Intervista a Richard R. Nelson
di Margherita Fronte [ * ]


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Professor Nelson, come ha sviluppato il concetto di economia evolutiva?

L'Innovazione in termini evoluzionistici

La conoscenza umana si modifica gradualmente nel tempo, e non è affatto detto che i cambiamenti siano diretti da un’intenzionalità precisa. Di fatto, il concetto di economia evolutiva è molto naturale. In fondo, molta parte dell’economia classica può essere interpretata come una disciplina che considerava il progresso in termini evoluzionistici, ovvero guidato da processi che possono anche essere pianificati nei dettagli, ma i cui risultati sono selezionati da meccanismi economici, politici e sociali, che poi ne determinano gli sviluppi e l’impatto sulla società. Ma la disciplina economica moderna ha dimenticato tutto questo. Ritengo invece che il modo più ovvio per descrivere i processi di innovazione sia farlo in termini evoluzionistici.

La Tecnologia, motore fondamentale della crescita economica

i1.jpg (21650 byte)La tecnologia ha un ruolo fondamentale come motore della crescita economica, e questo era già chiaro al tempo di Adam Smith e della prima rivoluzione industriale. Man mano che si introducevano innovazioni tecnologiche, infatti, nascevano nuove organizzazioni, istituzioni e nuove forme di potere, che diffondendo le tecnologie hanno influenzato la società e lo sviluppo economico sul lungo periodo.

Le innovazioni tecnologiche nascono dalla scienza, o piuttosto sono le possibili applicazioni pratiche di una scoperta a determinare lo sviluppo dei diversi settori della ricerca scientifica?

Il rapporto tra Tecnologia e Scienza

Credo che, più di quanto comunemente si sia disposti ad ammettere, siano le possibili applicazioni - e quindi la tecnologia - a guidare la scienza, anche se comunque il processo va nelle due direzioni. A determinare lo sviluppo di un ramo della scienza possono essere i risvolti pratici, ma anche la ricerca di spiegazioni rispetto a come funziona un’innovazione che è già stata introdotta. La storia della medicina è costellata di esempi di questo tipo. Recentemente ho concentrato i miei studi sulla medicina, e sono rimasto molto colpito da come siano poche le circostanze in cui un progresso importante nella scienza di base abbia portato all’introduzione di pratiche mediche nuove e fondamentali. Piuttosto, è avvenuto il contrario. Pensiamo soltanto a come si sono sviluppati i vaccini. L’invenzione è stata frutto di un’intuizione fondamentale, ma soltanto in seguito l’immunologia ha spiegato nei dettagli perché la vaccinazione protegge dalla malattia. Fenomeni analoghi si sono verificati nell’elettronica. In questo settore la situazione è più variegata, perché in molti casi, accanto all’intuizione dell’inventore, le innovazioni sono state precedute da conoscenze della fisica. Tuttavia alcuni settori della fisica si sono sviluppati proprio per giungere a una comprensione più completa di come funzionavano oggetti che erano già stati inventati, e che spesso avevano già determinato cambiamenti importanti nell’economia e nella società, come per esempio i transistor.

Se è la tecnologia che guida la scienza, è la stessa tecnologia a determinare quali rami della ricerca scientifica vengono finanziati?

Il rapporto tra Tecnologia, Scienza e... Finanziamenti

i2.jpg (18106 byte)Sì, e questo è particolarmente vero per alcuni settori. Si pensi per esempio alle biotecnologie. Lo sviluppo del biotech ha avuto un forte impatto, soprattutto negli Stati Uniti, sulla ricerca scientifica universitaria. Ci si è anche lasciati andare a facili entusiasmi: di fatto se analizziamo le imprese nate negli ultimi 15 anni, sono davvero poche quelle che operano nel settore biotech e che hanno ottenuto un valore economico significativo. Qualcosa di analogo è successo nell’informatica, con la grande bolla della new economy. Il problema è che negli Stati Uniti, soprattutto per il settore farmaceutico e biotecnologico, il legame economico fra ricerca universitaria e industrie è diventato troppo stretto. Mentre fino agli anni cinquanta le università avevano una politica forte tesa a vietare la brevettabilità, questa tendenza si è invertita. In seguito anche i finanziamenti pubblici alla ricerca sono stati condizionati dai brevetti, e le università hanno pensato di poter ottenere più fondi vendendo licenze alle industrie. Il Bayh-Dole Act del 1980 ha permesso alle università di mantenere i brevetti e di formare al loro interno degli uffici per il trasferimento tecnologico, che hanno il compito di rilasciare le licenze alle industrie. In realtà, anche se è difficile fare calcoli precisi, per molte università non c’è stato il ritorno economico sperato. Puntare troppo sui brevetti impedisce che si pianifichino progetti di ricerca di ampio respiro e strutturati in modo lungimirante. Inoltre accade sempre più spesso che le industrie chiedano all’università licenze esclusive, e questo genera contrasti. Anche se in alcuni casi i diritti di esclusiva possono essere utili, ritengo che la politica universitaria dovrebbe essere rivolta a permettere l’uso più ampio possibile dell’idea.

In quali casi i brevetti possono essere utili?

Il brevetto: quando e per che cosa

Dovrebbero essere brevettati soltanto i risultati che sono molto vicini all’applicazione pratica, in termini di quantità di ricerche ulteriori necessarie per giungervi. Infatti, se in questi casi la scoperta non fosse data in esclusiva, nessuna industria investirebbe per sviluppare l’innovazione tecnologica che può derivarne, con il rischio che altre concorrenti facciano lo stesso o arrivino prima. Non dovrebbero invece essere brevettati i risultati che possono essere usati in un ampio spettro di altri studi, come per esempio la sequenza del genoma umano. E neppure andrebbero brevettati i risultati che siano essi stessi uno strumenti di ricerca: questi, al contrario, dovrebbero essere diffusi il più possibile.

Che cosa possono imparare gli europei dall’esperienza statunitense?

Ricerca scientifica e conflitto di interessi

i3.jpg (19069 byte)In Europa si guarda con un po’ troppo entusiasmo a quello che è successo negli Stati Uniti. L’importanza dei brevetti per lo sviluppo della ricerca scientifica deve essere ridimensionata. Il rischio è che le università diventino parte del business. I rapporti economici fra industria e ricerca scientifica minacciano la libertà di azione di quest’ultima, compromettono la sua autonomia e il suo ruolo fondamentale di istituto indipendente e obiettivo. Questo è particolarmente vero per la ricerca sui farmaci. I ricercatori finanziati dalle industrie si trovano in una situazione di conflitto di interessi, che impedisce il giudizio critico.

Recentemente gli editori delle principali riviste di medicina si sono accordati affinché gli autori degli articoli sottoposti dichiarino se si trovano in una situazione di conflitto di interessi. Pensa che questo possa essere utile?

La soluzione al conflitto di interessi non può venire da un'unica iniziativa

Penso che nella situazione attuale ogni iniziativa possa essere utile. Non credo però che la soluzione al problema dei conflitti di interesse possa derivare da un’iniziativa unica, perché la questione è complessa e si è sviluppata nel corso di anni. Comunque ritengo che il fatto che le riviste che pubblicano articoli di scienziati provenienti dal mondo accademico e dall’industria non abbiano finora chiesto agli autori di dichiarare i loro conflitti di interesse possa aver contribuito al problema. Certamente vale la pena che ora si prendano l’onere di farlo. In ogni caso i ricercatori potrebbero mentire. E questo è il motivo per cui la soluzione non può venire da un’iniziativa unica.

(17 giugno 2002, pubblicata il 25 giugno 2002)

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[*] Margherita Fronte (right-sfondochiaro.gif (838 byte)Pagina personale) collabora con la Fondazione Giannino Bassetti
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