Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2001

"Sulla Tecnica solo cattive idee"

di Umberto Bottazzini

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Come è stata percepita e interpretata la tecnica dagli intellettuali
del Novecento? Ecco la domanda alla quale cerca di rispondere il
libro di Michela Nacci. La questione è tutt’altro che peregrina.
Anzi, ha ragione Gianni Vattimo ad affermare nella prefazione di
questo libro che “il problema della tecnica non è un problema tra gli
altri, sia pure importante, delle riflessioni del Novecento, ma è il
tema dominante, per lo più esplicito ma presente anche là dove non
appare, di tutta la riflessione e della cultura del secolo”. Salvo
rare e occasionali eccezioni appartenenti al mondo della scienza, gli
intellettuali cui Nacci pensa e dà voce sono rappresentanti, grandi e
piccoli, della cultura umanistica. In primo luogo scrittori e
filosofi, da Spengler ad Heidegger e Hannah Arendt, da Mumford a
Wells e Orwell, a Horkheimer e Adorno, a Lyotard e lo stesso Vattimo.
Sono insomma gli esponenti di quella cultura “che più di ogni altra
si è sentita minacciata dalla tecnica”. Facendo propria la tesi di
Heidegger che “l’essenza della tecnica non sia qualcosa di tecnico”,
filosofi e sociologi vi hanno tutti cercato un’essenza.

Da questo punto di vista, le diverse tecniche che si sono succedute
nella storia si sono così ridotte a essere la tecnica. Le differenze
sono state banalizzate in categorie generalissime come la tecnica
antica e la tecnica moderna come se, in particolare, si potesse
parlare al singolare di tutte le tecniche moderne. Queste ricerche
sull’essenza della tecnica, pur con diverse sfumature, hanno portato
tutte alle stesse conclusioni. Che la tecnica “è coeva del
costituirsi del mondo o natura in oggetto e dell’uomo in soggetto”.
Che la tecnica nasce con la modernità, e la sua essenza stessa è
sinonimo di modernità. E la modernità è descritta coi caratteri della
precisione, della matematizzazione, dell’oggettività, del dominio,
dello sfruttamento, del progresso, della democrazia e della sua
antitesi. Come la modernità, la tecnica celebra i fasti del progresso
e delle conquiste dell’uomo sulla natura, induce a un consenso
dettato dai miglioramenti delle condizioni di vita. Alla critica
della modernità si sovrappone la critica della tecnica. Così la
tecnica è stata vista di volta in volta come nichilismo, come
contrapposta al pensiero. È stata considerata come complice o
responsabile di società totalitarie e oppressive, addirittura della
fine della civiltà occidentale.

Emblematico è il caso della radio, che dagli anni Venti al secondo
dopoguerra, fino al trionfo della televisione, è stata per così dire
l’incarnazione della tecnica presso intellettuali e pubblico. “Anche
i nazisti sapevano che la radio dava forma alla loro causa come la
stampa alla Riforma”, hanno scritto Horkheimer e Adorno in Dialettica
dell’Illuminismo, un testo che è ormai un classico della filosofia
del Novecento. Nella Germania nazista “la radio diventa la bocca
universale del Führer”. Nelle società capitalistiche “il diktat della
produzione” che la radio veicola “mascherato dalla parvenza di una
possibilità di scelta, la réclame specifica, può trapassare
nell’aperto comando del capo”. Per Horkheimer e Adorno la radio
esemplifica la tesi della sostanziale identità tra regimi autoritari
come il nazismo e società capitalistiche, dove il dominio del
profitto non è che un travestimento della stessa illibertà che
caratterizza i primi, dove non c’è libertà di scelta perché non ci
sono differenze in quello che viene offerto. Nell’opera di Horkheimer
e Adorno, osserva Nacci, la radio si carica di valori e (pre)giudizi
che anticipano solo di pochi anni giudizi analoghi enunciati (da
Popper, per esempio) sulla televisione, mentre alla sua perniciosa
influenza viene curiosamente contrapposta la radio, quale modalità di
comunicazione non totalizzante. Se in generale gli intellettuali
hanno giudicato la tecnica in maniera negativa, non sono mancate,
d’altra parte, valutazioni positive e quasi entusiaste.

La tesi di Nacci è che “salvo poche eccezioni, la filosofia di questo
secolo ha interpretato la tecnica in modo distorto, deformato: ne ha
fatto il demiurgo onnipotente che può tutto in ogni situazione”. Si
può essere d’accordo con Michela Nacci quando sostiene che gli
intellettuali del Novecento “non hanno capito la tecnica”. E che
sopra di essa hanno creato una quantità di equivoci e
fraintendimenti. Gli argomenti che porta in questo volume sono
convincenti, al punto da spingere Vattimo a “cercarne una
conciliazione almeno con gli aspetti meno tecnofobici del pensiero
heideggeriano”. La via indicata da Vattimo è di pensare che “se c’è
un’essenza della tecnica, essa consiste proprio nel disseminarsi in
molteplici tecniche irriducibili a unità”.

Le domande poste da Nacci si traducono in nuove domande. “Per pensare
la tecnica in modo "adeguato"  si chiede Vattimo  abbiamo bisogno
solo di liberarci del mito di una sua essenza unitaria, o anche di
una prospettiva che ne colga la portata complessiva in quanto fonte
di trasformazioni epocali?”. Secondo Vattimo, cui “sta a cuore”
salvare la tesi di Heidegger, si possono trovare in alcune pagine del
filosofo tedesco “elementi non trascurabili” per cominciare a dare
una risposta. Per chi non si limita a “sospettare di ogni ontologia
della tecnica”, come è solo tentata di fare Michela Nacci, ma crede
che quella non sia la strada da percorrere, si tratta di cambiare
radicalmente il punto di vista, di cominciare a guardare alla
tecnica, o meglio, alle tecniche, dal punto di vista degli uomini di
scienza. Abbandonando l’idea tradizionale e semplificatrice che la
tecnica sia subordinata alla scienza, che sia la traduzione in
pratica di scoperte e teorie scientifiche, e cominciando a indagare
le reciproche interazioni tra scienza e tecnologia. Per esempio, di
fronte a una trasformazione davvero epocale come quella prodotta
dalle moderne tecnologie informatiche, come sono cambiate le forme
del conoscere? Che cosa hanno detto intellettuali come von Neumann e
Wiener, per citare due tra i padri dei moderni computer? Cosa hanno
da dire intellettuali di formazione scientifica? “Per essere
all’altezza della tecnica complessa nella quale viviamo senza saperlo
conclude Nacci  sarebbe indispensabile formare un sapere nel quale la
competenza tecnologica non sia separata da altri saperi, come di
fatto continua ad accadere”. Non si può non essere d’accordo. Si
tratta di passare dal condizionale all’indicativo.

Michela Nacci, “Pensare la tecnica. Un secolo di
incomprensioni”,Laterza, Roma-Bari2000,pagg. 344, L. 48.000.