________________ scriveteci |
Data: 15 aprile 2003
Da: Giuseppe O. Longo
Oggetto: Saggio di Pessina: commenti
Ho letto con molta attenzione gli estratti dal saggio di Adriano Pessina che ho trovato
nel sito della FGB. E' un saggio molto interessante e di massima ne condivido
l'impostazione e i contenuti. Riporto qui di seguito alcune osservazioni e commenti a
integrazione delle argomentazioni dell'autore.
1) Pessina distingue tra tecnica (strumento o strumentario concreto) e tecnologia (sapere
che accompagna e orienta la tecnica).
A questo proposito sarei più sfumato, poiché ogni tecnologia, intesa come 'sapere'
(quindi a livello astratto o, secondo la nostra tradizione, a livello superiore) si
incarna, si manifesta, opera e si evolve attraverso un'inevitabile panoplia di strumenti.
Conoscere e agire sono due facce della stessa medaglia. Abbiamo la tendenza, specie per le
attività più astratte, come la matematica, a separarle da una parte dai loro supporti e
dall'altra dai loro prodotti. In realtà non esiste attività (per esempio matematica) se
non incarnata in un supporto concreto e manifestata attraverso risultati e strumenti
concreti. Inoltre una distinzione così netta tra tecnologia e tecnica può portare a
'reificare' o oggettivare la tecnologia, conferendole lo statuto di un ente (o variabile)
indipendente dalle forme storiche ed evolutive in cui si incarna e soprattutto
indipendente dalle altre parti del sistema complesso in cui si manifesta: in particolare
indipendente dall'uomo, capace di agire su di esso in modo unilaterale; mentre sono
convinto che tra uomo e tecnologia sia in atto, da sempre, un fenomeno di simbiosi, che si
concreta in un'interdipendenza circolare. Tra l'altro, questa interdipendenza stretta, di
carattere co-evolutivo, si oppone alla concezione di una natura umana fissa, data una
volta per tutte: il simbionte uomo-tecnologia si trasforma di continuo e in particolare si
trasforma la sua componente umana (vedi il par. 'La
tecnologia ci trasforma' di Pessina).
2) Pessina tende a sottolineare le discontinuità più che le continuità tra gli
strumenti primitivi (martello, aratro ecc) e quelli moderni (calcolatore, reti ecc).
Non c'è dubbio che esiste una profonda differenza (qualitativa) tra le due 'famiglie' di
strumenti. Anche se si può argomentare che la differenza qualitativa possa nascere da un
incremento quantitativo (v. il suo par. 'Tecnologia
nociva'), resta il fatto che la discontinuità c'è. Tra i fattori di questa
discontinuità ne elenco due: la crescente velocità dell'innovazione, che porta a uno
scollamento o disadattamento progressivo tra le varie 'componenti' dell'uomo (biologica,
psicologica, cognitiva, tecnologica...). Un tempo le innovazioni tecniche erano così
lente che il simbionte si coevolveva in modo armonico: oggi non è più così perché
l'evoluzione della componente biologica è molto più lenta dell'evoluzione cognitiva e
soprattutto dell'evoluzione tecnologica. (Per effetto delle biotecnologie può darsi che
la velocità con cui si evolve la biologia aumenti a dismisura, adeguandosi alla velocità
della tecnologia, ma senza garanzie di equilibrio con il resto del biota).
Un secondo fattore di discontinuità è l'avvento delle macchine 'della mente' (che
elaborano dati e informazioni) accanto alle macchine 'del corpo' più tradizionali (che
elaborano materia ed energia). Ciò comporta una serie di conseguenze, tra cui la pretesa
di rifare il mondo per via linguistico-formale (intelligenza artificiale) o di sostituire
il codice al fenotipo (mappatura del genoma e ingegneria genetica).
3) E' vero che c'è un'integrazione sempre più stretta tra scienza tecnologia e che
quest'ultima incorpora nozioni 'teoriche' sempre più numerose, ma è anche vero che la
tecnologia sta superando la scienza, e se ne sta distaccando. La tecnologia procede per
'bricolage' e tramite la simulazione più che attraverso la ricerca classica di tipo
teorico-sperimentale. Per edificare la base su cui costruire i suoi dispositivi, la
tecnologia non aspetta più la scienza e le sue giustificazioni: 'la teoria' se la fa in
casa, sfruttando opportunisticamente i risultati della scienza ma anche le improvvisazioni
e le idee estemporanee; gli strumenti che costruisce sono sempre meno 'macchine' di tipo
classico (individuabili e ben definite) e sempre più 'sistemi' articolati e compositi che
interagiscono fortemente con altri sistemi (naturali e artificiali: la distinzione sfuma,
come sottolinea Pessina) e che possiedono caratteristiche evolutive. Inoltre sempre più
grande è l'indifferenza teorica degli utenti verso gli strumenti usati: i dispositivi
debbono funzionare, fornire le prestazioni promesse e basta: come e perché funzionino non
si sa e non interessa saperlo. Si è persa insomma la curiosità che contraddistingue
l'utente della scienza, anche perché gli utenti della tecnologia sono legione e non
possono e non debbono essere curiosi, mentre quelli della scienza sono sempre stati
pochissimi e pochissimi sono anche oggi. Gli utenti della scienza coincidono in gran parte
con i creatori della scienza, mentre gli utenti della tecnologia sono nella stragrande
maggioranza distinti dai depositari della conoscenza tecnologica (qui il discorso andrebbe
approfondito).
Tutti usiamo strumenti di cui non conosciamo il funzionamento, e non c'interessa affatto
conoscerlo; ci basta che lo strumento funzioni, e questa indifferenza teorica non è
affatto riprovevole (mentre l'ignoranza scientifica può essere riprovevole). Chiamerei
'magico' questo atteggiamento: mi pare che esso faccia parte di un 'reincantamento' del
mondo più che di un processo di razionalizzazione (secondo Weber). Bricolage e
progettazione razionale sono quasi antitetici (quasi direi che scienza e tecnologia
tendono a polarizzarsi in opposizione).
4) Se, come ritengo, uomo e tecnologia formano un unico sistema (simbionte) che si
co-evolve all'interno di un più ampio sistema, la separazione tra uomo e tecnologia,
sotto il profilo sistemico, cioè dall'esterno, non è sostenibile: ciò che invece crea
problema è il fatto che la consapevolezza, l'intelligenza, la soggettività ecc sono
tutte dalla parte dell'uomo, che tende perciò ad avere una visione molto parziale e poco
sistemica del fenomeno. Questa unilateralità della visione spinge a considerare la
tecnologia da una parte come uno strumento o strumentario 'al servizio' dell'uomo,
dall'altra come 'fattore di snaturamento' di un'ipotetica natura umana fissa e
invariabile: è un punto sul quale si dovrebbe indagare meglio.
Siccome è solo la parte 'umana' del simbionte ad esprimere e a ricercare il 'senso',
siamo portati a vedere nella tecnologia una 'cosa' che non ha e non dà senso, qualcosa di
oggettivabile e quindi capace di assumere connotazioni, positive o negative, ma sempre
esterne. Forse invece anche la tecnologia ha un suo senso, un senso insondabile, oscuro,
non rispecchiato in una coscienza sua, della tecnologia, un senso che è diverso dal
nostro (o addirittura contrario): ma potrebbe essere il suo senso, che sentiamo alieno, a
far scaturire il (problema del) senso per l'uomo.
Per esempio se è vero che il superamento continuo di singoli limiti che ci è promesso (e
in parte assicurato e attuato) dalla tecnologia non fa che riproporre il senso del
'limite' in sé, del limite metafisico, poiché solo ciò che non è sottoposto a limite
non ha bisogno di superare limiti, se insomma non basta superare via via tutti i limiti
per essere o diventare 'illimiti'; è anche vero tuttavia che questo continuo superamento
costituisce un 'senso', un significato e una direzione, dell'agire tecnologico. Forse
nell'agire tecnologico si possono considerare (e superare) solo limiti concreti, di basso
livello, e non il limite in sé, il limite di livello alto, ontologico, e questa
incapacità di uscire dal livello basso è sentita (dalla parte umana del simbionte) come
il vero 'limite' della tecnologia (cioè dell'agire del simbionte attraverso la sua parte
tecnologica). Il superamento di ogni limite (basso) rafforza la nozione di limite (alto) e
qui concordo con Pessina.
Sono considerazioni un po' confuse e disordinate, ma ripeto, l'articolo è di grande
interesse e desta un fervore di considerazioni che è difficile imbrigliare.
Data: 15 aprile 2003
Da: Elisabetta Volli
Oggetto: Commenti a Pessina
Vorrei esordire dichiarandomi prima di tutto d'accordo con la posizione di Pessina.
Anche da un punto di vista laico - quale è quello che io spero di sapere adottare -
possono - io credo - raggiungersi le stesse conclusioni a cui perviene Pessina. I valori
sottostanti alle conclusioni saranno diversi, il regolo argomentativo pure, ma credo che
possa esservi convergenza di vedute.
Mi ha lasciato invece più perplessa la sensibilità - o almeno così sembra a me - di
Pessina riguardo all'uso dei prodotti dell'odierna tecnologia. Personalmente credo infatti
che la questione resti pressoché inavvertita da parte delle generazioni degli attuali
"under 30". In termini differenti - ma non dissimili sotto il profilo del
significato - per ogni passaggio generazionale è possibile individuare, sia pur in misura
variabile, una difficoltà nell'uso della tecnologia da parte della generazione
precedente. Questa difficoltà è frutto di una sorta di rifiuto che, spesso, è anche
consapevole. Potremmo dire che le nuove generazioni "adottano" la tecnologia,
nel senso che la loro è una scelta d'elezione perché tendono a concepirla come un
qualcosa che appartiene alla loro dimensione di vita (e non potrebbe che essere così,
no?). Mentre chi non appartiene alle nuove generazioni, della tecnologia è semplicemente
utente, quando non giunge a rifiutarla "in toto". Ma questo avviene da sempre.
Qual è dunque quel "quid" che differenzia l'uomo di oggi da quello di ieri?
Probabilmente non si tratta di un "quid novi" e probabilmente neppure Pessina
pensa sia tale: piuttosto egli prende in esame una fenomenologia che, ultimamente, ha
assunto a suo parere dimensioni tali da assurgere a chiave interpretativa della realtà.
Questo è - secondo la mia percezione - quel che davvero preoccupa Pessina.
In questo stesso modo interpreterei la questione del divario di consapevolezza
nell'esercitare il "volere è potere": la consapevolezza è da intendersi in
termini relativi, può appartenere a chi utilizza il rullo o la ruota per trasportare un
peso immane, costruendo - poniano - un edificio (forse non è proprio il caso dello
schiavo...), così come al giovane che "adotta" (vedere sopra) l'ultimo modello
di Motorola scattando foto e inviando MMS in tutto l'orbe terracqueo. Anche qui, ciò che
Pessina sembra auspicare è che non venga meno il senso critico riguardo al fatto che la
tecnologia "potenziatrice" è stata da qualche tempo retroflessa sull'essere
umano, dentro l'essere umano. Questo giustifica uno sguardo se non preoccupato quanto meno
pensoso su quello che Longo chiama simbionte.
Data: 17 aprile 2003
Da: Gian Maria Borrello
Oggetto: Continuità...
Leggendo gli estratti dal saggio di Adriano Pessina mi è tornato alla mente quanto diceva Leone Montagnini
nel forum di febbraio connesso al seminario di Longo: «C'è un problema che mi affligge
da tanto tempo: non sopporto che si insista sui salti senza guardare alle continuità».
Pessina ritiene che: «Chi ama sottolineare le continuità storiche tende a vedere nella
tecnologia un semplice incremento della tecnica e a far sorgere quest'ultima con la storia
dell'uomo, che è da sempre, se così si può dire, un "animale" tecnico, cioè
un vivente che sopperisce alle sue carenze istintuali con l'invenzione di utensili atti a
garantirgli la vita.».
Mi chiedevo, quindi, se Montagnini ha letto gli estratti dal saggio di Pessina e che
opinione si è fatto in merito alla posizione da questi espressa.
Data: 17 aprile 2003
Da: Leone Montagnini
Oggetto: Sulla tecnica tra continuità e novità
Concordo su molte cose col discorso di Adriano Pessina, in cui tra l'altro si
evidenziano molti punti di contatto con quello di Giuseppe O. Longo. Condivido l'idea che
attualmente ci si trovi di fronte ad una nuova fase della tecnica, che tende quasi a
rendersi autonoma affrancandosi dalla scienza (capire bene cosa significa questo non è
facile; era uno dei punti più delicati del Forum con Giuseppe O. Longo, su cui è intervenuto anche
Marcello Cini, che preferiva usare la crasi "scienza-tecnica"). Come pure
condivido l'idea che la tecnologia tende a modificare il modo di vedere il mondo, o l'idea
dell'incrocio simbiontico di biologico e tecnologico. In tutto ciò va scorta molta
novità, novità con cui occorre confrontarsi. Condivido con Pessina anche l'accento
etico.
Però ritengo che se si recuperasse l'aspetto continuistico, l'idea cioè che l'uomo è un
animale tecnico - proprio quello che, nell'esordio dell'articolo, Pessina mette fuori
gioco - potremmo capire molte più cose sulla attuale società tecnologica. Non ritengo
che tale asserzione conduca inevitabilmente, come sostiene Pessina, al neutralismo etico
sulla tecnica.
Il mio richiamo alla continuità non è una negazione del momento di salto, ma un appello
a cercare la struttura che permane al di sotto delle novità, per costruire una
fenomenologia diacronica del rapporto tra uomo e tecnica sulla base della consapevolezza
del viscerale, intrinseco, essere tecnico dell'uomo, consapevolezza che, credo, ci metta
in grado di pervenire ad una comprensione meno esteriore di ciò che sta accadendo.
Insistere sull'aspetto della continuità, accanto a quello della novità è necessario
perché il nostro problema primo è quello di capire le ragioni dell'emergenza del nuovo e
ciò implica una descrizione accurata del come, la spiegazione del perché, e il tentativo
infine- di verificare se esiste la possibilità di cambiare strada, qualora ci si renda
conto che si sta andando sulla via sbagliata. Insistere sui salti, senza tenere conto del
prima e delle strutture di lunga durata, ci mette nella condizione scoraggiante di passivi
osservatori che non possono far altro che registrare il fenomeno dell'avvento di un nuovo
stato di cose in cui la tecnica si rende autonoma dalla scienza, un fenomeno spuntato
all'improvviso come un fungo o giunto come un fulmine a ciel sereno, senza sapere come e
perché.
Negli ultimi anni ha preso sempre più consistenza una epistemologia debolista che insiste
sulle singolarità, l'imprevedibilità, l'incertezza, il caos, la complessità. Si tratta
di un modo di pensare estremamente importante, a cui dedico ricerche assidue da dieci
anni, in quanto vi riconosco molte virtù che non bisogna assolutamente trascurare. Esso
ci ha insegnato che in molte situazioni, dell'universo naturale come di quello umano, il
principio di continuità (che, non lo dimentichiamo, fu introdotto da Leibniz come una
versione del principio di ragion sufficiente) non può essere applicato, perché esse sono
impreviste e imprevedibili. Ma questo, grazie al cielo, non è vero sempre.
| Questa pagina appartiene al sito della Fondazione
Giannino Bassetti: <www.fondazionebassetti.org> This page belongs to the Giannino Bassetti Foundation Web Site: <www.fondazionebassetti.org> |