Un duro lavoro chiamato creatività
di Pier Luigi Sacco
da Il Sole 24 Ore del 15/05/2005
 
In questi tempi difficili, capita spesso di sentire persone che si
appellano alla "naturale creatività" italiana come a una sicura ancora
di salvezza di fronte alle minacciose prospettive della concorrenza
internazionale. E di creatività si sente in effetti parlare nelle 
circostanze più varie, e spesso a sproposito: da un campionamento
casuale, sembra prevalere l'idea che essere creativi significhi essere
visitati da una specie di Daimon che romanticamente sussurra all'
orecchio della nostra mente frasi ispirate e idee sconvolgenti. Ci
vuole poco, dunque, a essere creativi: basta chiudere gli occhi e fare
un bel pensiero, magari carico di ottimismo.
La realtà, purtroppo, è molto diversa. Come ci mostra Paolo Legrenzi
in questo piccolo ma prezioso libro, la creatività è un possibile
punto di arrivo di un percorso disseminato di trappole e di vicoli
ciechi, che richiede soprattutto costanza e determinazione. Il mito
tutto italiano che la creatività è figlia dell' arte di arrangiarsi e
quindi della felice improvvisazione individuale si scontra
brutalmente, una volta che si consideri la struttura dei processi
cognitivi che presiedono alla nascita delle idee creative, con una
semplice constatazione: l'idea creativa nasce più facilmente dal
confronto di più intelligenze che dall'intuizione isolata del singolo.
Anzi, il singolo può con grande facilità cacciarsi in un vicolo cieco
nel quale è prigioniero del suo modo personale di formulare un
problema che può nascondergli la strada verso la soluzione. Ma perché
possa esserci un confronto di intelligenze su un problema, occorre
avere a che fare con un contesto sociale in cui sono in molti a
pensare: occorre cioè una società orientata alla produzione di
conoscenza, e non una società che deleghi a pochi "creativi" il
compito di far funzionare la testa. Come spiega chiaramente Legrenzi,
"per creare i vertici della classifica mondiale dei tennisti, dove
svettano pochi campioni, ci vogliono milioni di dilettanti
sconosciuti. Questa struttura ad iceberg, dove pochi divi sono
sorretti da una massa che sta sotto la superficie, è tipica di tutte
le scienze e le arti".
È purtroppo molto più facile mettere in scena parodie della creatività
che essere davvero creativi. Ma per scoprire la differenza tra le due
occorre partire da una base conoscitiva adeguata: per un completo
ignorante, il mondo è una continua meraviglia e qualsiasi banalità è
una scoperta sensazionale. Piuttosto che coltivare una visione magica
e irrealistica della creatività può allora essere meglio cercare di
capire quali sono i fattori che impediscono al nostro pensiero di
essere produttivo. E soprattutto capire che un pensiero che si
prefigge obiettivi troppo strumentali e immediati e non attribuisce un
valore intrinseco alla bellezza delle idee, difficilmente sarà
creativo: avendo sempre di fronte l'obiettivo che si prefigge di
raggiungere, andrà fatalmente a infognarsi in quegli effetti di
focalizzazione o di fissazione che, come spiega bene Legrenzi, sono le
insidie più comuni che ci spingono verso i vicoli ciechi, come falsi
segnali stradali.
Ma è poi così difficile pensare al pensiero come a qualcosa di bello
in sé, qualcosa che non ha bisogno di altro per giustificarsi e che
proprio per questo ci colma di doni imprevisti? Evidentemente sì, per
una società che ha smesso di pensare. Ma forse non è ancora troppo
tardi per cambiare strada, per far tornare a respirare aria fresca
alle nostre menti così provate dall'atmosfera buia e stantia
dell'Italia di questi anni.

Paolo Legrenzi, "Creatività e innovazione", il Mulino, Bologna
2005, pagg. 130, euro 8,00.