio".
Imponente come un tempio dedicato a una divinità del male,
tutto a gradoni che sembrano sfidare il cielo, grigio come
un'immensa bara di granito, ecco il "sarcofago" costruito
intorno al reattore esploso. Non potendo avvicinarsi al nucleo
ormai incontrollabile, non potendo liberare la zona dalle
macerie contaminate, si decise di rinchiudere il tutto in un
sorta di possente armatura di ferro e cemento. Furono i robot
telecomandati a fare il grosso del lavoro. Il risultato è che
il sarcofago, ultimato nel novembre del '86, e infinite volte
riparato, fa acqua da tutte le parti.
Bisognerà costruircene sopra un altro. Costo dell'operazione
oltre 700 milioni di dollari, 
appena metà dei quali raccolti, gli altri ancora da
raccogliere.
Aleksandr Usaev, un medico originario degli Urali, capo del
servizio ecologico della protezione civile, che ci accompagna
in questa visita, tiene d'occhio un piccolo contatore geiger
portatile che ha tirato fuori dalla tasca della giacca mentre
ci avvicinavamo alla centrale. A cinque chilometri di distanza
il display del contatore segnava cinquantatré micro Roentgen
l'ora e l'apparecchio emetteva un bip ritmato lento come
quello di un videogioco tarato per un principiante.
Adesso, a cinquanta metri dal "sarcofago", il contatore è una
mitraglia, novanta, cento, duecento. Entriamo negli uffici
riservati ai visitatori protetti da una lastra di vetro e
piombo (400, 500). Ascoltiamo la spiegazione di una portavoce
della centrale sul lavoro già fatto e su quello da fare (800,
900, 950).
Aleksandr spegne il contatore: "Non vi preoccupate - dice - è
un livello di radiazioni continue, non si attaccano alle
scarpe". Ma tutti quelli che lavorano qui portano registratori
individuali delle radiazioni appuntati al petto.
Sotto gli occhi spiritati di un Lenin di bronzo tecnici e
operai della centrale si affrettano all'ingresso del Terzo
blocco per l'inizio di un nuovo turno di lavoro. Hanno facce
tese. Non vediamo sorrisi in giro. Sono i forzati di
Chernobyl, costretti non solo a lavorare in quest'ambiente
contaminato, ma, oggi, persino a difendere il loro impiego.
"Che ne sarà di noi e delle nostre famiglie - si chiede
Stanislav Shetkelov - una volta spento il reattore? Si fa
presto a dire chiudiamo Chernobyl, ma come vivranno le
trentamila persone che dipendono della centrale? Anche voi in
Europa dovreste pensare e pensare prima di farvi prendere
dalle passioni". Passioni? Pripiat', la città morta dista
appena sei chilometri.
Quando all'1,24 di quel sabato 26 aprile 1986 esplose il
reattore, la cittadina che ospitava cinquanta mila persone, i
dipendenti della centrale e le loro famiglie furono investiti
in pieno dalla nube tossica. Ma la gente venne messa in
allarme solo 36 ore dopo, l'evacuazione cominciò domenica
sera.
Nel frattempo si celebrarono due matrimoni con tanto di feste
all'aperto, una maestra portò la scolaresca sul ponte per
mostrare ai bambini i vigili del fuoco al lavoro, si
ultimarono i preparativi per la festa del primo maggio
compresa la prova generale della parata. Solo quando squillò
il telefono nelle case dei 34 tecnici del turno di notte al
reattore numero Quattro si cominciò a capire le dimensioni
della tragedia. Di quegli uomini, due morirono subito e i loro
corpi non vennero mai recuperati, fra questi il tecnico che
quella notte diede il via all'esperimento che scatenò la
catastrofe. Gli altri cessarono di vivere nell'arco di un
mese. In ventiquattr'ore Pripiat' venne evacuata, come anche i
villaggi della zona. "La gente fu costretta a partire così
come si trovava, in pigiama e camicia da notte", racconta
Alksandr. Per organizzare l'esodo vennero mobilitati i soldati
di vari reparti che a loro volta sarebbero caduti vittime
delle radiazioni. Gli effetti dell'esplosione si
moltiplicarono estendendosi ai soccorritori che qui, con una
parola dal suono orribile, chiamano "liquidatori". In totale
si calcola che sia stato impiegato un esercito di 600 mila
"liquidatori" che, nel tempo, avrebbe subito 150 mila perdite.
Oggi Pripiat' è una città fantasma, l'ideale scenografia di un
horror, tutta costruita attorno a una piazza sommersa dalle
erbacce: l'albergo, il palazzo del Comitato centrale cittadino
con la falce e il martello sulla facciata, la lavanderia con
l'insegna gialla che fino a poche settimane funzionava per gli
addetti alla centrale, la scuola, le cabine telefoniche
sventrate. E, giro giro, come sguardi spenti, migliaia di
finestre aperte sul nulla.
Dicono che Pripiat' era costata all'Urss 200 milioni di
dollari.
Riprendiamo la via del ritorno non senza sollievo. La natura a
Chernobyl ha trovato il modo di sopravvivere. Dietro la
cortina invisibile della radioattività che tiene lontano gli
uomini sono comparsi i lupi, i cervi, gli orsi e ogni sorta di
uccelli rari.
Sul canale che raccoglie l'acqua per raffreddare i reattori,
un gruppo di operai getta enormi bocconi di pane a pesci
mostruosamente grossi.