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Corriere della Sera, inserto Economia, 24 giugno 2002
Richard Nelson: «Non fate dell'università un ente commerciale»
di Edoardo Segantini
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«Un conto è la collaborazione tra l’Università e l’industria, che è
un fatto molto positivo. Un altro conto è la commercializzazione
dell’Università, che invece è una tendenza negativa. Perciò mi
permetto di dare un consiglio: non copiate l’America nei suoi errori,
non trasformate l’Università in un apparato commerciale che punta a
fare soldi coi brevetti. Anche perché tra l’altro non li fa». Il
monito, rivolto con un certo humour ai ricercatori italiani, arriva
dal settantaduenne Richard R. Nelson, della Columbia University di
New York, ritenuto uno dei maggiori economisti dell’innovazione,
invitato a Milano dall’Università Bocconi e dalla Fondazione Giannino
Bassetti. Insomma, proprio mentre in Italia da più parti si invoca
una corsa dell’Università ai brevetti, come forma alternativa al
finanziamento pubblico, negli Stati Uniti, dove con il copyright ci
si finanzia da vent’anni, oggi se ne denunciano gli svantaggi. 
E si misurano più in particolare gli inconvenienti della legge
Bayh-Dole, che nel 1980 ha permesso alle università americane di
brevettare anche le invenzioni derivate da ricerche finanziate con i
fondi pubblici. In Italia si è fatto addirittura di più, dando al
singolo ricercatore la possibilità di sfruttare commercialmente la
propria invenzione, con una legge che ha fatto discutere e potrebbe
essere modificata. 
Che cosa insegna l’esperienza americana? 
«Che i brevetti universitari, lanciati negli Stati Uniti dal
Bayh-Dole Act, non sono una buona soluzione. Prima di tutto non è
certo che siano lo strumento migliore per trasferire all’industria i
risultati della ricerca accademica. Inoltre creano tensioni tra le
due parti. Infine introducono costi supplementari e sottraggono
risorse alla ricerca scientifica vera e propria. Che è la vera
missione dell’Università. Per giunta, se si esamina l’attività dei
Technology Transfer Offices (gli uffici che danno in licenza
esclusiva alle aziende i brevetti universitari, ndr) , si vede che
meno del 10% è in attivo. Dunque i milioni di dollari che dovrebbero
arrivare alle università dalla vendita delle licenze sono solo
teorici». 
Qual era la logica della legge? 
«L’idea che, essendo le invenzioni universitarie allo stato
embrionale, almeno di solito, per stimolare l’interesse dei privati a
svilupparle fosse necessario dare alle imprese la garanzia della
licenza esclusiva. Il ricavato delle licenze inoltre sarebbe stato,
per le università, uno stimolo a diffondere quelle invenzioni. E a
questo scopo le Università hanno dovuto organizzare i Technology
Transfer Offices, affrontando i relativi costi». 
E non ha funzionato? 
«In una certa misura e in un certo periodo storico sì, può anche aver
avuto un ruolo di stimolo. Ma ai fini della trasmissione delle
conoscenze si sono rivelati più efficaci altri strumenti. Per
cominciare, la diffusione degli articoli scientifici. E, soprattutto,
la mobilità dei ricercatori dall’università all’impresa, che è uno
dei punti di forza tipici del sistema americano. Che dà, a chi vuole,
la possibilità andarsene e poi tornare al campus. Non è un caso che
quasi tutti i direttori di ricerca delle aziende importanti
provengano dall’Università. Questa sì, potrebbe essere una buona cosa
da copiare».