La Repubblica, 23 agosto 2004
"(Rubato a Oslo "Il grido" di Munch)
L'ANGOSCIA DEL '900"
di Umberto GALIMBERTI
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Al museo di Oslo dove era esposto, hanno rubato "il grido" di Munch
(1863-1944), l'opera più famosa del pittore norvegese che, con la
preveggenza di cui godono i folli, di cui qualche dio agita la mente,
aveva anticipato in quel grido tutta l'angoscia del Novecento, un
secolo che ha raggiunto una distruttività che, nelle sue proporzioni,
nessun altro secolo ha mai conosciuto.

Dipinto nel 1893 in quattro versioni, di cui la più nota è quella
rubata, "il grido" di Munch non è solo profetico del terrore del
secolo scorso, quando Dio era già scomparso dalla scena come
annunciato da Nietzsche, ma riprende l'atto di nascita della comunità
umana, che non sorge intorno al fuoco, divenuto poi focolare domestico
come piace all'immaginazione psicoanalitica, ma intorno al grido che
aduna gli uomini, atterriti da tutto ciò che è imprevedibile. Grido di
dolore, grido di terrore, grido di morte.

Questo gli uomini sentono e sanno dal primo giorno della loro
consapevolezza, e questo è anche ciò che temono in tutte le sterminate
varianti che può assumere ciò che inquieta.

Un tempo, inquietante era la natura con tutto il suo corredo di
imprevedibilità. E per difendersi dalla natura gli uomini hanno
costruito la città difesa da spesse mura. Ma nella città, più
inquietante della natura, dice Sofocle, apparve l'uomo, la cui
violenza non si lasciava placare neppure dalla preghiera.

E allora l'uomo prese a scavare se stesso e a scoprire che la
distruttività lo abitava nel profondo, come mala radice inestirpabile.
I frequentatori della follia come Munch e, prima di lui e dopo di lui
come Hoelderlin, come Van Gogh, come Nietzsche, come Rilke, come
Strindberg, urlarono la disperazione della condizione umana, in quella
modalità tragica che non sempre riesce ad articolarsi in lirica e
poesia. E allora ritorna a quell'inarticolato che è il grido, che sta
all'inizio della vita dell'uomo sulla terra, come presagio della sua
irrimediabile condizione.

Quando la quiete sembra rasserenare l'orizzonte, il grido si fa canto.

Canto ritmato, ritmo di gioia e di sfrenata esultanza, ritmo di
lamento per inconsolabili perdite, non lenite da cieche speranze. Ed è
in questa incerta quiete, cadenzata dalla gioia e dal dolore, che
l'uomo riesce a fare storia e opere di civiltà.

Ma quando l'incerta quiete improvvisamente si incrina e i fantasmi del
terrore fuori di noi e dentro di noi prendono ad agitarsi e a
reclamare il loro diritto alla vita e all'espressione, allora il canto
si strozza, sia il canto della gioia sia il canto del lamento. E quel
che resta al vocalizzo umano non è più la parola, ma il grido
inarticolato che, con la sua disperazione, fende l'atmosfera
trasognata degli inganni e delle illusioni necessarie per vivere.

Nel grido c'è l'attimo della verità che non si lascia più ingannare,
che contorce l'espressione del viso nello strazio, che immobilizza il
senso dell'esistenza nel suo punto tragico, che copre col suo suono
tutte le armonie e le spezza.

I musicisti conoscono e sanno rendere questa improvvisa cadenza che
disarticola un'armonia per l'irruzione improvvisa dell'inquietante. I
pittori l'hanno fiancheggiata e dipinta in narrazione. Solo Munch l'ha
ritratta nell'attimo perforante del grido, dove l'angoscia
dell'esistenza dice di sé senza ricami, senza storie, senza
narrazioni.

Disarticolazione di tutti i canti e di tutti i ritmi. La storia crolla
nell'insignificanza, dove ogni senso si inabissa, perché nella sua
trama irrompe quell'attimo di verità che grida l'insensatezza
dell'esistere.

Perché rubare un quadro del genere e privatizzare il grido della
condizione umana? Un quadro del genere non si può vendere a causa
della sua notorietà, ma non si può neanche appendere in casa perché
non è contemplabile. L'angoscia, infatti, non ha oggetto, e non c'è
sguardo che possa soffermarsi in quella condizione estatica che ci
prende di fronte a un'opera d'arte. Forse "il grido" di Munch non è
neanche un'opera d'arte, perché non possiamo chiamare così il
contatto con la disperazione della vita.

Ma se "il grido" di Munch era appeso a una cordicella, in una stanza
senza metal detector, vicino all'uscita, per cui sono bastati quaranta
secondi per portarlo via, allora c'è solo da sperare che l'incuria con
cui era custodito il quadro, non sia la stessa incuria che riserviamo
agli aspetti più drammatici, più densi, più tragici, più inesprimibili
della nostra esistenza.

Perché se così fosse, davvero la nostra condizione sarebbe
deprecabile, e il baccano che insceniamo sulla vita per assordare il
dolore sarebbe più tragico del "grido" di Munch.