Documento allegato a un intervento al Forum del 10 ottobre 2000

UNA POSSIBILE NUOVA PROSPETTIVA

 

Vorrei riprendere il mio precedente intervento al Forum su: "Responsabilità imprenditoriale e compiti della società", imperniato sulla definizione di un, per così dire, codice di disciplina e/o autodisciplina delle imprese, integrandolo con alcune proposte volte a delineare, in linea di massima, una possibile nuova prospettiva, nell’ambito della quale gli imprenditori possano svolgere un ruolo propulsivo e costruttivo, così come compete ad una parte importante della classe dirigente di una nazione.

L’intento di questo mio contributo è quello di verificare se, alla luce delle attuali innovazioni tecnologiche e trasformazioni sociali, sia possibile per l’impresa, vista nel suo insieme, offrire il proprio significativo apporto all’apertura di un confronto ampio su alcune questioni essenziali del nostro tempo. In particolare, mi riferisco: all’immane redistribuzione dei poteri e alla ridefinizione dei ruoli che caratterizza i cambiamenti ancora in corso; all’esigenza di rivoluzionare i nostri tempi di lavoro per pervenire ad una riappropriazione dei nostri tempi di vita; alla necessità di un approccio positivo rispetto ai fenomeni di mobilità che investono l’intera società, assumendo nei loro confronti un compito di orientamento, invece che un atteggiamento di sospetto.

REDISTRIBUZIONE DEI POTERI E RIDEFINIZIONE DEI RUOLI

L’impresa in questi ultimi tempi ha dovuto cimentarsi non solo con l’innovazione tecnologica ma anche con un concomitante e collegato fenomeno sociale e culturale che, in termini filosofici, è stato definito come "proliferazione delle differenze", cioè una diversificazione di comportamenti e di visioni di vita che, dal mio punto di vista, a tutt’oggi resta ancora in bilico tra ricchezza e spinta disgregatrice e il cui esito dipende anche dalla posizione che assumerà l’organizzazione sociale nei suoi confronti. In particolare, sono emersi conflitti sempre più acuti tra individuo e società, mentre alcune prerogative ed alcuni poteri delle istituzioni vengono messi in discussione e ridimensionati.

Ebbene, come ha fatto e come fa fronte l’impresa a tutto ciò?

Sul piano delle relazioni aziendali ed intersoggettive tra dipendenti essa ha cercato di volgere in positivo questa disordinata differenziazione, assegnandole il significato di espressione della creatività individuale. Naturalmente, si chiede di essere creativi a beneficio dell’impresa, ma questa finalizzazione interessata non mortifica le aspirazioni personali dei lavoratori perché si associa ad un’altra scelta di fondo dell’impresa. Rispetto alla caduta delle ideologie e degli ideali, la struttura economica avanza un nuovo valore di vita: la ricerca del successo, e lega la sua realizzazione personale (in termini professionali) al risultato conseguito dall’impresa, così che successo personale e successo aziendale finiscono per identificarsi. A questo punto tutto diventa più facile, compresa l’affermazione del nuovo modello di organizzazione del lavoro. Infatti, poiché la mission ed i valori d’impresa vengono decisi in alto, la loro accettazione da parte dei dipendenti statuisce di fatto l’autorevolezza (ed anche il potere) della dirigenza. Ma proprio su queste basi diventa così possibile consentire, ed, anzi, auspicare l’introduzione di margini tollerabili di autonomia decisionale ai vari livelli, tali anche da mettere in risalto le competenze e la creatività individuale. La stessa grande impresa può, in tal modo, ramificarsi in tante aziende di settore, senza che con ciò ne venga scalfita l’unità. Non che, così, tutto diviene controllabile e programmabile a priori; anzi, un tale approccio viene esplicitamente escluso. Un atteggiamento più flessibile (e, quindi, in una certa misura, esposto ad incertezza ed imprevedibilità), infatti, diventa inevitabile sia per la presenza di una forte concorrenza, sia a causa dello stesso decentramento organizzativo, sia, infine, per l’azione di feedback esercitata dalle preferenze dei consumatori. In una società di massa, per di più fortemente differenziata, le soluzioni rigidamente centralistiche sono destinate a fallire.

Ma, attenzione, l’impresa rifiuta con eguale fermezza l’anarchia assoluta, la libertà incontrollata, la fluidità estrema. Un mix di autorità e di decentramento, di grande e piccolo, di valori assoluti e di flessibilità manageriale ed organizzativa, orienta sempre più le scelte strategiche dell’impresa.

Ma fino a che punto questo modello può reggere in una società istituzionale sempre più debole?

Questo è il grande problema dell’impresa, e anche della democrazia.

Allora, il modello economico efficientista e le specifiche strategie industriali, certamente originali ed interessanti, devono essere esplicitamente poste al centro di un dibattito ampio e devono assumere l’ambizione di proporsi come possibile riferimento per il disegno di una diversa architettura complessiva della società democratica. Anche a questo livello, infatti, ormai si pone la questione se, in campi non professionali, possa avvenire una valorizzazione sociale della creatività individuale e se sia possibile delegare compiti istituzionali a forme di decentramento e di autogestione, senza che con tutto ciò la società smarrisca la sua centralità; anzi, rinnovandola mediante questa presenza più discreta.

Una discussione, dunque, a tutto campo, coraggiosa, ma non improvvisata ed avventata, altrimenti, diventerebbe controproducente.

RIAPPROPRIAZIONE DEI TEMPI DI VITA

Il mondo moderno, certo, ci sfugge sempre più anche perché ci chiede e ci impone tempi di vita via via più incalzanti, ma questi tempi diventano ancor più stressanti in quanto la loro estrema rapidità si scontra con la rigidità dei tempi socialmente preordinati, primi fra tutti quelli di lavoro.

La tesi di fondo che qui voglio affacciare è che non si potrà mai realizzare una riappropriazione ed una diversa programmazione dei tempi di vita, né si potrà mai cercare di convivere con i ritmi del mondo moderno, se non si ridefiniscono innanzi tutto i tempi di lavoro.

L’impresa, in questi ultimi tempi, sta sperimentando nuove forme di rapporto di lavoro, più flessibili, in parte caratterizzati da una diversa distribuzione dell’orario di lavoro, la quale, in questi casi, non viene più regolata su una uniforme ed intangibile scansione giornaliera, bensì programmata in forme più diversificate e più modulabili e secondo una periodicità anche mensile, se non, addirittura, annuale. In questi casi, si chiede al dipendente (soprattutto atipico) di svolgere l’attività pattuita secondo orari flessibili, che tengano conto delle esigenze produttive dell’azienda, così che, senza essere vincolati a schemi predefiniti, di volta in volta, si possa concentrare e prolungare la prestazione di lavoro in certe fasce della giornata, oppure in alcuni giorni della settimana, o, ancora, in determinati periodi dell’anno, lasciando, di converso, in altri momenti, tempi liberi più estesi.

Finora, questa organizzazione sperimentale del lavoro ha interessato specialmente settori limitati dei dipendenti, in genere quelli meno protetti, e si è posta esclusivamente nell’ottica produttiva aziendale. Ma queste soluzioni originali, se rivisitate nella loro finalità e se generalizzate, possono costituire un valido contributo da parte dell’impresa alla riappropriazione individuale dei tempi di vita.

In sostanza, queste nuove soluzioni organizzative ci dicono che il tempo di lavoro individuale può diventare più modulabile solo se si proietta su una durata più lunga, tale da scardinare l’attuale suddivisione, ristretta entro il circoscritto limite giornaliero (magari ripetuto pedissequamente per l’intera settimana). Imperniando le nostre attività principali sulle sole 24 ore tutto diventa più rigido, se recuperiamo, invece, un maggior respiro temporale la vita ci può essere più congeniale. Inoltre, l’estensione del nostro orizzonte temporale, come vedremo fra poco, richiede collaborazione e si presta ad una sua maggiore condivisione.

In pratica, si tratta di definire a livello di settori o di unità produttive una programmazione dell’orario di servizio, concordato con e tra l’équipe di lavoro, tale da rispondere contemporaneamente alle esigenze di flessibilità poste dal mutevole andamento produttivo dell’impresa, o da un più efficiente utilizzo degli impianti e degli uffici, e, in una certa misura, alle necessità dei lavoratori di avere orari adattabili e modificabili a seconda delle situazioni particolari di ciascuno. Un sistema del genere può realizzarsi sulla base della fissazione a monte degli obiettivi complessivi del ciclo produttivo o di servizio, lasciando alle singole unità il compito di una modulazione degli orari individuali di lavoro compatibile con quegli obiettivi predefiniti e nel rispetto di alcuni criteri di massima. Oggi tutto questo diventa possibile proprio grazie alla sempre più massiccia introduzione di strumenti informatici nelle imprese e negli uffici. Tuttavia, la sua fattibilità poggia su tre condizioni preliminari: buone capacità manageriali ed organizzative; buone relazioni sindacali; disponibilità alla collaborazione all’interno dell’équipe. La finalità di fondo di una tale riorganizzazione dei tempi di lavoro deve consistere nel rivoluzionamento del nostro modo di rapportarci al tempo di vita nelle sue principali o ricorrenti manifestazioni: dal disbrigo delle diverse incombenze quotidiane, alle relazioni familiari, al tempo libero. Diventerebbe, così, possibile, ad esempio, organizzare i tempi di lavoro dei due coniugi in funzione di una maggiore vicinanza ai figli, oppure di una divisione dei rispettivi compiti, o, ancora, di un più saldo rapporto di coppia. In tal modo, si riproporrebbe e si consoliderebbe a livello familiare quel metodo di collaborazione e di confronto (in qualche misura progettuale, perché si progetterebbe pur sempre insieme la vita propria e quella comune) che si è dichiarata indispensabile in campo aziendale.

Dunque, gli attuali esperimenti di una diversa distribuzione dell’orario di lavoro, se generalizzati e se estesi, possono costituire un rilevante contributo dell’impresa alla rivisitazione dei tempi complessivi di vita. Tuttavia, data l’enorme implicazione sociale di un tale rivolgimento, esso non può essere realizzato né contro né senza la società organizzata. Di converso, la società stessa verrebbe così chiamata all’assunzione di una responsabilità nuova, quella dell’affermazione e del rispetto concreti della centralità dell’individuo. Si tratterebbe di un potente recupero della dimensione personale in una società di massa. Cosicchè, se si accrescesse la libera interpretazione della nostra personale temporalità, la società dovrebbe cercare di offrirle uno sbocco creativo, dato che il tempo più liberamente distribuito può anche conoscere derive consumistiche. Non che la società istituzionale debba diventare soffocante e totalitaria, ma ad essa spetta certamente il compito di rendere praticabile, mediante adeguati servizi e strutture, uno stile di vita alternativo ai modelli serializzati imperanti.

Un limite va, però, posto alla flessibilità dei tempi di lavoro: il rispetto dell’alternanza dei tempi fisiologici di tensione e riposo, sia come durata massima dell’orario giornaliero, sia come criteri di turnazione, sia, infine, come concessione di periodi di assenza dal lavoro sufficientemente prolungati. A queste condizioni si possono anche rendere continuative diverse attività (in taluni casi al limite delle 24 ore), così che la più lunga disponibilità di servizi dal lato dei consumatori si combini con la disarticolazione e con la mutevolezza degli orari di lavoro dal lato dei dipendenti. Da questi tempi prolungati di servizio dovrebbe essere esclusa la scuola, specie quei livelli rivolti alle fasce infantili, proprio per quel rispetto dei tempi fisiologici di riposo, di cui si è detto, cui hanno diritto i bambini.

 

MOBILITÀ PROFESSIONALE E MOBILITÀ SOCIALE

A fronte di un mondo moderno sempre più mobile sta un’organizzazione sociale rigida dei momenti di formazione scolastica e professionale, tale da rendere difficoltoso il cambiamento di un percorso universitario o professionale avviato o il passaggio ad uno diverso da quello già portato a termine.

Invece, bisogna prendere atto che l’attuale tendenza alla mobilità costituisce ormai un dato imprescindibile del nostro tempo e che esso dipende sia dai ritmi di cambiamento, sia dalla nuova forza espressa dal desiderio di ogni individuo di migliorare le proprie condizioni di vita, o, semplicemente, di sperimentare nuove strade. Rispetto a questi fenomeni prevale ancora oggi in diverse sfere della società un atteggiamento di diffidenza, in quanto il cambiamento ripetuto viene visto come fattore di instabilità o di destabilizzazione (caratteri, invece, secondo me propri del cambiamento asservito alla pura gratuità).

A dire il vero, neanche l’impresa, per certi aspetti, si sottrae ad una visione del genere. Pensiamo a quanto sia preclusiva la schematica richiesta di esperienze professionali già acquisite. In tal modo, si sbarra la strada ai più giovani e a coloro che vogliono intraprendere un nuovo cammino. Queste forze più motivate, più creative, perché più curiose e più intelligenti, e più fresche vengono, così, escluse già in partenza, o fortemente penalizzate. Non si può, cioè, sempre chiedere alle energie più promettenti di cominciare dal basso o di ricominciare dall’inizio. Per chi vuole cambiare il riavvio non necessariamente deve significare tornare indietro e risalire l’intera gerarchia professionale; la mobilità deve anche costituire un’occasione di riqualificazione e di promozione. In altre parole, non si dovrebbe progredire soltanto restando nello stesso ambito di lavoro ma anche modificando radicalmente le proprie scelte professionali. La richiesta di competenze e di curricula specifici introduce, invece, un pesante limite alla mobilità sociale e contrasta con il sempre più forte desiderio di fare nuove esperienze. Ecco perché l’impresa può dare un suo importante contributo alla caratterizzazione in senso dinamico dell’intera società, lo può fare abbattendo essa per prima steccati inutili e sollecitando, così, indirettamente le istituzioni a fare altrettanto.

Non si sta perorando una degenerazione in chiave assistenzialistica del ruolo dell’impresa, né si intende sminuire il valore della qualificazione e della competenza professionale, tanto più necessarie in una economia ad alto tasso tecnologico, bensì si sta avanzando l’esigenza di una maggiore apertura verso l’esterno. Il dato che si vuole evidenziare è che la conoscenza specialistica o tecnica da sola soffre e risulta perdente di fronte a evidenti attitudini creative e alla carica di chi vuole emergere. La competenza manifesta appieno le sue potenzialità se viene corroborata dall’entusiasmo. Spesso fuori dell’impresa si possono trovare più persone fortemente motivate (anche se per ora non qualificate) di quante se ne trovino all’interno. Perciò, l’impresa dovrebbe cambiare, o integrare, i propri criteri di selezione, magari avvalendosi dell’aiuto dello stato nell’opera di qualificazione del proprio personale.

ANDREA AMATO