L'UNITA', 3 dicembre 1999
PIETRO GRECO
Con il gene nel piatto

Proposta un'agenzia per la biosicurezza
Sono migliaia gli organismi geneticamente modificati Tra i nodi del summit
del commercio a Seattle c'è anche l'ipotesi di un sistema di controllo dei
rischiLe "biotecnologie verdi", le moderne tecnologie applicate
all'agricoltura sono, ormai, una realtà. Gli ettari coltivati con piante
geneticamente modificate sono, sparsi per il pianeta, più di 30 milioni:
pari a oltre il 10% della superficie agricola irrigabile mondiale. Il 60%
dei prodotti alimentari consumati negli Usa contiene organismi manipolati
geneticamente o un loro prodotto. Dal 1993 a oggi (anzi, a ieri) nei soli
Stati Uniti sono stati rilasciati nell'ambiente 5.189 organismi
geneticamente modificati (Ogm). A questi vanno aggiunti i 1.504 Ogm
rilasciati nell'Unione europea e un numero imprecisato e (allo stato)
imprecisabile di Ogm rilasciati in altri paesi. Di questi prodotti delle
moderne biotecnologie sappiamo che per il 98,64% sono piante. Per il resto
sono batteri (0,83%), virus (0,23%), animali (0,16%) e funghi (0,13%).
Ma, benché il presente delle "biotecnologie verdi" sia già sostanzioso,
molti prevedono che loro sarà il futuro. E che, tra qualche anno, il modo di
coltivare piante nei campi e di produrre cibo per l'uomo sarà, soprattutto,
un modo basato sull'ingegneria genetica. Per questo le "biotecnologie verdi"
sono il fulcro degli aspri conflitti e della gran confusione che in questi
giorni si registrano per le strade e nei palazzi di Seattle, sede di quel
"Millennium Round" che è considerato "la Yalta dell'economia globale" e che,
comunque, è il negoziato per definire le regole del commercio mondiale, se
non del prossimo millennio, certo dei prossimi anni.
Il guaio è che, benché le "biotecnologie verdi" abbiano informato di sé il
presente e si accingano a informare ancor più di sé il futuro nel settore
che soddisfa uno dei bisogni primari dell'uomo, quello alimentare, nessuno a
tutt'oggi è in grado di associare un qualche rischio reale (grande, piccolo
o quasi nullo che sia) a questa innovazione tecnologica. Per il semplice
motivo che pochi, finora, lo hanno davvero indagato. Il motivo di questa
carenza di ricerca è molto semplice. Le biotecnologie sono l'applicazione di
conoscenze scientifiche realizzata da industrie private (o da industrie
pubbliche con un approccio privatistico alla produzione). E, come scriveva
la rivista biomedica Lancet in un editoriale di qualche tempo fa, non è
davvero sorprendente che le aziende private abbiano posto tutta la loro
attenzione sul successo commerciale della nuova tecnologia, piuttosto che
sui rischi per la salute e/o per l'ambiente.
D'altra parte, molti scienziati ed esperti da tempo sostengono la necessità
di valutare il rischio associato alle biotecnologie. Tant'è che già nel
1992, a Rio de Janeiro, i rappresentanti politici di oltre 150 diversi paesi
trovavano normale sottoscrivere, nell'Agenda 21, che "c'è bisogno di
sviluppare ulteriormente i negoziati internazionali per definire i principi
della valutazione e della gestione del rischio associato a tutti gli aspetti
delle biotecnologie". In tutti questi anni che ci separano da Rio e dai suoi
magnifici propositi, anni nel corso dei quali le "biotecnologie verdi" da
potenzialità si sono trasformate in realtà, quella che è mancata è stata,
dunque, la valutazione del rischio da parte delle pubbliche autorità
scientifiche e sanitarie dei singoli paesi e della comunità internazionale.
Negli Stati Uniti l'autorità preposta, la "Food & Drug, Administration" ha
espressamente dichiarato, lo scorso gennaio, che "non trova necessario
condurre indagini scientifiche generali sui cibi derivati da piante
bioingegnerizzate". Perché nessuno, finora, è riuscito a dimostrare che i
prodotti delle moderne biotecnologie sono più nocivi dei prodotti delle
vecchie biotecnologie (quelle usate da millenni dai contadini nei campi). E,
infatti, negli Stati Uniti i prodotti delle "biotecnologie verdi" vengono
trattati come qualsiasi nuovo prodotto agricolo. E possono essere immessi
nell'ambiente fino a quando qualcuno non prova che sono in qualche modo
nocivi. Dei 5.189 rilasci di Ogm effettuata nell'ambiente, l'80% è avvenuto
attraverso una semplice notifica. E ben 50 diverse colture sono, ormai,
completamente "deregolate". Ovvero possono essere e vengano effettuate senza
alcun tipo di controllo.
Gli Stati Uniti, si sa, fanno fatica ad accettare il principio di
precauzione. Per gli americani si può sottoporre un prodotto a un qualsiasi
tipo di restrizione solo quando qualcuno sostiene che quel prodotto è nocivo
a qualcuno o a qualcosa.
In Europa, invece, c'è una maggiore affinità per il principio di
precauzione. E' in linea di massima, gli europei sono propensi ad accettare
l'idea che un nuovo prodotto alimentare possa essere commercializzato solo
quando ci sono sufficienti prove della sua innocuità. Nonostante ciò,
neppure nell'accorta Europa sono state avviate sistematiche verifiche sulla
sicurezza dei prodotti biotecnologici.
In India, con la più restrittiva applicazione del principio di precauzione,
è stato messo al bando ogni rilascio nell'ambiente di Ogm. Ma, ancora una
volta, la decisione è stata presa in assenza di ogni seria valutazione
scientifica del rischio. Al contrario in Cina nessuno sa cosa stia
avvenendo. Si sa solo che le moderne biotecnologie sono molto praticate e
gli Ogm rilasciati nell'ambiente sono moltissimi. Con quali effetti
sull'uomo e sull'ambiente, è impossibile saperlo. Insomma, molta è la
confusione sotto il cielo globale delle verdi biotecnologie.
Ma questo rischio che nessuno ha mai seriamente valutato esiste davvero? O,
detto in altri termini, vale davvero la pena spendere risorse umane e
finanziarie per valutare un rischio che potrebbe essere minimo?
Naturalmente, nessuno può rispondere a queste domande fino a quando il
rischio biotecnologico non viene davvero valutato e pesato. E' possibile,
però, formulare ipotesi plausibili. Il sistema migliore, forse, per
formulare queste ipotesi è quello scelto dal "Centro internazionale per
l'ingegneria genetica e le biotecnologie" (Icgeb) che, con le due sedi di
Trieste e Nuova Delhi, è uno dei pochi laboratori al mondo su cui sventola
la bandiera delle Nazioni Unite. Il Centro, diretto dall'italiano Arturo
Falaschi, ha di recente allestito una "Unità di biosicurezza". E questa
unità ha raccolto in un grande banca dati quasi tutta la letteratura
scientifica (e non) prodotta sulla sicurezza delle moderne biotecnologie. Si
tratta di una produzione imponente. La cui analisi ha consentito di
identificare la specificità degli Ogm e di individuare almeno cinque grandi
aree in cui è giustificato cercare di valutare il rischio associato alla
loro diffusione nell'ambiente. Secondo gli esperti dell'Icgeb i possibili
rischi (ovvero i rischi non manifestamente infondati) esistono e riguardano
la salute umana; l'ambiente; l'agricoltura; l'interazione con altri
organismi; i rischi di carattere generale. Poiché i rischi non
manifestamente infondati esistono e poiché il processo d'interazione con
l'ambiente degli Ogm, come di tutti gli organismi viventi, una volta avviato
è irreversibile, è giusto e giustificato che, nel momento in cui si cercano
le regole per il commercio locale e globale delle "biotecnologie verdi",
venga creata anche un'agenzia internazionale, con diramazioni nazionali,
incaricata di valutare i rischi di breve, medio e lungo periodo, associati a
ogni e a ciascun Ogm immesso nell'ambiente. L'Icgeb si candida a far parte
di questa "Agenzia internazionale della biosicurezza".
Naturalmente un'agenzia di questo genere ha un senso se è possibile
controllare in modo efficiente i campi e i prodotti alimentari, per
verificare se e quando sono presenti Ogm. Le tecnologie di controllo
esistono (basti pensare ai test messi a punto dall'americana "Genetic Id" o
dall'inglese "Rhm Technology"). Occorre la Volontà politica. Se questa
volontà si materializzerà a Seattle, allora il futuro delle "biotecnologie
verdi" potrà iniziare senza eccessivo pericolo che si riveli, come paventano
alcuni, la più azzardata delle avventure umane.