da L'Espresso del 2 febbraio 2006
"Il chip amico per la pelle"
di Alessandro Gilioli
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Pare proprio che la prossima rivoluzione tecnologica, quella che
potrebbe cambiare la nostra vita quotidiana quanto l'avvento dei
computer o dei cellulari, passi per una sonnacchiosa cittadina della
Florida chiamata Delray Beach, un'ottantina di chilometri a nord di
Miami. È qui, nei laboratori della VeriChip, che vengono studiate e
sviluppate delle capsulette trasparenti grandi come noccioline da
impiantare sottopelle, nella mano o nel braccio di chi lo desidera. 
Dentro quelle noccioline ci stanno un sacco di informazioni - di
solito di carattere medico, ma in realtà uno può metterci un po'
quello che gli pare - e c'è un sistema di trasmissione radio che rende
queste informazioni leggibili da un'apposita macchinetta, una specie
di scanner da avvicinare alla mano o al braccio. Lo scopo del tutto,
dicono quelli della VeriChip, è salvarsi la vita. Se infatti si arriva
in un ospedale in condizioni di incoscienza o di confusione mentale,
l'infermiere impugna il lettore e in pochi secondi apprende tutte le
informazioni principali sulla salute del tizio in barella: il gruppo
sanguigno, i farmaci assunti, le possibili allergie e naturalmente le
eventuali malattie, da quelle cardiache all'epilessia, fino ai
problemi di coagulazione del sangue o al diabete. Insomma, una breve
storia medica che può essere utilissima nelle prime cure al pronto
soccorso.
A produrre le capsulette in questione è un'azienda con 140 dipendenti,
la VeriChip appunto, che dopo aver ottenuto un paio di anni fa il
permesso dalla Food and Drug Admi­nistration, ha iniziato a impiantare
ad anziani ipocondriaci e spericolati motociclisti centinaia di questi
chip radiofonici, (nome tecnico Rfid), ottenendo un tale successo di
critica da lanciarsi in un prossimo collocamento in Borsa che si
preannuncia come uno degli eventi più caldi del Nasdaq nel 2006. «Ogni
secondo, solo negli Usa, ci sono quattro persone che arrivano nelle
Emergency room degli ospedali in condizione d'incapacità di
comunicare», spiega a "L'espresso" Kevin McLaughlin, amministratore
delegato della società di Delray Beach: «Si va dagli infartuati alle
vittime di incidenti stradali, ma la casistica è infinita». L'Ipo, che
si aggirerà sui 45,8 milioni di dollari, vedrà la collaborazione di
una banca, la Merriman Curhan Ford, il cui presidente Jon Merriman si
è fatto inserire un Rfid nel braccio davanti alla tv per mostrare al
pianeta quanto è semplice l'operazione.
Finora, in verità, i numeri della VeriChip sono piuttosto bassi: sono
68 gli ospedali americani che utilizzano i suoi scanner e circa 2.000
i pazienti che - pagando un paio di centinaia di dollari - si sono
fatti mettere la capsuletta nel braccio. «Ma in prospettiva», dice
McLaughlin «i clienti potenziali sono moltissimi, specie se pensiamo
all'invecchiamento della popolazione in Occidente». Tra l'altro la
VeriChip - controllata dalla Applied Digital, corporation hi tech già
quotata alla Borsa di New York, ­ è l'unico produttore di Rfid medici
che ha avuto l'okay dalla Fda, quindi al momento opera di fatto in
regime di monopolio. Dall'America la novità è già arrivata in Europa,
dove l'azienda di Delray Beach ha un distributore locale, la Quintrix
Limited di Watford, in Inghilterra. Ed è dalla Quintrix che sono
arrivati, ad esempio, i primi Rfid sottopelle ordinati da una
discoteca di Barcellona (il Baia Beach Club) per consentire ai propri
clienti più fedeli di entrare nel locale e di pagare il conto
semplicemente avvicinando il braccio allo scanner.
Già, perché se per ora il grosso business dei chip ipodermici è quello
legato alla salute, le possibilità connesse sono invece molto più
ampie e aprono una serie di delicate questioni tecnoetiche. In teoria,
con una capsuletta hi tech dentro il braccio o nel dorso della mano
ciascuno di noi può portare in giro con sé una quantità enorme di
informazioni: dal proprio codice genetico alla fedina penale, dai dati
biometrici fino alle simpatie politiche. Con un Rfid inserito possiamo
sostituire tutte le chiavi di casa o dell'automobile e tutte le
password per accedere a pc o ai telefonini. Allo stesso modo si
potrebbe passare il casello autostradale, ritirare contante al
bancomat e pagare il conto al ristorante o alla cassa del
supermercato, proprio come se avessimo un telepass o una carta di
credito incorporata (la stessa VeriChip ha già presentato un prototipo
di "credit Rfid" sotto pelle, chiamato VeryPay). Se poi questa
nocciolina venisse potenziata con un Gps, ciascun essere umano
potrebbe essere localizzato in qualsiasi momento, in uno scenario da
Grande Fratello che ha scatenato reazioni a volte anche irrazionali,
come spesso capita con le novità tecnologiche di complessa gestione
sociale. Basti pensare che negli Usa, complice l'ondata di
neoconservatorismo religioso, la VeriChip è stata accusata da decine
di siti Internet di essere addirittura al servizio dell' Anticristo.
Teorie complottistiche alle quali McLaughlin risponde con un sorriso
pieno di pragmatismo: «L'impianto del chip è, ovviamente, su base
volontaria e ognuno ci mette le informazioni che crede. Lo si
inserisce sottopelle perché è il modo più sicuro di averlo sempre con
sé, molto meglio che nel portafoglio o in tasca. La capsula è
invisibile e le sue informazioni possono essere lette solo dallo
scanner di VeriChip, avvicinato al braccio. Non consente nessuna
localizzazione Gps, non viola la privacy e se si cambia idea si può
rimuoverlo con un'operazioncina ambulatoriale di pochi minuti.
Insomma, non c'è nulla di diabolico...».
Tutto vero, ma sono le potenzialità dell'oggetto a creare qualche
inquietudine, soprattutto per la fragilità di un concetto - quello
della volontarietà o quantomeno dell'assenso - che in alcuni casi
potrebbe essere facilmente aggirato: ad esempio, da un'azienda che
ponga il Rfid subcutaneo come condizione per essere assunti.
Un'esagerazione? Mica tanto: già oggi a Città del Messico un centinaio
di alti funzionari della Procura generale sono stati gentilmente
richiesti di impiantarsi un chip per accedere ad alcuni uffici
riservati, come il centro informatico. Un modello che potrebbe essere
facilmente imitato (ad esempio, negli aeroporti o in altri luoghi nel
mirino dei terroristi) in un periodo come questo in cui i diritti
individuali vengono a volte sacrificati alla sicurezza.	
Ma se le collettività sapranno circoscrivere decentemente i limiti
entro i quali utilizzarli, la furura invasione dei chip sottopelle
sembra abbastanza probabile, se non altro per la loro estrema
praticità e per il ruolo che questi possono svolgere nella
semplificazione della vita quotidiana. Il pioniere della tendenza è un
imprenditore, neanche trentenne di Bellingham, vicino a Seattle: si
chiama Amai Graafstra e lui di chip se n'è fatti mettere addirittura
due, uno per mano: «L'idea era quella di liberarmi di ogni chiave e di
ogni password», spiega, «e devo dire che sta funzionando  benissimo. I
miei Rfid me li sono programmati da solo, senza utilizzare la
tecnologia proprietaria della VeriChip, e ci ho messo i dati che mi
interessavano. 
Poi ho chiesto al mio medico di impiantarmeli, cosa che ha fatto in
pochi minuti e in modo del tutto indolore. All'inizio i miei amici e i
miei parenti mi chiedevano se ero impazzito, pensavano fossi diventato
un cyborg o qualcosa del genere. Sciocchezze, naturalmente: il Rfid
sotto pelle non ci rende bionici più di quanto non faccia un paio di
occhiali sul naso. E averlo è soltanto un modo per semplificarsi
l'esistenza, per entrare in casa, far partire l'automobile o accedere
al computer senza chiavi né password». Anche sul tema della privacy,
Amai non ha molte preoccupazioni: «I miei dati sono leggibili solo a
pochi centimetri di distanza e solo dai miei scanner: nessuno può
rubarmeli né tantomeno può localizzarmi, come molti invece credono». 
Graafstra non nega che però qualche problema potrebbe insorgere se il
mercato dei chip ipodermici venisse monopolizzato da qualche
multinazionale: «A me non piace l'idea della VeriChip di registrare
tutti i suoi clienti. In questo modo qualcuno diventa padrone dei tuoi
dati. Io sono per il Rfid libero e individuale», dice. Divenuto in
questi mesi assai popolare nell'universo dei "geek" attratti dalle
potenzialità della capsuletta, Graafstra ha raccontato la sua
esperienza e le sue idee in merito in un libro ("Rfid Toys", edito da
ExtremeTech) in uscita il 20 febbraio prossimo e già oggetto di mille
curiosità in Rete.
In Internet del resto l'interesse verso questo tipo di tecnologia
sembra crescere molto velocemente, almeno a guardare i siti, i blog e
i forum dedicati alla materia. Tra i gruppi di discussione più
conosciuti ce n'è uno partito dalla Nuova Zelanda
(http://tagged.kaos.gen.nzj) in cui decine di ragazzi già
microchippati o in attesa di divenrarlo si confrontano sulle questioni
più scottanti, come le migliori tecniche da usare o le possibili
conseguenze sulla salute nel lungo termine. I più avveduti si
raccomandano di farsi impiantare la capsuletta da un medico o almeno
da un veterinario (molti di questi lo fanno già da tempo con gli
animali) evitando di rivolgersi a semplici tatuatori. Altri raccontano
semplicemente la propria meraviglia davanti al cosiddetto "effetto
Abracadabra", per cui una serratura blindata scatta da sola quando ci
si avvicina con la mano. Tutti però, indistintamente, sono convinti di
essere l'avanguardia di un futuro molto vicino: quello in cui un
radiochip inserito nel dorso della mano non farà più paura a nessuno e
diventerà un banalissimo oggetto d'uso quotidiano. Al punto che presto
finiremo per chiederci come si poteva, prima, farne a meno. Un po'
come per i telefonini, le lavapiatti e i robot.