Il Sole 24 Ore del 9 giugno 2005 Robottino tu mi turbi di rOBERTO CASATI Uno degli obiettivi nemmeno tanto inconfessati della ricerca in robotica e sulla cosiddetta realtà virtuale è l'imitazione quanto più possibile fedele della realtà; obiettivo che sconfina nel sogno di Pigmalione, ovvero la creazione di una realtà taImente reale da vivere di vita propria. La strada per raggiungere l'obiettivo è costellata di insidie, da quelle ingegneristiche (quanti milioni di pixel o di superfici mi servono per rendere il pelo del gatto? Quanti gradi di libertà deve avere un dito meccanico per tenere salda la matita?) a quelle concettuali e filosofiche, voglio verameme arrivare a trovarmi in una situazione in cui non so più su quale versante di Matrix mi trovo? Ma non solo. Negli anni Settanta uno studioso di robotica, Masahiro Mori, aveva pubblicato un articoletto di due pagine in cui suggeriva che come nel gioco dell'oca la trappola più pericolosa si situa a pochi centimetri dalla vittoria. TI suo esempio si applicava ai tentativi di costruire androidi, robot umanoidi, sempre più simili agli esseri umani. Secondo Mori non è vero che al crescere della somiglianza con gli esseri umani cresce anche il sentimento di familiarità che possiamo avere con questi robot; ovvero, rendere sempre più umane le fattezze di un robot non li rende di persé più accettabili. In un qualche punto prossimo alla somiglianza perfetta il senso di familiarità scompare e si tramuta nel suo comtario, nel perturbante. L'esempio più chiaro è quello degli arti artificiali che imitano forma e colore degli arti naturali, e a volte destano imbarazzo o ribrezzo quando vengono riconosciuti per quello che sono: casi solo ipotetici ma che rendono bene l'idea sono costituiti da dei manichini che si mettessero all'improvviso a gesticolare o dagli zombies molto simili agli umani, ma terribilmente strani. Per descrivere questo improvviso crollo della familiarità al crescere della somiglianza Mori aveva coniato il termine di «valle del perturbante» (uncanny valley). Il suo monito era semplice: si possono rendere i robot sempre più simili agli umani, ma ci si deve fermare su un picco in cui si ottimizza il rapporto tra somiglianza e familiarità; a essere più ambiziosi, a mirare al picco ideale in cui la somiglianza è totale, si finisce con il cadere nella buca del perturbante. Queste osservazioni valgono oggi per il cinema di animazione al computer, che permette di lasciar libero corso alle ambizioni pigmalionesche dei registi; il realismo perfetto non è stato raggiunto, e spesso si sono prodotti personaggi (come quelli di Polar Express) che non incontrano il favore del pubblico. In controtendenza la scelta di Pixar è stata di disegnare personaggi fortemente caricaturali, per tenersi a debita distanza dal rischio del perturbante. Non c'è a tutt'oggi una spiegazione condivisa dell'esistenza di una valle del perturbante. Mori aveva suggerito che sul fondo della valle si trovano i cadaveri; cose molto simili percettivamente agli umani, ma con quel tanto di discrepanza, mancanza di reattività, freddo, che ci fa capire che qualcosa non va per il verso giusto. Tutto ciò che assomiglia a un umano senza esserlo rischia di assomigliare troppo a un cadavere? Forse un'ipotesi più neutra può rendere conto del fenomeno. Si tratterebbe dell'insorgere di emozioni negative quando la creazione di un'aspettativa molto ricca (ti muovi come un umano, sorridi: quindi mi aspetto che parli come un umano) viene disattesa (quella brutta voce meccanica). La dissonanza cognitiva non sarebbe componibile. Al contrario di quello che avviene, paradossalmente, in alcune patologie come la sindrome di Capgras, dove è possibile la ricomposizione di una dissonanza cognitivo/emotiva legata al perturbante. Il paziente Capgras non prova le emozioni giuste di fronte ai propri parenti, e per evitare il conflitto cognitivo pensa che degli impostori si siano sostituiti ai familiari. Ma quanto ci si può tenere a distanza dall'aspetto umano? Nel caso dei robot, l'equilibrio da raggiungere è delicato, e ci sono due buone ragioni, una pratica e una teorica per cercare di risalire la china della somiglianza a rischio di precipitare nel perturbante. La prima è che seppur molti robot (come l'ascensore) non devono assomigliare alle persone, altri, soprattutto quelli utilizzati in domotica, potrebbero trarre vantaggio da tale somiglianza. È certo utile avere forme umane per muoversi (o "navigare") in un ambiente che è costruito a misura di umano, con poltrone, tavoli, guanti e forchette che hanno la dimensione che hanno perché la gamba e la mano hanno la dimensione che hanno. La seconda ragione sta nell'ipotesi di lavoro di un programma di ricerca della nuova Intelligenza Artificiale (di cuisi celebra il 50° anniversario): se il pensiero non è solo una sequenza di calcoli astratti ma un'attività "incarnata" o "imbarcata", resa possibile dal possesso di un corpo, costruire una macchina pensante significa dotarla di un corpo, che sarà tanto miglior veicolo per il pensiero quanto più simile a quello di un umano. Aspettiamo con fiducia i nuovi esseri artificiali pensanti, e rassegnamoci a incontrare sul cammino dei mostri. Ohttp://www.aiSO.org/ soth Anniversary Summit of Artifidal Intelligence, Monte Verità. MacDorman, Karl F. (200S). Androids as an experimental apparatus: Why is there an uncanny valley and can we exploitit? CogSd-200S Workshop: Toward Sodal Mechanisms of Androld Sdence, . 106-118. http://www.androidsdence.com/proceedings200S/MacDormanCogSd200SAS.pdf