LA REPUBBLICA, 20 FEBBRAIO 2001

Il guru della resistenza al biotech
"Vergogna, eravate stati avvertiti" 

L’economista americano Jeremy Rifkin e i rischi di un’epidemia

LUCA FAZZO 

---------------------------------------------------------------------

MILANO — Nel giorno in cui i test rapidi fanno registrare il terzo
caso di mucca pazza in Italia, sbarca a Milano l’uomo che a livello
planetario è il guru più acclamato della critica alla deriva
biotecnologica della scienza genetica e dell’industria alimentare:
l’economista americano Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on
Economic Trends, docente ala Wharton School. Quando gli si racconta
della curiosa coincidenza sembra quasi che un sorriso gli guizzi
negli occhi scuri: «Un altro caso di mucca pazza? Beh, non c’è da
stupirsi. Io nel 1993 avevo scritto un libro in cui si parlava
proprio della Bse, e che tra un po’ uscirà anche in Italia. Beh,
provate a leggerlo. E vedrete che questi signori devono solo
vergognarsi di se stessi. Erano stati messi sull’avviso per tempo».
Professore, lei è uno dei più accaniti sostenitori della necessità di
sottoporre a regole e a limitazioni la ricerca nel campo degli Ogm,
gli organismi geneticamente modificati, e delle biotecnologie in
genere. Ma qui in Italia gli scienziati hanno appena vinto uno
scontrolampo con il governo sul tema proprio della libertà di
ricerca.
«Io credo che il governo italiano abbia compiuto un atto di grande
coraggio nel differenziarsi da quanto viene sostenuto a livello di
Unione Europea in questo campo. E credo che gli scienziati abbiano
vinto lo scontro spacciando tesi prive di fondamento. Io, con tutto
il rispetto, faccio sapere a questi scienziati che sono pronto a
confrontarmi con ciascuno di loro singolarmente preso o anche con
tutti quanti loro insieme, e a dimostrare che le loro argomentazioni
sono prive di sostegno scientifico. Mi occupo di queste faccende da
una ventina d’anni, e ormai conosco i loro punti deboli. Ma i miei
interlocutori preferiti non sono loro. Preferisco, per esempio,
rivolgermi ad ogni singolo lettore di Repubblica e chiedergli come
pensa di preparare i suoi figli a vivere in un mondo in cui i geni e
i cromosomi saranno brevettati, saranno proprietà di qualcuno, con
tutto quello che ne consegue».
Lei contesta il diritto delle aziende a brevettare i risultati delle
loro ricerche in campo genetico. Ma se si azzerano i profitti, con
quali fondi si finanzia la ricerca?
«È chiaro che in quello che io definisco la versione hard dell’era
biotecnologica, la ricerca viene alimentata con i profitti delle
grandi compagnie. Ma questo approccio porta con sé conseguenze
inimmaginabili: se produciamo e brevettiamo verdure transgeniche,
cibi transgenici, medicine transgeniche, se progettiamo e brevettiamo
cloni e bambini, ci sostituiamo alla natura, ci sostituiamo a Dio, ci
facciamo architetti dell’universo. Dall’altra parte c’è un approccio
soft che non blocca la ricerca, ma la finalizza — per fare un esempio
legato alla medicina — a fare stare bene le persone, e non a
reinventarle. Questo è un esempio di utilizzo avanzato della ricerca,
quello che gli scienziati spacciano invece per modernità è un
approccio vecchio, superato, non sistemico».
Resta la questione: chi paga la ricerca se non ci sono profitti?
«Stiamo cercando di capirlo. In questi mesi ho visto i manager di
imprese di diversi settori, come le assicuratrici e le farmaceutiche,
e ho cercato di spiegare loro che anche dal punto di vista dei loro
profitti si guadagna molto di più facendo prevenzione che
intervenendo sulla malattia conclamata».
Lei ha scritto: «Se gli embrioni umani clonati sono considerati
invenzioni umane, che ne è della nostra nozione di Dio come
creatore?». Non crede che un interrogativo del genere possa turbare
un credente, ma lasci legittimamente del tutto indifferente un
ricercatore laico?
«La religione non c’entra assolutamente nulla. E la riprova l’abbiamo
avuta in Gran Bretagna, dove le licenze concesse al dottor Varmus, il
ricercatore che ha clonato la pecora Dolly, hanno scioccato sia
abortisti che antiabortisti. Non credo che oggi la distinzione tra
credenti e laici sia decisiva, come non lo è quella tra destra e
sinistra. La nuova arena, la nuova distinzione nei prossimi anni sarà
tra chi crede che la vita umana sia un bene con un valore intrinseco,
e un sistema che punta a ridurla ad un valore d’uso».
Le sue teorie sono uno dei riferimenti del «popolo di Seattle». Non
crede che certe sue rigidità abbiano contribuito alle degenerazioni
violente cui si è assistito?
«Ci sono due modi di manifestare, e l’unico modo che io condivido è
quello pacifico. Sono contro la violenza. Ma mi sarei preoccupato
molto di più se a Seattle si fossero radunati migliaia di giovani
gridando "Soldi, soldi! Viva la globalizzazione, vogliamo fare
soldi!"».