REPUBBLICA 13 DICEMBRE 2002
La società mondiale del rischio
Di Ulrich Beck
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L'11 settembre ha cambiato il mondo?  In certo modo, sì.  Chi prima
dell'11 settembre si recava in volo da New York a Washington si
metteva di fronte a un apparecchio automatico di rilascio dei
biglietti aerei che - con una voce elettronica - chiedeva al
viaggiatore: "Porta con sé soltanto effetti personali, oppure qualche
estraneo le ha affidato qualcosa?", e la risposta che dava il via
libera poteva essere ottenuta toccando con le dita un certo punto
dello schermo!  Dopo l'11 settembre 2001 questo "apparecchio di
sicurezza" ha perduto la sua innocenza, e i suoi gestori ci appaiono
a posteriori pericolosamente ingenui.
E questo ci porta al punto: la filosofia della sicurezza valida fino
ad allora si basava sulla fiducia; ed è precisamente questa fiducia
esistenziale e tradotta in istituzioni (l'apparecchio di sicurezza)
ad essere dissolta e sostituita dalla sfiducia esistenziale che poco
a poco viene trasfusa in corrispondenti forme istituzionali.  Il
cittadino riconoscente e diffidente non potrà che essere grato di
essere passato ai raggi, scrutato, perquisito e interrogato.
In questo modo, tramite le minacce provenienti dalle reti
terroristiche transnazionali mentre prima provenivano da Chernobyl,
dalle catastrofi ecologiche, dalla crisi di "mucca pazza", dalle
polemiche attorno alla genetica umana e dalla crisi finanziaria in
Asia viene inaugurato un nuovo capitolo della società mondiale del
rischio.  Niente è più utile di un esempio per chiarire cosa intendo
per "società mondiale del rischio".
Qualche anno fa il Congresso statunitense conferì a una commissione
scientifica l'incarico di elaborare un linguaggio o un simbolismo che
illustrasse il pericolo dei depositi di scorte radioattive. Il
problema stava in questi termini: come devono essere questi i simboli
ed i concetti adatti a trasmettere per diecimila ani alle generazioni
future un messaggio sempre uguale? La commissione era composta di
fisici, antropologi, linguisti, neurologi, psicologi, biologi
molecolari, studiosi di storia antica, artisti, ecc. Anzitutto essa
dovette chiarire una questione irrilevante: fra diecimila anni ci
saranno ancora gli Stati Uniti? La risposta riuscì ovviamente facile.
Usa forever invece il problema di fondo, vale a dire come sia oggi
possibile stabilire una comunicazione con il futuro da qui a
diecimila anni, si dimostrò solo a poco a poco insolubile. Si
cercarono modelli nei simboli più antichi dell'umanità, vennero
studiate la costruzione di Stonehenge (1500 a. c.) e le piramidi, si
approfondì la storia della ricezione di Omero e della Bibbia, ci si
informò sul ciclo vitale dei documenti. Ma questi risalivano
tuttalpiù a qualche millennio addietro, mai a diecimila anni.  Gli
antropologi suggerirono il simbolo dei teschi, ma uno storico ricordò
che per gli alchimisti il teschio significavano la risurrezione, e
uno psicologo compì degli esperimenti con bambini di tre anni: se il
teschio veniva incollato a una bottiglia gridavano spaventati
"veleno", se però lo si attaccava a una parete esclamavano entusiasti
"pirati"!
Proprio l'acribia scientifica con la quale procedette la commissione
rese chiaro e comprensibile il significato del concetto di società
mondiale del rischio: la nostra lingua non è in grado di informare le
generazioni future sui pericoli ai quali abbiamo dato luogo
considerando solamente i benefici di determinate tecnologie.  Il
mondo moderno, con il ritmo delle sue modernizzazioni, approfondisce
la differenza sostanziale tra il linguaggio dei rischi controllabili,
nei quali pensiamo e agiamo, e il mondo dell'insicurezza non
controllabile, anch'esso creato da noi. Con le passate decisioni
sull'energia atomica e con le decisioni attuali sull'utilizzo della
tecnologia genetica umana, delle nanotecnologie, delle scienze
informatiche, ecc. determiniamo conseguenze imprevedibili, anzi
addirittura incomunicabili, che trasformano e minacciano la vita
sulla terra.
Ma allora cosa c'è di nuovo nella società del rischio? Tutte le
società, tutti gli esseri umani, tutte le epoche non sono forse state
insidiate da pericoli, per difendersi dai quali queste società si
sono appunto costituite? Il concetto di rischio è un concetto
moderno.  Esso presuppone delle scelte e cerca di rendere prevedibili
e controllabili le conseguenze imprevedibili delle scelte compiute in
nome dei progresso.  L'elemento nuovo della società mondiale del
rischio sta nel fatto che con le nostre scelte nel nome del progresso
diamo luogo a problemi e pericoli globali che contraddicono
radicalmente il linguaggio istituzionalizzato del controllo e le
promesse di controllo (irresponsabilità organizzata).  E' quanto
avviene in occasione delle catastrofi portate all'attenzione
dell'opinione pubblica mondiale - come Chernobyl o gli attacchi
terroristici di New York o, ultimamente, il disastro ecologico
causato dalla fuoriuscita di petrolio dopo l'affondamento della
Prestige.  Proprio in questo risiede l'esplosività politica della
società mondiale del rischio.  Questa ha il suo centro nella sfera
pubblica mass-mediatica, nella politica, nella burocrazia,
nell'economia, anche se non necessariamente sul luogo
dell'avvenimento.  L'esplosività politica non può essere descritta
nel linguaggio del rischio, nelle cifre delle vittime morte o ferite,
né in formule scientifiche.  In esse "esplodono" - se ci si consente
questa metafora -le responsabilità, le pretese di razionalità, le
legittimazioni in forza dell'aderenza alla realtà; infatti, l'altra
faccia del confessato presente di pericolo è il fallimento delle
istituzioni che traggono la propria ragion d'essere dall'asserita
padronanza del pericolo.  Nell'esperienza dello shock amplificata dai
mass-media diventa chiaro per un istante che - per riprendere il
titolo di un'incisione di Goya - "il sonno della ragione genera
mostri".
Dopo l'11 settembre 2001 la Nato ha deliberato la mobilitazione
dell'alleanza, ma non si è trattato né di un attacco dall'esterno, né
di un attacco di uno Stato sovrano ad un altro Stato sovrano.
L'attacco terroristico non è stato una seconda Pearl Harbor. Inoltre,
esso non ha colpito l'apparato militare statunitense, ma civili
innocenti.  Quel fatto parla la lingua dell'odio genocida, che non
conosce nessuna " trattativa", nessun "compromesso" e, in fondo,
nessuna "pace".  Di conseguenza, il concetto di "difesa civile dalle
catastrofi" perde il suo significato, ecc. ecc.  Il contesto
linguistico e istituzionale della sicurezza, nel quale pensiamo, un
contesto che abbiamo costruito e nel quale ci siamo costruiti, perde
il suo significato.  Se però i politici e i militari legati al
vecchio universo concettuale, rispondono con i mezzi della guerra,
c'è da temere che questo sia controproducente: viene alimentato
l'odio sul quale crescono tanti Bin Laden.
Questo paesaggio globale dell'insicurezza ci costringe a ripensare la
nostra posizione rispetto al rischio e al futuro che oggi prepariamo.
Non c'è un "rischio zero".  Ciò di cui abbiamo bisogno è una cultura
dell'insicurezza, che rompa con i tabù della cultura del rischio
residuale, da un lato, e con quello della cultura della sicurezza,
dall'altro.  La chiave della cultura dell'insicurezza sta nel
comprendere l'insicurezza come elemento della nostra libertà.  Questo
presuppone la disponibilità a discutere e a riformare apertamente
pubblicamente i fondamenti del nostro approccio al rischio.  Per
quanto riguarda anzitutto i rischi ecologici, tecnologici, alimentari
ecc., dobbiamo riflettere sul modo in cui la fiducia tra le aziende e
i consumatori, i profani e gli esperti, la scienza e l'opinione
pubblica critica può essere ritrovata ad esempio mediante una
"chimica trasparente", che metta tutte le sue carte sul tavolo
dell'opinione pubblica.  Sarà essenziale riconoscere la differenza,
politicamente così importante tra rischi calcolabili e insicurezza;
non calcolabile.  In questo modo si pone la domanda: chi decide, e
con quale legittimazione, se nessuno conosce le conseguenze di una
decisione, ma si intuisce che i fondamenti della vita e della
convivenza ne verranno toccati?  Sarà necessario riflettere su nuove
linee di confine - ad esempio nella medicina della riproduzione e
nella genetica umana -, ciò che comporta una "modernizzazione del
tabù".
Ma la cultura dell'insicurezza spezza anche il dibattito basato sulla
falsa alternativa tra sicurezza e rischio. La scelta è tra diverse
situazioni di rischio; spesso anche della scelta tra alternative i
cui rischi investono dimensioni e valori diversi, difficilmente
paragonabili. Perciò, la cultura dell'insicurezza è consapevole che
il permanere della sicurezza è altamente rischioso, poiché minaccia
la libertà e la capacità di riforma e di innovazione. Ci sono buoni
motivi per dubitare che d mondo sia divenuto più sicuro con la guerra
contro il terrorismo. E "guerra" è un eufemismo, poiché nella guerra
i terroristi dovrebbero essere trattati come prigionieri di guerra e
non come banditi. Non da ultimo gli attacchi terroristici dell'11
settembre insegnano che il potere non si è mai tradotto in sicurezza.
Nella società mondiale del rischio, così radicalmente disuguale, ci
sarà tuttavia un'insicurezza tollerabile, anche quando nasceranno e
si affermeranno la disponibilità e la capacità di vedere il mondo
della modernità scatenata con gli occhi degli altri, dell'alterità.
Nemmeno lo stato sorvegliante di orwelliana memoria potrebbe
ristabilire le vecchie sicurezze.  Una politica che pretende di
controllare tutto porta dritto all'inferno.  Chi ci difenderà dal
paradosso del fondamentalismo della sicurezza, che procede
all'abbattimento dei valori e dei diritti fondamentali della
modernità in difesa dei medesimi?