Il Sole 24 Ore del 9 giugno 2005

«Un terzo degli scienziati imbroglia»
di SILVIO GARATTINI

I cattivi comportamenti degli scienziati" è il titolo di un editoriale
dell'ultimo numero di "Nature". Un titolo che potrebbe sembrare
curioso, ma non lo è perché si basa su una importante inchiesta
condotta dai prestigiosi National institutes of health su 3.600
ricercatori che erano stati finanziati per la prima volta e 4.160
borsisti che operavano nella ricerca dopo la laurea.
Circa il 50% ha risposto a una serie di domande che hanno messo in
luce comportamenti preoccupanti. Ad esempio lo 0,3% ha dichiarato di
aver falsificato dei dati o di averli inventati; un altro 1,4% ha
utilizzato idee di altri senza dare il giusto credito; l'1,7% ha
utilizzato dati che aveva ottenuto confidenzialmente per realizzare le
sue ricerche; il 6% non ha pubblicato dati che erano in contrasto con
le proprie precedenti ricerche; il 15,5% ha cambiato il disegno e la
metodologia della ricerca per accontentare chi finanziava la ricerca.
E ancora, il 4,7% ha pubblicato più volte gli stessi risultati; il
10,8% ha omesso importanti dettagli metodologici nelle sue
pubblicazioni per evitare che altri potessero riprodurre i risultati;
il 15,3% non ha utilizzato tutti i risultati disponibili per
dimostrare la sua tesi e ben il 27,5% ha dichiarato di non aver
registrato correttamente i risultati dei suoi esperimenti. In 
totale circa il 33% di coloro che hanno risposto hanno ammesso di aver
avuto almeno un cattivo comportamento fra quelli sopra elencati. 
C'è veramente da essere preoccupati per quest'altra faccia della
medaglia che rischia dl far perdere fiducia nell'oggettività e
nell'indipendenza della ricerca. E' triste osservare che la
competizione per ottenere fondi determini ciò che avviene anche in
altri campi e cioè un corso al "trucco", una forma di slealtà che
negli sportivi si chiama "doping".	
Vi sono molti altri cattivi comportamenti che vanno dal fornire ai
colleghi informazioni sbagliate, al non mettere a disposizione
materiali di laboratorio per paura della concorrenza, al non citare
nella bibliografia il contributo di altri ricercatori. A livello
clinico esistono anche comportamenti più gravi: fare esperimenti su
pazienti che non sono stati informati, utilizzare protocolli di
ricerca che sono di puro interesse commerciale, non esplicitare nel
consenso informato tutti i rischi cui va incontro il paziente.
Esistono infine cattivi comportamenti per quanto riguarda i rapporti
con il pubblico. Anche in questo caso gli esempi sono molti anche se
difficilmente quantificabili. Non si dovrebbero propagandare
attraverso i mass-media risultati prima che siano stati pubblicati
nelle riviste specializzate; molto spesso si indulge nelle interviste
a prospettare applicazioni terapeutiche che sono ancora molto lontane
nel tempo, generando illusioni fra i pazienti e i loro familiari; 
altri ricercatori si prestano a sostenere farmaci o terapie senza
dichiarare che vengono pagati per queste attività, sottacendo
importanti conflitti d'interesse.
L'editoriale di "Nature" mette il dito nella piaga e mostra
comportamenti che intaccano l'integrità della scienza, comportamenti
di cui la comunità scientifica deve prendere atto e, riconoscendone
l'esistenza, prospettare adeguati provvedimenti.
Evidentemente, al di là di misure punitive per i casi più scandalosi,
il miglioramento dei comportamenti si costruisce a livello
educazionale. Iniziando dalla formazione universitaria vanno
sviluppate le regole della responsabile conduzione della ricerca. Si
deve privilegiare una serie di comportamenti etici non solo nei
singoli ricercatori, ma soprattutto nell'ambiente in cui si muove 
la ricerca. È tempo che i ricercatori, ai vari livelli organizzativi
si occupino seriamente di questi problemi. Ignorarli vuoI dire mettere
le basi per far divenire la ricerca una della tante attività cui non
si può più credere.