Domenica 29 Ottobre 2000 (inserto domenicale)

La diffidenza verso i cibi venuti dal Nuovo Mondo risale ai tempi di
Colombo: ma i vantaggi furono più forti della paura

LA PATATA DI MONTEZUMA

di Giorgio Cosmacini

«Profondamente convinto che sarà per te una gioia sapere quanto
successo abbia avuto la spedizione da me intrapresa, ho deciso di
farti recapitare queste note». Così scriveva da Lisbona, il 14 marzo
1493, al nobilissimo tesoriere della monarchia di Spagna, retta dagli
invincibili sovrani cattolici Ferdinando e Isabella, Cristoforo
Colombo, ammiraglio della flotta del gran mare Oceano, fresco reduce
dalle Indie occidentali.

«Gli abitanti di queste terre, che io ho visto e studiato, sono
tutti, uomini e donne, sempre nudi come quando sono venuti al mondo»,
prosegue la missiva. «Manca il ferro a tutte queste genti, che non
conoscono nemmeno le armi, né sono capaci di usarle». In un
caleidoscopio di profumi, colori, sapori tropicali, «tutte queste
isole sono di una bellezza indicibile», scriveva ancora lo scopritore
del Nuovo Mondo. «Si trovano lì meravigliosi boschi di pini, vasti
pascoli e prati, gli uccelli più diversi, vari tipi di miele».

Quegli aborigeni avevano l’oro e l’argento; ma il ferro mancante li
rendeva privi di mentalità bellica, "imbelli", indifesi. Però
indifesi lo erano anche perché sprovvisti di anticorpi nei confronti
degli antigeni morbosi provenienti dal Vecchio Mondo. L’arrivo degli
europei provocò uno squasso immunitario, quello che viene definito lo
«shock biologico della conquista»: migliaia e migliaia di indigeni
furono vittime di una strage provocata dallo sconvolgimento della
loro immunità naturale da parte di malattie a loro sconosciute, quali
il morbillo, l’influenza, la tubercolosi, il vaiolo.

Il vaiolo, esploso nelle Antille nel 1518, risparmiò soltanto poche
centinaia di indigeni isolani. Poi raggiunse il Messico e il
Guatemala, proseguendo successivamente verso sud e raggiungendo il
Perù nel 1525. Qui destabilizzò l’impero degli Incas, dopo aver
destabilizzato in Messico l’impero degli Aztechi; come aveva favorito
al nord l’impresa conquistatrice di Hernán Cortés, così favorì al sud
l’impresa conquistatrice di Francisco Pizarro.

Il risultato a distanza del ripetersi di una epidemia, e del
succedersi di epidemie diverse, fu lo spopolamento del continente
amerindio. «L’indiano muore così facilmente», avrebbe scritto un
misericordioso missionario, «che basta la vista o l’odore di uno
spagnolo per fargli rendere l’anima a Dio». Allo svuotamento
demografico dell’America centro-meridionale avrebbero poi sopperito i
coloni travasandovi milioni di schiavi neri, più resistenti e quindi
più disposti a sopravvivere, a moltiplicarsi, a fornire manodopera e
forza-lavoro. Sarà così che in America si costituirà una seconda
Africa.

È noto che le popolazioni amerindie ricambiarono a modo loro i danni
biologico-sanitari inferti dai conquistadores. Oggi, all’idea
tradizionale di «scoperta a senso unico dell’America» si è
sostituito il concetto di mutuo descubrimiento o «scoperta
reciproca»: un interscambio di malattie e salute tra Vecchio e Nuovo
Mondo.

Il bilancio biologico di dare e avere tra Europa e America appare,
nel Cinquecento e nei secoli successivi, fortemente squilibrato a
vantaggio delle popolazioni europee. Queste, esportatrici nel Nuovo
Mondo delle malattie ed epidemie anzidette, importarono l’endemia
sifilitica e la diarrea dei viaggiatori, dovuta a un’associazione di
protozoi e batteri enterotossici e detta, con enfasi, «vendetta di
Montezuma».

Lo sbilancio fu ancora più grande. Un recente studio pubblicato sul
Journal of Bacteriology e compiuto da DouglasE. Berg, professore di
microbiologia molecolare e genetica presso l’Università George
Washington di St.Louis, ha dimostrato che gli armigeri di Pizarro,
fondatore della Nueva Grenada (Perù) veicolarono oltreoceano anche
l’Helicobacter pylori, il batterio di cui è oggi portatrice più della
metà della popolazione mondiale e che in molti individui si virulenta
determinando l’ulcera e finanche il cancro dello stomaco. Si è
infatti scoperto che i ceppi batterici rilevati in Perù sono diversi
da quelli asiatici (smentendo la loro provenienza dall’Asia, in
tempi remoti, attraverso lo stretto di Bering) e che sono invece
assai simili a quelli rilevati in Spagna, nei discendenti dei
cinquecenteschi conquistadores.

Il professor Berg ha ipotizzato che il batterio infettò gli esseri
umani quando l’agricoltura portò gli uomini a più stretto contatto
con gli animali. Sappiamo infatti che i contatti e i contagi furono
favoriti dalla promiscuità zoo-antropologica, oltreché dalla densità
demografica in rapporto alle migliorate condizioni alimentari,
consecutive alle varie, proficue trasformazioni agricole. Il che ci
porta ad affermare che lo sbilancio tra Europa e America aumenta
ulteriormente se dal piano immunobiologico si passa a quello
bioalimentare. Sui "vasti prati" descritti da Colombo — in Messico o
in Guatemala, in Bolivia o in Perù — crescevano patate, mais,
fagioli, pomodori. Con un periodo di latenza variabile, mono o
plurisecolare, questo ben di Dio conquistò le mense ricche e povere
d’Europa, artefice di una rivoluzione alimentare da cui dipese lo
stato di benessere, o di relativo minor malessere, fruito da molti
europei.

La patata, superata la barriera ideologica che ne faceva un prodotto
infernale o diabolico perché fruttificava sottoterra, vinse la fame
di uomini affetti da cronico "mal della miseria", cioè da penuria di
cibo. Ma, diversificati per dimensioni e forma, modificabili anche in
funzione dell’ambiente di coltura, di quali adattamenti ebbero
bisogno i preziosi tuberi per essere coltivati con una resa
alimentare tripla rispetto a quella del grano, in terreni che
andavano dal livello del mare fino a oltre duemila metri
d’altitudine? E il mais primitivo o selvatico, oltreché dalla
mutagenesi spontanea, da quali mutazioni indotte ad arte fu
modificato per fornire una resa alimentare non meno vantaggiosa, in
terreni che erano troppo umidi per la coltura del grano e troppo
asciutti per la coltura del riso?

Innesti, incroci e reincroci, ibridazioni, selezioni, manipolazioni
furono, da sempre, parte integrante e importante del lavoro contadino
e agricolo.

È un lavoro che, nel caso della patata (vulnerabile ancorché nei suoi
fiori la visita degli insetti sia rara), fu penalizzato dalla
carestia che nel 1845-47 ridusse la popolazione irlandese da 8 a 5
milioni di abitanti; e che nel caso del mais, che fra gli indios
apparteneva a una dieta integrata da fagioli, diede luogo in alcune
aree d’Europa (tra cui la fascia padana e pedemontana d’Italia), a
causa di ben note condizioni economico-sociali, a un monofagismo
maidico scompensato, cioè a quella dieta fatta di sola polenta da cui
esplose la «malattia delle tre D» (dermatosi, diarrea, demenza)
altrimenti detta «pellagra».

Se il mais domestico necessitò, per affermarsi, di un progressivo
aumento di dimensioni, di una diversificazione e specializzazione
qualitativa, di un adattamento alle diverse condizioni ambientali e
colturali, il pomodoro, superata la diffidenza pregiudiziale che nel
Cinquecento lo faceva considerare "insano" (malsano) e superata la
moda che anche successivamente lo relegava nel ruolo di pianta
ornamentale, con frutti piccoli come bacche e aciduli al gusto, entrò
a vele spiegate nella dieta mediterranea degli italiani solo dopo la
sua mutazione in "pomo d’oro" polposo e gustoso, che fece di esso un
ottimo alimento e condimento.

Una mutazione transgenica? Dall’America vennero anche, nel bene e nel
male, il cacao, il tabacco, la coca. Chi rinuncerebbe oggi a una
tazza o tavoletta di theobroma, «il cibo degli dèi»? Solo un redivivo
bastian contrario come l’accademico del Cimento Francesco Redi
(1626-1698) potrebbe come lui motteggiare: «Non fia mai che il
cioccolatte/ m’adoprassi ovvero il tè/ medicine cosiffatte/ non
saranno mai per me». Quanto alle droghe, ha scritto Fernand Braudel
(Capitalismo e civiltà materiale, Einaudi, Torino 1977, pagg. 194):
«Ogni civiltà ha bisogno di una serie di stimolanti, di droghe; nel
secolo XVI il primo alcool; poi il the, il caffè, senza contare il
tabacco». Conclude Braudel: «A noi sembra che con il crescere, o
almeno il perdurare di gravissime difficoltà alimentari, l’umanità
abbia avuto bisogno di compensi,secondo una costante regola di vita».

Tra questi compensi, al posto delle droghe odierne, prendiamo
dall’America i cibi transgenici, ove essi non siano una «vendetta di
Montezuma» a scoppio ritardato, ma siano vantaggiosi come, in base al
criterio di utilità, lo sono il pomodoro, la patata, il mais.

Dai frutti dei campi americani i nostri avi del Cinque-Seicento non
percepirono alcuna ricaduta vantaggiosa a breve termine; nei
confronti della patata avanzarono addirittura riserve d’ordine
morale. Oggi, come ci ha informato sul Sole-24 Ore di domenica 8
ottobre Gilberto Corbellini riportando i risultati di un recente
sondaggio, i cittadini europei non sono disposti ad accettare i
rischi delle nuove biotecnologie quando non intravvedano alcun
beneficio immediato oppure avvertano l’esistenza di problematiche
morali. Però, stando ai riscontri del medesimo sondaggio, gli stessi
cittadini europei non sarebbero altrettanto diffidenti verso le
coltivazioni transgeniche. Ebbene, i nostri progenitori, dopo aver
esitato e diffidato per uno o due secoli, adottarono le nuove
coltivazioni un po’ per libera scelta e un po’ per esigenza coatta.
Se non avessero sperimentato e praticato le nuove colture,
modificandole a loro e a nostro vantaggio, probabilmente avrebbero
conosciuto bisogni ancora più cruciali, mancanze ancora più radicali,
sofferenze ancora più feroci. C’è chi sostiene che senza di esse il
genere umano si sarebbe estinto per fame.

Le esitazioni furono certamente eccessive e le diffidenze infondate.
Però con le nuove colture si diffusero parassitosi e batteriosi, cioè
i funghi, le muffe, i germi e i virus ammorbanti molte fra le piante
coltivate; arrivarono la scabbia e la cancrena secca della patata;
sopraggiunse la tignola, che colpì non solo la patata, ma anche il
grano, l’olivo, la vite, gli agrumi. Per evitare tutti questi rischi
possibili, i nostri progenitori avrebbero dovuto rinunciare a quei
benefici probabili?

I cibi geneticamente modificati, scrivono Luca Carra e Fabio Terragni
(Il futuro del cibo, Garzanti 1999; imminente la seconda edizione
aggiornata), promettono di sfamare il mondo, di ripulire
l’agricoltura da erbicidi e pesticidi, di fornire alimenti più sani.
Ma come conciliare il criterio di utilità con il principio cautelare
o precauzionale ("Carta della Terra", principio 15) prescrivente che
«la mancanza di piena certezza scientifica non rappresenta un motivo
per rinviare misure di prevenzione»?

Anche se la certezza scientifica non è piena, «la questione della
sicurezza d’uso degli alimenti derivati da piante transgeniche non è
insormontabile», certifica Francesco Clementi dal Dipartimento di
farmacologia dell’UniversitàdiMilano (Non tutto il transgenico viene
per nuocere, "Tempo Medico" 18 ottobre 2000) facendo affidamento
sull’efficacia dimostrata dai controlli messi in atto dalle agenzie
nazionali e sovranazionali per una corretta valutazione del rapporto
tra rischi e benefici.

Ogni controversia su questi sarebbe superata di slancio se gli
effetti sociobiologici indotti dai nuovi cibi si
rivelasserocomparabilia quelli delle vecchie colture amerindie
trapiantate in Europa. Il criterio di utilità include più livelli di
beneficialità: economica, ecologica, sanitaria. Esso si fonda,
ovviamente, non sull’utile di chi produce quei cibi, ma sull’utile di
chi li consuma.