LA REPUBBLICA, 10 APRILE 2000, P. 1
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Chi sono i padroni
dei geni dell'uomo
LE IDEE
di STEFANO RODOTÀ

L'ANNUNCIO del completamento della mappatura del genoma
umano, con la sua straordinaria apertura sul futuro,
ripropone pure antiche certezze e dilemmi irrisolti. Di
fronte a noi, di nuovo, è la fede in un progresso
sempre benefico, che libera l'umanità da ogni suo male
(non diverso è lo spirito con il quale si guarda alle
tecnologie dell'informazione e alla new economy che
l'accompagna). Ma torna attuale anche una profezia di
Tocqueville: "Il gran campo di battaglia sarà la
proprietà" (negli stessi anni, verso la metà
dell'Ottocento, Karl Marx diceva cose non molto
diverse).
Una volta conosciuta la notizia, infatti, non ci si è
limitati a valutarne la grandissima importanza
scientifica. Dando subito espressione a preoccupazioni
da tempo diffuse, uno dei maggiori studiosi americani
di bioetica, Arthur Kaplan, ha espresso il timore che
"le informazioni genetiche vengano impiegate contro i
singoli individui, dai datori di lavoro per non
assumerli, dagli assicuratori per non assicurarli, e
così via"; e ha chiesto una legge sulla privacy
genetica.
Craig Venter, il fondatore di Celera Genomics, la
società privata che ha effettuato la mappatura, ha
dichiarato che metterà a disposizione di tutti, sia
pure con tariffe differenziate, i risultati della sua
ricerca, aggiungendo però che si riserva di chiedere il
brevetto sui geni che verranno via via isolati.
LA SCIENZA oggi è al crocevia tra purezza della
ricerca, valutazione sociale delle sue conseguenze,
pressione crescente degli interessi economici. Proprio
gli enormi investimenti necessari nei settori di punta
inducono a spostare immediatamente l'attenzione sul
modo in cui l'innovazione scientifica e tecnologica può
produrre profitti. Questo vuol dire soprattutto corsa
al brevetto, cioè al diritto di utilizzare in via
esclusiva i risultati di una ricerca.
Su questo punto, e non da oggi, è aperta la battaglia
sulla proprietà. E qui s'intrecciano interrogativi
diversi - etici, sociali, giuridici. Si può ammettere
la brevettazione del vivente? Diventeremo schiavi dei
"padroni dei geni"? La tecnica del brevetto, prevista
per le vere e proprie "invenzioni", può essere
utilizzata quando si scopre soltanto quello che già
esiste in natura?
Si proclama da tempo che il genoma è "patrimonio comune
dell' umanità", e questa formula si ritrova
nell'articolo 1 della Dichiarazione universale sul
genoma umano e i diritti dell'uomo dell'Unesco (sia
pure sottolineando la sua portata "simbolica"). In
questo modo non si istituisce soltanto un rapporto
diretto con il rispetto della "dignità e diversità"
d'ogni essere umano, condannando le politiche
discriminatorie o di eugenetica collettiva. Si vuole
anche impedire che il genoma possa divenire oggetto di
appropriazioni esclusive. Non a caso si parla di
patrimonio comune dell'umanità, che è espressione
entrata nel linguaggio giuridico a proposito dello
spazio, dell'Antartide, del fondo del mare, luoghi che
si volevano sottrarre alla possibilità di occupazione
da parte del primo arrivato, lasciandoli aperti alla
ricerca e all'utilizzazione da parte di tutti gli
Stati. Si può ammettere che l'immenso territorio del
genoma umano, con i suoi tre miliardi di "lettere
chimiche" e i suoi centomila geni, venga in tutto o in
parte privatizzato?
Nella Dichiarazione universale sul genoma umano si dice
che "il genoma umano nel suo stato naturale non può
costituire oggetto di profitto economico" (articolo 4)
e che dev'essere promosso "il libero scambio delle
conoscenze e delle informazioni scientifiche" (articolo
19). Questi principi sacrosanti, tuttavia, rischiano
d'essere travolti da una realtà nella quale la stessa
conoscenza dei dati naturali richiede grandi
investimenti, ai quali deve seguire una remunerazione.
Ma può questa ragione economica travolgere la
consolidata distinzione tra scoperte e invenzioni,
ostacolare la ricerca d'una intera comunità
scientifica, far diventare il genoma una merce tra le
altre?
Cercando una risposta, Clinton e Blair pochissimo tempo
fa avevano dichiarato appunto che i risultati della
ricerca sul genoma dovevano essere liberamente
disponibili per tutti. A questo li aveva spinti non
tanto l'amore per un principio, quanto piuttosto la
preoccupazione di tenere aperta la stessa possibilità
della competizione tra imprese (e, secondo alcuni,
anche la volontà di coprire il ritardo della ricerca
pubblica). Ora Clinton, influenzato dal successo di
Venter e dalla caduta dei titoli biotecnologici seguita
a quelle dichiarazioni, ha fatto una parziale marcia
indietro. Ma rimane indispensabile una politica che
attribuisca un ruolo rilevante alla ricerca pubblica,
controlli i costi d'accesso alle informazioni raccolte,
limiti severamente la brevettabilità. Sarà una
battaglia durissima, perché enormi sono gli interessi
proprietari.
Le politiche pubbliche, e quindi l'attenzione dei
Parlamenti, sono indispensabili anche per impedire che
ai grandi benefici della ricerca genetica si
accompagnino costi pesanti per i diritti fondamentali
delle persone. Un solo esempio. All'inizio di febbraio,
Clinton ha emanato un decreto che vieta la
discriminazione dei dipendenti federali in base alle
informazioni genetiche, lanciando così un ammonimento
anche al settore privato e sollecitando il Congresso ad
approvare una legge sulla privacy genetica.
In Europa, in Italia in particolare, le discriminazioni
genetiche sono sicuramente illecite. Ma questo non
consente una facile tranquillità, perché la rivoluzione
genetica avrà tale portata che renderà necessaria una
costante attenzione culturale, sociale, istituzionale.
Già oggi è possibile intravedere straordinari
avanzamenti, ma anche contraddizioni e conflitti.
La conoscenza genetica promette una cura della persona,
non soltanto del malato, sempre più tagliata sulle
specifiche caratteristiche ed esigenze di ciascuno. Ma
già oggi negli Stati Uniti si parla di "genetizzazione
delle cure mediche" anche per mettere in guardia contro
eventuali abusi del ricorso ai test genetici, per
sottolineare il rischio che vengano utilizzati
parametri che possono condurre alla creazione di nuovi,
insidiosi criteri di "normalità".
La conoscenza genetica può indurre anche un pericoloso
riduzionismo genetico, di cui già si scorge più di un
segno nelle nostre culture. Nel 1995, due studiose
americane, Dorothy Nelkin e Susan Lindee, hanno
pubblicato un libro dal titolo significativo, "La
mistica del Dna. Il gene come icona culturale", dando
conto dei risultati di una ricerca sulla penetrazione
negli Stati Uniti di una serie di stereotipi culturali
derivanti dalla genetica. Di questi cominciamo ad
avvertire la presenza anche in Italia, con l'accento
posto sempre più frequentemente sulle caratteristiche
genetiche delle persone, sacrificando e respingendo
sullo sfondo la ricchezza dei rapporti nati nel corso
delle relazioni sociali. Basta pensare alla sottile
ossessione, che già compare in testi legislativi, per
la discendenza biologica, che rivaluta brutalmente i
legami di sangue a scapito della costruzione sociale
della maternità e della paternità. E ancor più
pericoloso può risultare il ricorso a categorie come
"predizione", "predisposizione", "persona a rischio",
quando vengono trasportate dalla genetica al mondo
delle relazioni sociali ed economiche. Una condizione
ipotetica o potenziale, infatti, rischia d'essere
valutata come una condizione effettiva, che incide
sulla condizione sociale e giuridica di una persona.
Emerge con nettezza il potere sociale dell'informazione
genetica. E di tutto questo è indispensabile essere
consapevoli non per ridurre la portata della
rivoluzione genetica, ma proprio per coglierne
pienamente gli aspetti positivi. La liberazione, che
essa promette, non dev'essere accompagnata da nuovi e
più stringenti vincoli.