Il rischio della Mucca pazza
e la guerra al cibo biotech 

FEDERICO RAMPINI 

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La ricostruzione del genoma umano grazie a uno sforzo in prevalenza
americano; i severi limiti alla biogenetica imposti da un’Europa
sotto lo shock della mucca pazza; il grido di dolore dei 1.500
scienziati italiani contro censure e miserie della nostra politica di
ricerca. In pochi giorni il divario tra le due rive dell’Atlantico si
è allargato ancora. Viviamo un’epoca in cui la guerra più importante
si conduce nei laboratori e nelle università; le armi strategiche
sono brevetti e tecnologie; la posta in gioco è la leadership nel
sapere e nell’innovazione che si traduce in conquista di nuovi
mercati, ricchezze, milioni di posti di lavoro qualificati. 
In questa competizione scientifica che decide i rapporti di forza
nella geoeconomia gli Stati Uniti fanno un nuovo scatto. L’Europa
osserva impotente, paralizzata dalle sue paure. L’Italia, periferia
della periferia, è ancora più indietro. La protesta degli scienziati
la mette con le spalle al muro. Quanti di loro saranno ancora lì tra
qualche anno, e quanti avranno dovuto emigrare verso i centri di
ricerca americani?
Arthur C.Clarke, scienziato oltre che scrittore di fantascienza,
sostiene che abbiamo sempre tendenza a sopravvalutare gli effetti
immediati delle scoperte tecnologiche, e a sottovalutarne gli effetti
di lungo periodo. Wall Street sembra dargli ragione: completata la
mappa del genoma umano, non c’è una corsa ad accaparrarsi azioni
delle società biotecnologiche. Le ricadute industriali, e quelle
sulla nostra salute, non si misurano sull’orizzonte di mesi. Ma tra
vent’anni la medicina sarà probabilmente irriconoscibile. Si aprono
speranze inaudite, dalla cura del cancro alla prevenzione delle
malattie genetiche.
L’avvio di una rivoluzione scientifica e tecnologica è sempre lento,
impercettibile nei suoi effetti: fu così per l’introduzione dei
personal computer alla fine degli anni Sessanta, o per il World Wide
Web di Internet nei primi anni Novanta. La partenza fu in sordina, ma
iniziò da lì una lunga corsa che avrebbe ridisegnato la società
industriale, il modo di lavorare e di consumare, la comunicazione,
l’economia globale. Con un punto d’arrivo nel bilancio finale:
sviluppo economico, ricchezza, occupazione, ma anche un «digital
divide», un divario più ampio tra il paese leader delle nuove
tecnologie e gli altri, staccati, che arrancano dietro con fatica. 
Quel divario ha un significato molto concreto per le nuove
generazioni: oggi ad un giovane americano si aprono più strade e più
prospettive future, che per un giovane italiano. Come avvenne
all’alba della società del computer, anche nella corsa della
biogenetica l’America è praticamente sola ai nastri di partenza.
L’Europa ha deciso di ritirarsi prima ancora che la gara abbia
inizio. Il pessimismo degli europei — vizio tipico di una società
demograficamente vecchia e conservatrice — tende a vedere di ogni
innovazione tecnologica solo il potenziale distruttivo e degradante.
Nessuno oggi osa ricordarlo senza provare qualche imbarazzo
retrospettivo, ma anche l’arrivo dei primi computer fu salutato da
allucinanti profezie su una società dominata dalle macchine
intelligenti (e proprio Clarke in «2001 Odissea nello spazio» ne
diede conto con l’ammutinamento del supercomputer Hal).
La società americana al contrario ha nel suo Dna — quello culturale —
la propensione a sperimentare, la sete di progresso, il bisogno di
frontiere da conquistare. Non è un caso se oggi la schiacciante
maggioranza delle tecnologie che usiamo ha origine in invenzioni
brevettate negli Stati Uniti. Spesso da scienziati europei o
asiatici.
Sull’onda dell’angoscia dei consumatori per la terribile malattia
della mucca pazza, Francia e Italia marciano unite in testa al
battaglione europeo che respinge il «cibo Frankestein»: bando agli
alimenti geneticamente modificati, creatura mostruosa
dell’imperialismo Usa. Immersi nel polverone ideologico, pochi
europei sanno la verità. Ignorano che l’unico scandalo per la vendita
negli Usa di alimenti contenenti un mais transgenico vietato porta il
nome di Aventis, multinazionale francese. Ignorano che a trent’anni
dalla sua nascita l’ingegneria genetica non ha ucciso nessuno, e ha
salvato molte vite. Ignorano i termini del dibattito che anima il
Terzo mondo: dove governi e scienziati progressisti si battono senza
tregua per ottenere sementi geneticamente modificate — più resistenti
ai parassiti, meno bisognose d’acqua — e il loro vero problema è che
le multinazionali americane proprietarie dei brevetti non le facciano
pagare troppo care.
La mucca pazza non c’entra con la biogenetica, ma con
irresponsabilità e reati delle lobby agricole e agroindustriali
europee, inefficienze e omertà delle burocrazie sanitarie. L’Europa
ha venduto ciboFrankestein in America: l’unico rischio di mucca pazza
negli Usa deriva da farine infette esportate illegalmente
dall’Inghilterra al Texas. Ma il consumatore americano per ora non ha
paura.
Si fida dei controlli che sta facendo la «sua» Food and Drugs
Administration, l’authority più rispettata. Il presidente della
Commissione europea Romano Prodi confida: «Mi piacerebbe averla in
Europa una Food and Drug Administration, con quel capitale di
credibilità». Ci sarà una ragione se gli americani si fidano, mentre
gli europei diffidano anche della propria ombra.
Dov’è la politica, quando dovrebbe stabilire le regole e i valori,
costruire la credibilità delle istituzioni in cui i cittadini possano
riconoscersi? Il formidabile scatto americano alla conquista delle
biotecnologie è parte di un fenomeno ben più vasto. Il commissario di
Bruxelles alla ricerca, Philippe Busquin, rivela che negli ultimi
dieci anni gli investimenti europei nella ricerca scientifica e
tecnologica sono scesi dal 2 all’1,8% del Prodotto interno lordo
mentre quelli americani salivano dal 2,5 al 2,8%. Un punto di Pil è
una differenza enorme: 120.000 miliardi di lire all’anno. 
La grande industria americana finanzia con donazioni generose le
migliori università da Harvard a Stanford; il padronato europeo
abdica alle sue responsabilità nella ricerca. Un’analisi attenta del
modello americano porta lontano dagli stereotipi che lo dipingono
come un capitalismo selvaggio.
La ricostruzione del genoma è una magnifica storia di emulazione e
gara fra pubblico e privato, tra lo scienziato imprenditore Craig
Venter della Celera Genomics, e il network di ricercatori e
università statali senza le quali la scoperta non sarebbe di dominio
universale e gratuito. In tutte le grandi ondate di innovazione
tecnologica venute dall’America c’è sempre all’origine un ruolo dello
Stato: perfino Internet è nato da un progetto congiunto
NasaPentagono. E i rari casi in cui l’Europa tiene testa all’America
— dall’Airbus alla telefonìa cellulare Gsm — non esisterebbero senza
uno sforzo di pianificazione pubblica e di cooperazione fra governi.
E’ questa la semplice verità che hanno gridato i 1.500 scienziati
italiani al governo: c’è una responsabilità grave della politica, se
il paese si chiama fuori dalla grande competizione tecnoscientifica
internazionale. I talenti italiani non meritano questa resa. Sono
apprezzati da decenni in tutto il mondo. La storia di Enrico Fermi in
America si è ripetuta con scienziati imprenditori come Viterbi,
Faggin, Crea: pionieri della New Economy che nelle telecomunicazioni,
nell’informatica e nelle biotecnologie hanno segnato tappe storiche
del miracolo californiano. Come loro, in questo istante centinaia di
giovani ricercatori, docenti e ingegneri italiani arricchiscono delle
loro competenze la Silicon Valley, le sue imprese e le sue
università.
E’ un pezzo dell’Italia migliore, costretto a emigrare perché
l’Italia non sa che farsene.